T.A.R. Lazio Roma Sez. III quater, Sent., 19-05-2011, n. 4376 Bando del concorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il primo dei ricorsi in epigrafe indicati (13306/97) gli istanti, dipendenti dell’INPS, impugnavano la deliberazione del Consiglio di amministrazione dell’Istituto dell’8.7.1997, con cui era bandito il concorso per titoli e colloquio a 79 posti di dirigente amministrativo e 10 posti di dirigente informatico, avendo presentato domanda di partecipazione alla selezione.

Deducevano a tal fine i seguenti motivi di gravame:

1 – violazione e falsa applicazione dell’art. 28, d.lgs. n. 29 del 1993, eccesso di potere per presupposto erroneo, sviamento di potere, perplessità, manifesta illogicità, essendo, asseritamente, illogico il criterio inserito nel bando di valutazione dei soli incarichi e servizi svolti nei nove anni antecedenti alla data di indizione del concorso, né lo stesso trovando corrispondenza nel d.P.C.M. n. 439 del 1994;

2 – violazione e falsa applicazione dell’art. 21, d.P.C.M. n. 439 cit, eccesso di potere e sviamento poiché i punteggi previsti dal bando sono difformi da quelli di cui al cit. art. 21, incidendo peraltro in maniera percentualmente differente sul risultato finale;

3 – eccesso di potere per contraddittorietà, a fronte del richiamo dell’art. 28, d.lgs. n. 29 del 1993, senza che ne sia rispettato il disposto per quanto concerne i limiti temporali dei titoli valutabili;

4 – eccesso di potere per difetto di motivazione, in quanto non sono spiegati i motivi per cui è rispettato il dettato del menzionato art. 21.

Si costituiva l’INPS, sostenendo l’infondatezza del ricorso.

Con il secondo ricorso (17653/99), Marilena di Giovine, collocatasi al posto n. 197 della graduatoria, con punti 20,24, impugnava in parte qua la deliberazione n. 210 del 20.7.1999, con cui l’INPS approvava la graduatoria del concorso per dirigente, nonché i criteri di valutazione adottati dalla Commissione e le valutazioni effettuate in ordine all’attribuzione dei punteggi vari, deducendo:

1 – violazione degli artt. 25 e 28, d.lgs. n. 29 del 1993 e del d.P.C.M. n. 439 del 1994, irragionevolezza, disparità di trattamento, difetto di motivazione, contraddittorietà ed illogicità;

2 – invalidità derivata dall’illegittimità del bando ed erroneità del punteggio assegnato in forza dell’incongrua valutazione dei titoli contenuti nel fascicolo personale della ricorrente;

3 – illogicità dei criteri di massima stabiliti dalla Commissione nella seduta del 3.2.1998 per la valutazione dei titoli inseriti nelle tabelle B, C e D;

4 – illegittimità dei punteggi assegnati alla ricorrente e mancanza della firma della valutazione da parte dei componenti della Commissione.

Anche in questa sede l’Istituto si costituiva chiedendo la reiezione del gravame.

Con il terzo ricorso (17655/99), anche Alberto D’Angelo, collocatosi al posto n. 200 con punti 20,20, impugnava in parte qua la deliberazione n. 210 di approvazione della graduatoria proponendo i medesimi motivi di illegittimità.

L’INPS replicava come nel ricorso che precede.

Con una prima sentenza n. 5432 del 2004, la Sezione III di questo Tribunale, decidendo parzialmente sui tre ricorsi in epigrafe, previa riunione, li dichiarava improcedibili per sopravvenuto difetto di interesse nei confronti di Di Giovine e D’Angelo, in quanto era risultato che gli stessi avevano ottenuto una sentenza favorevole presso il giudice del lavoro di Latina (nn. 2192 e 2193 del 2003), che aveva loro riconosciuto il diritto alla nomina a dirigente amministrativo con costituzione del rapporto dalla data di approvazione della graduatoria; per il resto relativamente al ricorso n. 13306/97, la Sezione aveva disposto incombenti istruttori.

Tale sentenza risultava, però, parzialmente riformata con rinvio al primo giudice, dal Consiglio di Stato, Sez. VI, che con la sentenza n. 5232/05 rilevava l’erroneità del giudizio di improcedibilità, in quanto le sentenze del Tribunale di Latina non erano passate in giudicato, e la mancanza di integrità del contraddittorio.

Con ulteriore sentenza n. 133 del 2005, il TAR decideva la parte rimanente della causa di cui al ricorso n. 13306/07, poiché G.L. si era collocato utilmente in graduatoria, mentre gli altri ricorrenti non avevano impugnato l’atto finale della procedura concorsuale, determinando l’improcedibilità per carenza di interesse sopravvenuta nei confronti di tutti gli altri ricorrenti.

Tale sentenza non impugnata risulta passata in cosa giudicata.

Successivamente la Sezione medesima prendeva nuovamente in esame il ricorso 13306/97, a seguito del rinvio operato dal Consiglio di Stato, individuando nei soli ricorrenti Di Giovine e D’Angelo i soggetti interessati alla prosecuzione del giudizio ed evidenziando che detto ricorso riguardava unicamente l’impugnazione del bando e non disponeva l’integrazione del contraddittorio. Pertanto, con la sentenza n. 14923 del 2005 respingeva nel merito il ricorso n. 13306 del 1997.

Anche tale sentenza era riformata dal Consiglio di Stato Sez. VI (dec. N. 5112/07) con ulteriore rinvio al primo giudice, per mancanza agli atti della notifica del decreto di fissazione di udienza di discussione agli avvocati costituti dei ricorrenti D’Angelo e Di Giovine, sia perché era stato preso in esame solo il primo dei tre ricorsi, pur risultando già gli stessi riuniti.

