Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 24-11-2010) 04-01-2011, n. 131 Porto abusivo di armi

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Svolgimento del processo e motivi della decisione

1) D.A.G. ha proposto ricorso avverso la sentenza 10 febbraio 2010 della Corte d’Appello di Palermo, sezione per i minorenni, che ha confermato la sentenza 7 aprile 2009 del Tribunale per i minorenni della medesima Città che, all’esito del giudizio abbreviato, l’aveva condannato alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 600,00 di multa per vari reati (tentato furto aggravato, porto d’arma, danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni volontarie) unificati dal vincolo della continuazione.

A fondamento del ricorso si deduce il vizio di motivazione per quanto attiene alla capacità di intendere e di volere del minore imputato e si evidenziano, nell’atto di impugnazione, le ragioni a fondamento dell’esclusione di tale capacità (in particolare la situazione familiare e l’uso di sostanze stupefacenti) evidenziandosi come le ragioni della condotta siano riconducibili al disagio psicologico e familiare del minore che ha inciso pesantemente sulla sua capacità di rendersi conto del disvalore delle condotte adottate.

Nel ricorso vengono poi indicati analiticamente gli atti e gli elementi che avrebbero dovuto indurre i giudici ad escludere l’imputabilità del minore e prodotti documenti atti a convalidare questa ipotesi.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce invece il vizio di motivazione con riferimento sia alla mancata concessione delle attenuanti generiche che alla mancata dichiarazione di prevalenza dell’attenuante della minore età sulle aggravanti riconosciute dai giudici di merito.

2) Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile perchè proposto per motivi non dedotti con i motivi di appello e per motivi non consentiti nel giudizio di legittimità.

Sotto il primo profilo deve rilevarsi che con l’appello proposto a mezzo del suo difensore l’imputato aveva censurato la sentenza di primo grado per la mancata concessione del perdono giudiziale e delle attenuanti generiche. Non si faceva invece alcun cenno, nell’atto di impugnazione, al tema dell’imputabilità del minore.

Non poteva dunque il ricorrente proporre la censura con il ricorso in Cassazione (che, al di là della formulazione del titolo del motivo, nella sostanza denunzia la violazione o l’erronea applicazione dell’art. 98 c.p.) che dunque è da ritenere inammissibile per il disposto dell’art. 606 c.p., comma 3, u.p..

Ma il motivo sarebbe comunque inammissibile perchè il suo esame richiederebbe una rivalutazione degli elementi analiticamente indicati in ricorso e del contenuto dei documenti allegati al ricorso che esula dai compiti del giudice di legittimità tanto più che le argomentazioni sul punto non sono state sottoposte ai giudici di merito.

3) Anche il motivo di ricorso riguardante la mancata concessione delle attenuanti generiche e la mancata dichiarazione di prevalenza dell’attenuante concessa va dichiarato inammissibile con la precisazione che, nel ricorso, si parla genericamente di prevalenza ma non è chiaro se la censura si riferisca all’attenuante già concessa (la minore età ritenuta equivalente alle aggravanti già nel giudizio di primo grado) o a quella di cui si chiede l’applicazione.

Il trattamento sanzionatorio – comprensivo del riconoscimento delle circostanze attenuanti e della loro comparazione con le eventuali aggravanti e della concessione dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione – rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito e così anche la determinazione della pena da infliggere in concreto che, per l’art. 132 c.p., è applicata discrezionalmente dal giudice che deve indicare i motivi che giustificano l’uso di tale potere.

In sede di legittimità è invece consentito esclusivamente valutare se il giudice, nell’uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento.

Nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai criteri indicati facendo riferimento, per motivare il diniego sulla richiesta formulata e sulla concessione del perdono giudiziale (motivo non riproposto in questa sede), alla gravità dei fatti commessi e all’impossibilità di formulare una prognosi favorevole per la propensione manifestata dal minore alla violenza nei confronti delle persone e delle cose.

La Corte di merito ha anche rilevato come il minore non abbia saputo beneficiare dei supporti fornitigli dopo i fatti e come la confessione fosse priva di valore per i fini indicati essendo egli stato colto nella flagranza di reato.

Questa valutazione, essendo congruamente e logicamente motivata, si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità. 4) Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso non consegue la condanna alle spese processuali e al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende trattandosi di imputato minorenne.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, dichiara inammissibile il ricorso.