Conseguentemente, questa Sezione, con sentenza interlocutoria n. 7958 del 2008 ordinava l’integrazione del contraddittorio, anche a mezzo di pubblici proclami nei confronti di tutti i candidati utilmente collocatisi in graduatoria, venendo in discussione anche la graduatoria finale.

Pertanto, accertata l’avvenuta integrazione in ottemperanza all’ordine del giudice, la causa, a seguito del deposito delle memorie e della discussione in udienza pubblica era decisa con sentenza n. 2131 del 2009, che respingeva i ricorsi.

Con ulteriore decisione n. 3345 del 2010, il Consiglio di Stato, sez. VI, tuttavia disponeva ulteriormente il rinvio della causa al primo giudice al fine del riesame per violazione dell’art. 51, n. 4 c.p.c. ovvero dell’obbligo del giudice di astenersi quando lo stesso abbia conosciuto la causa in altro grado del processo.

Pertanto, tornati nuovamente all’esame della Sezione i ricorsi sopra descritti, a seguito del deposito delle memorie, con cui erano ribadite le posizioni delle parti, venivano trattenuti in decisione all’udienza pubblica del 5.4.2011.
Motivi della decisione

Osserva il Collegio che con i tre ricorsi sopra specificati era impugnata la procedura concorsuale indetta dall’INPS per la copertura di 79 posti di dirigente amministrativo. In particolare, con il primo si contestava il bando e con gli altri due i criteri di assegnazione dei punteggi ai titoli stabiliti dalla Commissione e la concreta applicazione di tali criteri, nonchè la graduatoria finale. I ricorsi, secondo quanto ribadito dal Consiglio di Stato, sono stati già riuniti e dunque, deve procedersi alla loro decisione congiunta.

Preliminarmente deve evidenziarsi che il presente contenzioso, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di questa Sezione n. 133 del 2005, riguarda unicamente i ricorrenti Di Giovine e D’Angelo.

Altresì, in via del tutto preliminare, deve ribadirsi la mancanza di effetti delle pronunzie poste in essere dal giudice rivelatosi incompetente, non potendosi tecnicamente applicare il principio della traslatio judicii, che trova applicazione unicamente al fine di inibire pronunce di decadenza o prescrizione nel caso in cui il giudizio debba proseguire dinanzi al giudice competente e non anche ai fini di vincolare la decisione di merito di quest’ultimo.

Nel merito il collegio ritiene che i ricorsi siano infondati.

Quanto al primo va rilevato che nessuna norma impediva all’Istituto di fissare discrezionalmente il limite di valutabilità di alcuni titoli e, peraltro, tale limite non appare irragionevole in funzione del disposto di cui all’art. 21, d.P.C.M. sopra citato.

Va inoltre rilevato che le indicazioni contenute nel predetto decreto non possono essere intese nel senso di annullare del tutto l’autonomia organizzativa istituzionalmente riconosciuta all’INPS ai fini della fissazione dei limiti massimi di attribuzione del punteggio.

Da ultimo, appare insussistente il censurato difetto di motivazione in quanto non può trovare applicazione nella specie, in ragione della natura dell’atto impugnato, l’art. 3, l. n. 241 del 1990.

Con riferimento al secondo ed al terzo dei ricorsi in esame, non possono trovare adesione le censure che reiterano i vizi dedotti con il primo ricorso nei confronti del bando, per quanto già sopra evidenziato.

Con il terzo motivo sollevato in entrambi i ricorsi, vengono censurati i criteri di massima stabiliti dalla Commissione. Sul punto, va precisato che la specificazione operata dalla commissione è avvenuta nell’ambito dei limiti già fissati dall’art. 6 del bando. Con riferimento specifico ai criteri relativi alla tabella B, le censure non possono essere condivise. Infatti, per un verso non appare contrastare con i principi generali la fissazione di un termine per il deposito delle attestazioni che non sembra in alcun modo lesivo della par condicio tra i concorrenti. Non risulta inoltre confermato che la Commissione abbia inteso includere nei titoli i lavori rientranti nell’attività d’ufficio, dovendo pur tuttavia valutare nell’ambito dei lavori originali quelli che avessero attinenza con l’attività d’interesse. Sotto altro aspetto corrisponde ai canoni di garanzia della trasparenza e dell’obiettività del giudizio la predeterminazione da parte della Commissione di criteri più stringenti per l’attribuzione del punteggio, nell’ambito di quanto stabilito già dal bando.

Pertanto, appare infondata la censura relativa all’attività posta in essere dalla Commissione in ordine alla predisposizione dei criteri sia con riferimento ai lavori originali che ai lavori di gruppo, rientrando nei poteri della stessa la valutazione dei lavori medesimi nell’ambito del punteggio stabilito dal bando.

Analoga conclusione deve essere seguita per quanto concerne la tabella C, relativa alle pubblicazioni scientifiche.

Non trova poi conferma quanto dedotto dai ricorrenti in ordine alla mancata valutazione da parte della Commissione non solo della durata ma anche della rilevanza dei corsi di qualificazione professionale di cui alla tabella D, proprio in virtù di quanto specificamente affermato dalla Commissione.

In relazione alle censure che in particolare attengono ai punteggi attribuiti ai due candidati, va rilevato che per tabulas non risulta fondato il motivo dedotto da entrambi i ricorrenti, con cui è censurata la mancanza di sottoscrizione della valutazione. Infatti, nelle schede di valutazione relative alla posizione degli odierni interessati, depositate in atti dall’INPS, risulta apposta la firma del Presidente, del Segretario e dei componenti della Commissione.

In ordine alla posizione di entrambi i ricorrenti, va rilevato che non possono trovare riscontro le censure attinenti alla mancata valutazione dei titoli relativi al periodo anteriore ai nove anni previsti dal bando, per quanto già esposto in ordine al mancato accoglimento delle censure riferite la bando medesimo con il primo ricorso.

In relazione alla valutazione dei titoli della ricorrente Di Giovine, va precisato che da quanto emerge agli atti:

il punteggio assegnato ai titoli della tab. A risulta essere il frutto di una mera operazione matematica;

la mancata valutazione degli asseriti servizi speciali deriva evidentemente dalla riconducibilità all’ordinaria attività dell’ufficio;

la mancata valutazione di alcuni lavori come originali deriva dalla non riconducibilità degli stessi alla categoria predetta per il solo fatto di essere derivati dalla partecipazione a gruppi di lavoro;

la valutazione del corso di durata settimanale trova piena corrispondenza nel punteggio assegnato, mentre non risultano valutabili i corsi di mero aggiornamento e non specificatamente finalizzati allo sviluppo di capacità manageriali;

la mancata valutazione dell’abilitazione all’insegnamento si basa sul fatto che la stessa non è riconducibile alla categoria dell’abilitazione professionale.

Con riferimento poi alle ulteriori censure relative specificamente alla posizione del ricorrente D’Angelo, si deve precisare che:

la mancata valutazione dei progetti ARPA e ECO discende dalla non riconducibilità dei medesimi a quelli finalizzati alla definizione i linee di revisione organizzativa ed alla soluzione di problemi di particolare rilevanza per il miglioramento qualiquantitativo dei servizi;

la mancata valutazione di alcuni corsi deriva anche in questo caso dalla non valutabilità dei corsi di mero aggiornamento e non specificatamente finalizzati allo sviluppo di capacità manageriali.

Da ultimo, deve evidenziarsi che l’apprezzamento del Manuale operativo e di due delle pubblicazioni prodotte, risulta sottratto al sindacato giurisdizionale, rientrando nell’ambito della discrezionalità tecnica dell’amministrazione e non apparendo – nella specie – viziato da manifesta illogicità.

Infine deve richiamarsi la costante giurisprudenza del giudice amministrativo in ordine alla legittimità della modalità di espressione della valutazione tramite attribuzione del punteggio numerico, che nella fattispecie sottoposta all’esame del Collegio va ribadita anche in considerazione dell’analitica articolazione della valutazione medesima, come descritta dal bando e successivamente specificata dalla Commissione.

Per tutto quanto sin qui esposto, i ricorsi devono essere respinti.

Considerata la complessità della fattispecie, sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite tra le parti.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater)

definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti, come in epigrafe proposti, li respinge. Compensa le spese di lite tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 13-04-2011) 01-06-2011, n. 21843 Violenza sessuale

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Svolgimento del processo

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – L’odierno ricorrente è stato giudicato responsabile di violenza sessuale in danno di una ragazza che egli riforniva abitualmente di cocaina e con la quale aveva anche realizzato un rapporto di frequentazione e di confidenza. Il fatto si sarebbe verificato un giorno che i due avevano già trascorso del tempo insieme in piscina e poi si erano recati a casa dell’imputato dove avevano anche consumato insieme cocaina.

Secondo la denunciante, improvvisamente l’uomo aveva cambiato atteggiamento e l’aveva costretta a subire vari atti sessuali fino ad un rapporto completo che, a detta della ragazza, ella non aveva ostacolato con una resistenza particolare per limitare i danni ed essendo spaventata da quell’improvviso cambio di atteggiamento dell’uomo. Alla fine, l’imputato le aveva offerto della cocaina da lei rifiutata. Riferisce la p.o. che, in vista della denuncia che ella aveva subito deciso di sporgere, si era impossessata del preservativo usato nascondendolo in borsetta. Erano usciti insieme da casa dello J. essendo stata la donna attesa dal proprio fidanzato (che, nell’occorso, diede anche un passaggio allo J.).

Come confermato, poi, dal fidanzato della ragazza, appena liberatisi della presenza dell’imputato, ella riferì dell’accaduto.

Della cosa era stato informato anche il fratello della p.o. che aveva collaborato alle prime ricerche per il rintraccio, senza successo, dello J. e, quindi avevano provveduto ad accompagnare la ragazza a sporgere denuncia. Il preservativo, esaminato, aveva evidenziato la presenza di tracce organiche compatibili con quelle dell’imputato il quale, in seguito, per parte sua, non aveva negato il rapporto sostenendo però, che esso era stato consensuale.

In sede di rintraccio e perquisizione dell’appartamento, lo J. era stato trovato in compagnia di altre ragazze che riferivano di essersi recate lì per acquistare del "fumo". Inoltre, erano state rinvenute tracce di sostanza stupefacente nonchè un bilancino di precisione e delle somme contanti di denaro in vari luoghi (anche occultate in un cuscino).

Con la sentenza qui impugnata, la Corte d’appello ha confermato la decisione di primo grado.

Avverso tale decisione, l’imputato ha proposto ricorso, tramite il difensore, deducendo:

1) violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al capo a) (violenza sessuale). In particolare, si critica il fatto che la Corte abbia annesso credibilità alle parole della p.o. che, al contrario, risulterebbero contraddittorie sotto più profili. Il primo aspetto riguarda l’asserita "costrizione" al rapporto sessuale che pacificamente si è verificato. Sul punto, la Corte non avrebbe spiegato i criteri ai quali si è ispirata per ritenere l’attendibilità della denunciante.