In caso di diffusione del presente provvedimento dispone omettersi le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 17-11-2010) 26-01-2011, n. 2573 Circolazione stradale

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Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Bologna, con sentenza in data 10-11-2009, confermava la decisione del Tribunale di Ferrara con la quale Stefano D. all’esito di giudizio abbreviato era stato dichiarato colpevole per i reati legati dal vincolo della continuazione di cui all’art. 189 C.d.S., commi 6 e 7, e condannato alla pena di mesi nove di reclusione; dichiarato colpevole per il reato di guida in stato di ebbrezza alcolica e condannato alla pena di mesi sei di arresto ed Euro 2.000,00 di ammenda; dichiarato colpevole per il reato di guida in stato di alterazione psico fisica per uso di sostanze stupefacenti e condannato alla pena dì mesi sei di arresto ed Euro 2.000,00 di ammenda. Il Tribunale aveva anche disposto la sospensione della patente di guida per anni tre in riferimento ai reati ex art. 189 C.d.S., commi 6 e 7, nonchè la revoca della patente in relazione ai reati ex artt. 186 – 187 C.d.S., sussistendo l’aggravante della "recidiva nel biennio". 2. In fatto era avvenuto, secondo l’accusa, che il D. aveva provocato, a bordo della sua autovettura Mercedes, un incidente stradale andando a tamponare una vettura che lo precedeva regolarmente e che a sua volta andava ad urtare altro mezzo regolarmente incolonnato nella pubblica via. Egli non si era fermato per controllare le conseguenze dell’occorso e per prestare assistenza alle persone ferite. Inoltre, gli esami dell’alcol test poi eseguiti avevano accertato nell’imputato il tasso alcolemico di 2,09 e 2,13 g/l; nonchè il predetto era risultato positivo ai cannaboidi urinari rispetto ad un valore di soglia di 50 ng/ml di AC THC. 3. L’imputato proponeva ricorso per cassazione.

Censurava le valutazioni formulate dai Giudici di merito in ordine alla sua responsabilità per non essersi fermato e non avere prestato assistenza, rilevando che egli non si era reso conto della presenza di persone ferite, mentre aveva visto che i conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro erano rimasti illesi. Quindi doveva ritenersi insussistente l’elemento psicologico del reato, che neppure poteva essere qualificato, così come fatto dal Giudice di Appello, come dolo indiretto.

Rilevava che l’eseguito prelievo di liquidi biologici tramite l’urina, ai fini dell’esecuzione dei relativi esami, non aveva consentito di riscontrare con sicurezza la presenza attiva di sostanze appunto dotate di efficacia drogante al momento del sinistro. Piuttosto doveva ritenersi, secondo le indicazioni della scienza tossicologica, che solo l’analisi ematica avrebbe consentito di determinare con esattezza l’influenza della droga sul comportamento dell’individuo.

Affermava che erroneamente i Giudici avevano ritenuto la ricorrenza di "recidiva nel biennio", ai fini dell’applicazione della sanzione della revoca della patente (art. 186, comma 2, lett. c); art. 187, comma 1), atteso che il biennio avrebbe dovuto computarsi a far tempo dalla data di commissione del reato precedente e non dalla relativa sentenza di condanna definitiva.

Chiedeva l’annullamento della decisione impugnata.
Motivi della decisione

1. Il ricorso deve essere respinto perchè infondato.

In ordine alla responsabilità dell’imputato circa i reati contestati di cui all’art. 189 C.d.S., commi 6 e 7, i giudici di primo grado hanno fornito una corretta ricostruzione del comportamento dell’imputato individuandone il profilo psicologico e materiale configurante le fattispecie criminose a lui attribuite. Nè le diverse deduzioni svolte sul punto da D.S. appaiono idonee a contrastare le adeguate e ragionevoli valutazioni esposte dai giudici, correlate ai dati probatori disponibili e acquisiti, logicamente apprezzati. Pure congruamente giustificato appare l’accertamento dello stato di alterazione psico-fisica in cui versava il D. a causa dell’uso di sostanze stupefacenti, riscontro fondato dai giudici di merito sia sulle risultanze del prelievo dei liquidi biologici che sulla ricorrenza di modalità di comportamento attestanti una chiara situazione di alterazione psico-fisica.

Infondata è anche la doglianza circa il computo dell’ipotesi di "recidiva nel biennio", che comporta l’applicazione obbligatoria della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente nel caso di guida in stato di ebbrezza alcolica o per uso di stupefacenti. Al riguardo, la Cassazione ha più volte espresso l’avviso condivisibile che deve rilevare la data di passaggio in giudicato della sentenza relativamente al fatto reato precedente a quello per cui si procede, e non la data di commissione dello stesso, (v. così, Cass. 24.5.2007 n. 36131; Cass. 24.3.2010 n. 15567;

peraltro, contra v. Cass. 11-6-2008 n 27985 ).