Ci si diffonde, poi, nel richiamare l’attenzione sul fatto, assodato, che tra la p.o. e l’imputato sussisteva un rapporto di amicizia e confidenza di tipo affettuoso e che non è stata raccolta prova certa circa il perdurare del dissenso durante tutto il rapporto. Tale dissenso non può desumersi in alcun modo ed è anzi contraddetto dal certificato del pronto soccorso che ha escluso la presenza di lesioni e sarebbe smentito anche dal comportamento dalla p.o. che, incontrando l’imputato in seguito in discoteca, avrebbe cercato di ottenere denaro per il ritiro della denuncia.

Inoltre, la critica del ricorrente investe le deposizioni dei testi a riscontro (il fidanzato ed il fratello della p.o.) dei quali viene richiamato l’intero contenuto evidenziando discrasie come il fatto di avere negato (il fratello) la conoscenza con lo J. venendo in ciò smentito. Si richiamano, poi, le dichiarazioni della teste a difesa, P., secondo la quale la D. le avrebbe confidato di avere litigato con J. per questioni attinenti la droga e di averlo denunciato per un rifiuto dell’uomo a fornirle altra sostanza.

Ancora, si richiamano altre imprecisioni delle dichiarazioni della D. (es. il fatto di non essere stata precisa sull’orario, di avere cambiato versione circa l’abbigliamento indossato – pantaloni e non fuseaux) e si conclude richiamando quelle decisioni della Corte di Cassazione in base alle quali le dichiarazioni della p.o. devono essere vagliate attentamente in modo da fondare il giudizio di responsabilità su indizi che siano gravi, precisi e concordanti;

2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ulteriore contestazione di spaccio mossa all’imputato, dal momento che neanche i verbalizzanti hanno potuto affermare di avere colto lo J. nell’atto di cedere droga;

3) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla pena, da considerare sproporzionata ed eccessiva rispetto alla modestia del fatto.

Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.
Motivi della decisione

2. – Il ricorso è infondato.

2.1. (Quanto al primo motivo). Il caso in esame è emblematico della necessità – sottolineata più volte da questa S.C. (ex multis, Sez. 4, 21.6.05, Poggi, Rv. 232018) – di vagliare con peculiare attenzione le dichiarazioni della p.o. denunciante ma anche della possibilità di fondare il convincimento di responsabilità per un fatto che – come spesso è la violenza sessuale – può essere provato solo mediante la parole della vittima-unica testimone oculare (da ult.

Sez. 3, 3.12.10, L.C., Rv. 249136).

E’ stato anche sottolineato, in proposito, che il giudizio di attendibilità della teste, "essendo di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene il modo di essere della persona escussa, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria" (sez. 3, 5.10.06, Agnelli, Rv. 235578).

Orbene, la infondatezza della presente doglianza si annida proprio nella concorrenza di tali fattori: da un lato, la esistenza di una valida motivazione e, dall’altro, l’erroneo sforzo del ricorrente di indurre questa S.C. ad una rivalutazione dei fatti per trame conseguenze diverse che, anche se astrattamente possibili, non possono rappresentare il risultato di un giudizio come quello qui invocato che è mirato esclusivamente a soppesare la esistenza di una motivazione congrua, rispettosa di tutele emergenze processuali e dibattimentali ed articolata in modo non manifestamente illogico nè contraddittorio.

Andando ad esaminare la prima doglianza più nello specifico, si riscontra, in primo luogo, che, piuttosto singolarmente, è proprio il ricorrente (f. 8) a riepilogare in modo sintetico ma chiaro ed efficace i punti salienti sui quali la Corte ha fondato il proprio vaglio di attendibilità: a) la immediatezza della denuncia; b) una ricostruzione ferma e puntuale dei fatti scevra da animosità e desiderio di rivalsa; c) la complessiva sincerità del racconto della donna, riscontrabile non solo attraverso le testimonianze del fidanzato e del fratello della ragazza ma anche nel fatto di indicare tali persone come, a loro volta, acquirenti di cocaina; d) la illustrazione di un contesto – quello di assunzione smodata di droga ed alcool- nel quale si erano verificati i fatti che avrebbe potuto prestarsi anche a "letture" sfavorevoli alla credibilità della donna; e) la irrilevanza del referto di pronto soccorso (negativo a proposito di eventuali tracce di violenza).

Dopo tale dettagliata elencazione -come se non risultasse sufficientemente chiara -la replica del ricorrente è che la Corte non avrebbe spiegato i criteri ai quali si è ispirata per sostenere la attendibilità dei testi posto che la violenza sarebbe stata smentita dalla assenza di un referto medico a riguardo.

Se già tali rilievi risultano alquanto dissonanti sul piano logico con la molteplicità degli argomenti svolti – per ammissione dello stesso ricorrente – dalla Corte vi è da soggiungere che anche, nel prosieguo, gli argomenti svolti a sostegno del ricorso risultano evanescenti e tutti tesi a valorizzare aspetti della vicenda che, anche se presi in considerazione, nulla tolgono alla completezza e congruità della motivazione impugnata.

Ed infatti, ricordare che la vittima e l’imputato erano legati da un rapporto di amicizia e confidenza è irrilevante posto che è la stessa persona ad ammetterlo (prova ne siano il fatto stesso che ella, il giorno dei fatti, trascorse del tempo insieme allo J. in piscina e, quindi accedette all’incontro a casa sua per consumare insieme droga ed alcool e – potrebbe qui aggiungersi – anche la circostanza che, ad attenderla all’uscita da casa dello J., vi era proprio il fidanzato della ragazza a dimostrazione di una "naturalezza" di frequentazione del tutto incontestata).

Quanto alla non significatività del certificato di pronto soccorso, l’argomento non è per nulla illogico nel presente contesto ed il richiamarlo si risolve solo in uno sforzo di ottenere un ulteriore giudizio di merito.

In realtà, deve, innanzitutto ricordarsi che, per il delitto di violenza sessuale, l’elemento della violenza non è mai Stato identificato (neanche in epoca lontana vigente altra normativa, Sez. 3, 26.1.71, visconti, Rv. 118296) nella necessità di una "vis atrox" essendo sufficiente la costrizione ad un consenso viziato anche, ad esempio, attraverso un’azione insidiosamente rapida così da superare la contraria volontà del soggetto passivo (sez. 3, 27.1.04, Rv.

228493) ovvero – come sembra suggerire il caso di specie – l’approfittamento di un contesto di peculiare "abbandono" indotto da assunzione massiccia di droga ed alcool cui si aggiunga il fatto – riferito espressamente dalla vittima – di avere (di proposito) evitato – di fronte agli approcci sessuali, atteggiamenti di resistenza ad oltranza che avrebbero potuto risolversi in un aggravamento delle conseguenze.

Di certo, quindi, su tali premesse, è del tutto irrilevante l’assenza di lesioni riscontrate o riscontrabili sulla vittima.

Si potrebbe, però, obiettare che tutto ciò è il risultato del mero racconto della vittima ma, si ribadisce, contrariamente a quanto assume il ricorrente, la Corte ha bene argomentato il proprio convincimento a proposito della credibilità della ragazza valorizzando la linearità del suo comportamento e l’assenza di un qualsivoglia motivo o intento calunniatorio. L’intento di denuncia non può neppure essere messo in dubbio dal fatto che la ragazza non riferì l’accaduto immediatamente al proprio fidanzato quando lo incontrò sotto casa ma attese che si allontanasse lo J., sia, perchè si tratta di condotta agevolmente spiegabile con un istintivo riservo "a caldo" e con il timore di potenziali reazioni violente del fidanzato contro lo J., sia perchè la indubitabile volontà della ragazza di denunciare lo J. per i rapporti sessuali impostile si evince dal fatto che ella aveva subito conservato il preservativo sporco con tracce del liquido seminale dell’imputato.

Quest’ultimo, poi, per parte sua, non negando i rapporti ma assumendone la con sensualità, non ha spiegato al contempo il motivo per cui la ragazza avrebbe dovuto intessere una denuncia così grave e falsa a suo carico (fine f. 4).

Con argomentare logico ed esauriente la Corte replica anche alle (analoghe alle presenti) censure svolte dal ricorrente a proposito delle discrasie che affliggerebbero le dichiarazioni della D..

Si fa, infatti, notare che le imprecisioni (afferenti "l’orario in cui l’amico di J. avrebbe suonato il campanello della sua abitazione o l’esatta tipologia del capo di abbigliamento indossato dalla p.o. – se pantaloni o fuseaux -) (f. 4 ) del racconto della ragazza sono del tutto "marginali ed insignificanti agli effetti di stabilire se la dinamica del fatto fu quella di un rapporto consensuale o invece di una violenza sessuale (f. 3).

Per contro, giustamente i giudici richiamano l’attenzione sul fatto che l’esame dibattimentale della D. è avvenuto "a distanza di un anno e mezzo dall’episodio criminoso" sì che la presenza di piccole imprecisioni "appare semmai indicativa della genuinità e dell’assenza di qualsiasi studiata preparazione della testimonianza" la cui attendibilità viene dunque confermata.

Del resto, anche questa S.C. ha avuto occasione di pronunciarsi sul fatto che persino l’assenza di indicazioni precise sulla collocazione temporale della violenza denunciata può essere dettaglio irrilevante a fronte del complesso di ulteriori elementi idonei a riscontrare il fatto (sez. 3, 14.12.05, Brugnoli, Rv. 234632).

In ogni caso, la Corte ha mostrato di avere vagliato con attenzione tanto il racconto della ragazza che quello dell’imputato sottolineando la incongruenza dell’affermazione di quest’ultimo secondo cui il rapporto incriminato avrebbe fatto seguito ad altro del giorno precedente senza che fosse stato spiegato (f. 4), però, per quale ragione – se vera la tesi – la D. avrebbe dovuto denunciare solo il secondo rapporto e non anche il precedente "tanto più che trattandosi di un rapporto protetto dall’uso del preservativo la ragazza non poteva correre alcun rischio per la propria salute fisica".

E’, dunque, incensurabile la conclusione logica della Corte secondo cui a seguire la difesa dell’imputato, si dovrebbero ipotizzare " un malanimo ed un intento dichiaratamente calunnioso nei confronti dell’imputato che non trova alcun riscontro nella condotta processuale complessiva della D.". Al contrario, sottolineano i giudici: "dalla lettura del verbale della deposizione testimoniale della ragazza emerge una ricostruzione ferma e puntuale, ma pacata, dell’episodio criminoso, priva di qualsiasi accento di animosità o sentimento di rancore e rivalsa verso l’imputato, nei cui confronti la D. non si è neppure costituita parte civile".

Significativamente, poi, la Corte sottolinea alcuni passaggi della deposizione della donna dai quali si evince quasi uno sforzo della stessa – dicono i giudici – "perfino di comprendere" (ma non giustificare, vista la denuncia) come quando afferma "secondo me, lui si è reso conto di quello che stava facendo perchè….cioè, secondo me ha avuto un raptus momentaneo o qualcosa".