2. La reiezione del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. IV, Sent., 08-02-2011, n. 395 Sanità e igiene U. S. L. trattamento economico

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Svolgimento del processo

I ricorrenti, in qualità di pubblici dipendenti presso la USSL n. 70 di Legnano, con mansioni di

Operatore Professionale Coordinatore Terapista della Riabilitazione di ruolo, con l’odierno ricorso, notificato il 15.02.1995 e depositato il successivo 01.03.1995, hanno chiesto l’annullamento della delibera n. 147/1993 e, all’occorrenza, del silenzio rifiuto opposto ad atto di diffida in data 3.6.1994, e il conseguente accertamento del diritto a vedersi riconosciute le somme dovute a titolo di incentivazione alla produttività, in riferimento al plusorario espletato nel periodo luglio 1983 – dicembre 1987.

Nessuno si è costituito per le parti intimate.

Con ordinanza n. 248 del 14.12.2009 la Sezione ha disposto incombenti istruttori, sul presupposto che – dalla documentazione agli atti di causa – non apparivano chiari, né i presupposti di fatto delle rivendicazioni dei ricorrenti e, neppure, se le rispettive pretese avessero riguardo soltanto al quantum o, invece, anche all’an del diritto di credito fatto valere in questa sede.

In data 8.04.2010 l’A.O. di Legnano ha parzialmente ottemperato alla suddetta ordinanza istruttoria.

Anche il patrocinio ricorrente, ha, a più riprese, ottemperato alla predetta istruttoria, anche in vece dell’amministrazione, con richiesta di disporre eventuale verificazione o consulenza tecnica.

Alla pubblica udienza del 23.11.2010 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.
Motivi della decisione

Preliminarmente, il Collegio deve rilevare come, ad un più approfondito esame delle pretese azionate con l’odierno gravame, debba essere sollevata – d’ufficio – la questione della inammissibilità del ricorso, per difetto di legittimazione passiva della U.S.S.L. n. 70 di Legnano, evocata in giudizio dagli odierni ricorrenti in qualità di parte resistente.

In tal senso, appare dirimente osservare come la proposizione del ricorso sia avvenuta in epoca successiva all’istituzione delle Aziende U.S.L. e della concomitante soppressione delle pregresse UU.SS.LL., ad opera del d.lgs. 3 dicembre 1992, n. 502, nonché, successivamente all’entrata in vigore della l. 23 dicembre 1994, n. 724, il cui art. 6, al comma 1, ha stabilito che: "in nessun caso è consentito alle regioni di far gravare sulle aziende di cui al d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni ed integrazioni, né direttamente né indirettamente, i debiti e i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unità sanitarie locali. A tal fine le regioni dispongono apposite gestioni a stralcio, individuando l’ufficio responsabile delle medesime".

Al fine della risoluzione della vicenda in questione giova, altresì, richiamare il comma 14, dell’art. 2, della l. 28 dicembre 1995, n. 549, secondo cui: "per l’accertamento della situazione debitoria delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere al 31 dicembre 1994, le regioni attribuiscono ai direttori generali delle istituite aziende unità sanitarie locali le funzioni di commissari liquidatori delle soppresse unità sanitarie locali ricomprese nell’ ambito territoriale delle rispettive aziende. Le gestioni a stralcio di cui all’articolo 6, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, sono trasformate in gestioni liquidatorie. Le sopravvenienze attive e passive relative a dette gestioni, accertate successivamente al 31 dicembre 1994, sono registrate nella contabilità delle citate gestioni liquidatorie. I commissari entro il termine di tre mesi provvedono all’accertamento della situazione debitoria e presentano le risultanze ai competenti organi regionali".

Ebbene, tale essendo l’ambito disciplinare entro cui inquadrare la vicenda di causa, il Collegio ritiene che essa possa essere definita prestando puntuale adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., ex multis, Consiglio di stato, sez. VI, 21 settembre 2010, n. 6995; Cons. Stato, Sez. V, 22 ottobre 2007, n. 5501; Cons. Stato, Sez. IV, 19 febbraio 2007, n. 890; id., Sez. V, 29 gennaio 2009, n. 493) secondo cui, per effetto delle disposizioni introdotte dagli artt. 6 comma 1, l. 724 del 1994 e 2 comma 14, l. 549 del 1995, le Regioni sono state appositamente individuate quali unici soggetti giuridici obbligati ad assumere a proprio carico i debiti delle soppresse Unità sanitarie locali, mediante apposite gestioni a stralcio, di pertinenza delle Regioni medesime, anche dopo la trasformazione in gestioni liquidatorie affidate ai direttori generali delle nuove aziende.