Nessun dubbio, poi, che nella specie non ricorrono solo le parole della p.o. ma anche quelle del fratello e del fidanzato ( D. G. e Z.M.) le dichiarazioni dei quali – sottolineano i giudici di merito – sono risultate confermative di quelle della D. "visto che le difformità enfatizzate nei motivi di appello riguardano essenzialmente, non già il contenuto di quanto i testi avevano appreso de relato dalla parte offesa" bensì altre circostanze relative ai loro rapporti con l’imputato caratterizzati da scambi di cocaina sui quali ben poteva essere comprensibile una certa reticenza per timore di conseguenze.

Nè, infine, le accuse della D. sono state validamente inficiate dal ricorrente con il richiamo alle diverse affermazioni della teste P.. Anche su tale aspetto la replica della Corte risulta logica e convincente sottolineandosi, in primo luogo, (f. 6) che questa teste della difesa è comparsa per la prima volta in dibattimento (mai emersa nella fase delle indagini preliminari) ed ha riferito aspetti irrilevanti o incredibili. Insignificante è infatti ciò che ella ha riferito di avere appreso dall’imputato circa i rapporti don la D. che, comunque, vengono descritti come amichevoli (a conferma di un dato già acquisito dalla stessa D.); non credibile è l’episodio estorsivo al quale avrebbe assistito, sia perchè – come ricordato anche dalla D. nel confronto sostenuto in primo grado – ella fu subito resa edotta dalla P.G. della irretrattabilità della querela che stava sporgendo a carico di J., sia perchè è inverosimile che un tale tentativo di estorsione, da parte della D., fosse fatto in presenza di una estranea la P. ("pronta a testimoniare in favore di J.) (fr. 6).

2.2. (quanto al secondo e terzo motivo). I motivi svolti per dolersi della condanna per violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e della pena inflittagli sono accomunati dal fatto di essere sostanzialmente inammissibili perchè generici e, comunque, in fatto.

Il tutto a fronte di una motivazione che, ancora una volta risulta puntuale, chiaramente agganciata alle emergenze processuali e del tutto logica.

Dicono infatti i giudici che, per quel che attiene alle cessioni di sostanza stupefacente di cui ai capi B) e C) va, innanzitutto ricordato che l’imputato è reo confesso sia delle cessioni alla D. che di quelle alla coppia T. – H. la cui presenza, peraltro, è stata accertata direttamente dalla P.G. come pure sono state confermate nel dibattimento precedenti cessioni.

Evocare, quindi, il fatto che lo J. non sia stato colto nell’atto di cedere droga è del tutto inconferente sia per la presente sede di legittimità, sia perchè, ai fini della declaratoria di responsabilità esiste una più che valida giustificazione.

Anche la doglianza sulla pena – che pecca di sostanziale assertività – è manifestamente infondata per l’ulteriore considerazione che tanto è vero che i giudici hanno dato contezza della loro decisione che hanno accolto il motivo di appello sul punto riducendo la pena inflitta in primo grado sul rilievo che fosse necessario "adeguare la risposta sanzionatoria alla effettiva gravità del fatto ed alla reale capacità a delinquere mostrata dall’imputato". A tal fine la Corte ha ritenuto di dover tener conto "della peculiarità del contesto ambientale e circostanziale in cui si colloca lo specifico episodio criminoso con particolare riguardo alla situazione concretamente determinatasi per effetto del consumo smodato di sostanze stupefacenti (oltre che alcoliche)".

Se si tiene conto che questa S.C. ha spesso ricordato (sez. 2, 26.6.09, Denaro, Rv. 245596; Sez. 6, 12.6.08, Bonarrigo, Rv. 241189;

Sez. 2, 19.3.08, Gasparri, Rv. 239754) Che una Specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 c.p., le espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congrue aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere) è fin troppo evidente l’accuratezza del vaglio operato dalla Corte anche in punto di pena.

Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Visti l’art. 615 c.p.p., e ss.;

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 26-10-2011, n. 22293 Accertamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società contribuente propose ricorso avverso avviso di accertamento iva per l’anno 1996.

L’adita commissione tributaria accolse il ricorso, con sentenza confermata, in esito all’appello dell’Agenzia, dalla Commissione regionale.

Nel suo nucleo essenziale, la motivazione dei giudici di appello è così motivata: "II giudice di primo grado ha tenuto in particolare conto il tipo di attività (vivaistica) svolta dal contribuente a cui sono connessi tutta una seri di rischi. Infatti nella fase di germogliazione e di germinazione una pluralità di fattori esterni, non tutti documentalmente dimostrabili, ma insiti nella natura, agricola della attività, influiscono sul processo produttivo, cosicchè il quantitativo di semi non è mai corrispondente al numero delle piante prodotte. Ne consegue quindi che dal quantitativo di semi acquistato non è mai possibile desumere il quantitativo di prodotto finito. Ciò anche a non voler considerare che il p.v.c. della G.d.F. era redatto a seguito di un accesso effettuato in un momento successivo alla conclusione del ciclo produttivo, ed in particolare era riferito ad annualità pregresse rispetto al momento di accertamento. Quanto detto toglie valenza alla presunzione applicata dalla G.d.F. e recepita dall’Ufficio, di esistenza di maggiori ricavi dal momento che la presunzione applicata seppure parte da un fatto certo – quantitativo di semi acquistati – stante le incognite intermedie non può dar luogo ad una altrettanto certa conclusione";

Avverso la sentenza di appello, l’Agenzia ha proposto ricorso per cassazione in unico motivo, deducendo "difetto di motivazione su punti decisivi della controversia… violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d)".

L’Agenzia ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione

Il ricorso si rivela carente già sul piano della sommaria esposizione dei fatti di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non recando descrizione del contenuto dell’atto impugnato e puntuale indicazione delle rispettive posizioni delle parti nei pregressi gradi del giudizio e, comunque, su quello dell’autosufficienza, non evidenziando gli elementi di valutazione inducenti ad una conclusione opposta a quella del giudice a quo.

Esso introduce, peraltro, un sindacato in fatto non consentito in sede di legittimità. A fronte di una motivazione in base alla quale il giudice a quo ha dato conto, attraverso disamina degli elementi di valutazione disponibili, del conseguito convincimento circa l’inidoneità del procedimento presuntivo posto a fondamento dell’accertamento, l’Agenzia – pur apparentemente prospettando una violazione di legge e una carenza di motivazione – rimette, in realtà, in discussione, contrapponendovene uno difforme, l’apprezzamento in fatto del giudice del merito, espresso con motivazione in sè coerente e, in quanto tale, sottratto al sindacato di cui al presente giudizio di legittimità (giacchè, in tale ambito, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione; cfr. Cass. 22901/05, 15693/04, 11936/03).

Alla luce degli esposti rilievi, il ricorso va respinto.

Per la soccombenza, l’Agenzia ricorrente va condannata alla refusione delle spese di causa, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

la Corte: respinge il ricorso; condanna l’Agenzia ricorrente alla refusione delle spese di causa, liquidate in complessivi Euro 1.900,00 (di cui Euro 1.800,00, per onorario) oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 07-07-2011, n. 503 Efficacia della legge nel tempo e nello spazio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – In via preliminare deve disporsi la riunione di tutte le impugnazioni indicate nell’epigrafe che devono essere obbligatoriamente riunite a norma dell’art. 96, comma 1, c.p.a., perché dirette contro la medesima decisione. Va anche riunito il ricorso allibrato a registro generale con il n. 844/2010, sussistendo una evidente connessione oggettiva e soggettiva con l’oggetto delle cause trattate (su cui infra). Tanto premesso, il Collegio ritiene che i ricorsi emarginati si prestino a una definizione con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 74 del codice del processo amministrativa (di seguito: "c.p.a."), in ragione della loro manifesta improcedibilità.

2. – Ed invero, la pronuncia a vario titolo avversata, insieme ad altre che hanno costituito oggetto di distinte, seppur analoghe impugnazioni, si inserisce nell’ambito di una complessa vicenda contenziosa sulla quale si è pronunciata recentemente l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 2 del 9 marzo 2011. Pur vertendo principalmente detta ordinanza su una questione di conflitto di competenza a norma dell’art. 10 del D.Lgs. 373/2003, nondimeno nell’occasione l’Adunanza ha affrontato, nel merito, anche il tema dei rapporti tra i poteri esecutivi di questo Consiglio rispetto ai propri pronunciati (e, quindi, nello specifico, rispetto alle decisioni sopra richiamate) e gli effetti scaturiti dall’approvazione della L. 3 dicembre 2010, n. 202 (Norme per la salvaguardia del sistema scolastico in Sicilia e per la rinnovazione del concorso per dirigenti scolastici indetto con decreto direttoriale 22 novembre 2004, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, 4° serie speciale, n. 94 del 26 novembre 2004) e dalla conseguente emanazione del decreto attuativo del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca del 3 gennaio 2011, atti con i quali è stata disposta, per via normativa, la rinnovazione della procedura concorsuale diretta alla selezione di dirigenti scolastici, a suo tempo annullata da questo Consiglio per violazione del principio di perfetta collegialità nella costituzione delle sottocommissioni. Con riferimento a tale aspetto della vicenda, nel punto

8. della motivazione della succitata ordinanza n. 2/2011, il Supremo Consesso ha espressamente statuito quanto segue: "In ordine a tale ultimo aspetto, la sopravvenienza di una legge che ridisciplina proprio gli atti e l’attività amministrativa che era stata dapprima oggetto di sindacato giurisdizionale, determina, ad avviso dell’adunanza, l’effetto di scollegare la vicenda, assoggettata a nuova legge per il noto principio di legalità, dalla mera fase esecutiva del giudicato (nel senso che la sopravvenienza di una legge-provvedimento avente lo stesso contenuto di un provvedimento amministrativo impugnato in sede giurisdizionale rende improcedibile il relativo ricorso, tra tante, Consiglio di Stato, IV, 23 settembre 2004, n. 6219).

Il doppio intervento provvedimentale, costituito da una norma di legge e da un decreto del Ministro, che della norma primaria è attuazione, consente di ritenere che esso incida sia sulla vicenda amministrativa passata che su quella futura.

Sulla vicenda passata, i suddetti atti incidono perché integrano sopravvenienze sia di diritto che di fatto, e quindi superandola e privandola in parte dei suoi effetti; per il futuro, la rinnovazione della attività amministrativa non può più dirsi dovuta quale adempimento a seguito di pronunce demolitorie e di ottemperanza del potere giurisdizionale, ma si concretizzerà in attività che sarà, per il rispetto del principio di legalità, esecutiva della legge n. 202 del 2010 e del decreto del Ministro che di detta legge costituisce attuazione, sia pure sulla base del dato storico che la legge è stata occasionata dalle vertenze giurisdizionali.

Il decreto del Ministro, in particolare, si pone come atto-presupposto della successiva attività amministrativa concorsuale, in quanto chiude un procedimento o un sub-procedimento e consuma la discrezionalità amministrativa, ponendosi come vincolante rispetto all’ulteriore corso, alla stregua della lex specialis di una procedura concorsuale (così per esempio, Consiglio Stato, sez. VI, 30 dicembre 2005, n. 7620 sul bando di concorso).

La legge n. 202 del 3 dicembre 2010 e il decreto del Ministro del 3 gennaio 2011 già hanno dettato regole e criteri per la rinnovazione della procedura concorsuale, che seguirà quale attività consequenziale.". (la sottolineatura è stata aggiunta).

I passaggi motivazionali sopra evidenziati esprimono in modo eloquente le ragioni della sopravvenuta improcedibilità delle impugnazioni in esame. Essendosi difatti irrimediabilmente prodotta nella fattispecie, per effetto dell’entrata in vigore della L. n. 202/2010, un’interruzione, rilevante sia per il passato sia per il futuro, del nesso di collegamento tra la vicenda oggetto delle impugnazioni straordinarie e la fase esecutiva delle decisioni avversate, allora è del tutto evidente che le suddette decisioni non potranno mai essere portate ad esecuzione in quanto ormai private, per legge, di qualunque efficacia. L’ulteriore conseguenza di detto argomentare è che gli opponenti e i ricorrenti per revocazione (sui quali v. anche infra) hanno perso qualunque interesse alla coltivazione dei gravami proposti, dal momento che, in radice, non si è determinata per il passato né potrà prospettarsi in futuro alcuna relazione di incompatibilità tra le situazioni giuridiche dagli stessi fatte valere con i ricorsi indicati nelle premesse e le impugnate decisioni di questo Consiglio.

Nemmeno residua un interesse morale alla coltivazione delle opposizioni e delle revocazioni, giacché – giova ribadirlo – l’annullamento della procedura concorsuale disposto dal C.G.A. è scaturito dall’accoglimento di un motivo diretto a far valere un’illegittimità procedurale e, quindi, il Consiglio non è in alcun modo entrato nel merito della valutazione delle prove di esame dei candidato risultati vincitori.

3. – Ad identiche conclusioni deve pervenirsi per quanto concerne il ricorso n. 844/2010 r.g., proposto in riassunzione avanti al C.G.A. a seguito della decisione del Consiglio di Stato n. 3765 del 15 giugno 2010, con il quale sono stati impugnati gli atti ministeriali con i quali, nel 2009, fu disposta la rinnovazione delle operazioni concorsuali. Si tratta, a ben vedere, di un incidente di esecuzione (in questo senso è eloquente la motivazione della succitata decisione del Consiglio di Stato, laddove, alle pag. 5, 6 e 7, si è precisato che gli atti impugnati dai ricorrenti avanti al T.A.R. per il Lazio, in quanto adottati in esecuzione di giudicati del C.G.A. e comunque volti a contestare il modo in cui l’Amministrazione scolastica ha dato attuazione ai predetti giudicati possono essere conosciuti soltanto nell’ambito dei relativi giudizi in ottemperanza) per il quale valgono le medesime considerazioni sopra svolte sul punto della sopravvenuta improcedibilità delle plurime impugnative.

4. – I superiori rilievi si presentano dirimenti ai fini del decidere e prevalgono su ogni altra eccezione, difesa o istanza. Soltanto per completezza motivazionale, va precisato che il Collegio non ha accolto le istanze di rinvio della discussione, giacché un differimento della trattazione non avrebbe potuto sortire l’effetto di eliminare l’evidente causa di improcedibilità sopra individuata e, pertanto, l’ipotetico rinvio si sarebbe unicamente risolto in una violazione del principio di ragionevole durata del processo.

Infine, per mero scrupolo qualificatorio, occorre osservare che la revocazione iscritta a r.g. con il n. 742/2010 impropriamente è stata qualificata come tale: essa piuttosto si configura come un’opposizione di terzo in quanto proposta da soggetti che non parteciparono al giudizio al cui esito fu pronunciata la decisione ora avversata. Non ha pregio dunque invocare a sostegno della pretesa legittimazione processuale dei ricorrenti in revocazione remoti precedenti di questo Consiglio, risalenti (ed invero, erronea è l’indicazione degli estremi della decisione n. 344/1991, citata come "n. 344/2001") ad un epoca anteriore all’inserimento dell’opposizione di terzo nella trama degli istituti processuali amministrativi (innesto notoriamente risalente, inizialmente e in parte, alla sentenza della Corte costituzionale 17 maggio 1995, n. 177 e poi, definitivamente sancito dagli artt. 108 e 109 c.p.a.). La carente legittimazione dei suddetti ricorrenti a proporre una revocazione non rende tuttavia inammissibile la relativa impugnazione, in quanto la stessa può essere qualificata, per l’appunto, alla stregua di un’opposizione di terzo, a norma dell’art. 32, comma 2, secondo cui "Il giudice qualifica l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali. Sussistendone i presupposti il giudice può sempre disporre la conversione delle azioni".

5. – Atteso tutto quanto sopra osservato e considerato, il Collegio ritiene che ogni altra questione sia irrilevante o ininfluente ai fini del decidere.

6. – Nella natura della presente sentenza e nelle ragioni che la sorreggono si ravvisano giustificati motivi per compensare integralmente tra le parti costituite le spese processuali del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, riuniti i ricorsi emarginati, dichiara improcedibili le impugnazioni per opposizione di terzo e per revocazione e il ricorso n. 844 del 2010.

Compensa integralmente tra le parti costituite le spese del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.