Di modo che, soltanto alle Regioni deve essere riconosciuta la legittimazione processuale e sostanziale per le domande concernenti, sia, i crediti relativi a compensi per prestazioni lavorative espletate nell’ambito delle attività della gestione liquidatoria, per la ricognizioni di debiti e crediti delle soppresse Unità sanitarie locali, sia, i crediti relativi a prestazioni lavorative espletate durante l’esistenza delle soppresse U.S.L. ma azionati in giudizio successivamente alla data della loro soppressione (al 31.12.1994).

La surriferita legislazione nazionale, infatti, alla stregua dei principi direttivi stabili dalla L. n. 491 del 1992 di delega per la nazionalizzazione e per la revisione della disciplina del settore, ha comportato la configurazione delle nuove Aziende Sanitarie Locali come aziende dotate di personalità giuridica e di propria autonomia patrimoniale, contabile e gestionale, sicché non v’è dubbio che, nell’avvicendamento delle A.U.S.L. alle U.S.L., si è verificata una continuità di gestione nei relativi rapporti, ivi compresi quelli di lavoro subordinato o parasubordinato con il personale dipendente o convenzionato e, quindi, una successione dei neocostituiti organismi a quelli soppressi. Ma ciò non implica affatto che si sia realizzata anche una successione in universum jus delle A.S.L. alle U.U.S.L. per ciò che concerne i rapporti obbligatori facenti capo a queste ultime, la successione nei rapporti potendosi configurare nei soli limiti in cui la legge lo ha voluto e non per il solo fatto della soppressione degli enti pubblici assorbiti. Consegue da ciò che, come ripetutamente affermato dalla Corte di Cassazione, la L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 6, comma 1, disponendo che "in nessun caso è consentito alle regioni far gravare sulle aziende di cui al D.Lgs. n. 502 del 1992 e successive modificazioni e integrazioni, né direttamente, né indirettamente, i debiti e i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unità sanitarie locali" e prevedendo che, a tal fine, le Regioni fossero dotate di apposite gestioni a stralcio, con individuazione dell’ufficio responsabile di esse, ha per ciò stesso inteso escludere l’ipotizzata successione, mentre la L. 23 dicembre 1995, n. 549, art. 2, comma 14, ha confermato tale scelta prescrivendo che, per l’accertamento della situazione debitoria delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere al 31 dicembre 1994, le Regioni attribuissero ai direttori generali delle istituite aziende unità sanitarie locali le funzioni di commissari liquidatori delle soppresse unità sanitarie locali, comprese nell’ambito delle rispettive aziende, e che le gestioni a stralcio di cui la L. n. 724 del 1994, art. 6, comma 1, fossero trasformate in gestioni liquidatorie (le quali, poi, vengono amministrate dai direttori delle aziende, rispetto ai quali sono appunto le regioni i soggetti titolari del potere dovere di attribuire a quelli le funzioni di commissari liquidatori). Ne deriva che, in buona sostanza, i direttori delle A.S.L. svolgono, su mandato dell’ente territoriale, compiti non limitati alla mera riscossione dei residui attivi ed al pagamento dei residui passivi, ma estesi all’amministrazione e liquidazione della situazione debitoria, tramite la fase dell’accertamento, vale a dire della ricognizione delle obbligazioni giuridicamente perfezionatesi nei confronti delle U.S.L. alla data del 31 dicembre 1994. La funzione di commissario liquidatore da parte dei direttori generali della aziende sanitarie è dunque prevista nell’interesse della regione, agendo essi in qualità di organi di tale ente (cosi, testualmente, Cass. S.U. 7 luglio 2000, n. 1237; cfr. altresì Cassazione Civile, sez. I, 20 settembre 2006, n. 20412).

Le disposizioni normative sopra riportate hanno, dunque, individuato nella Regione il soggetto giuridico obbligato ad assumere integralmente a proprio carico i debiti relativi alle pregresse gestioni delle unità sanitarie locali, attraverso le apposite Gestioni stralcio o liquidatorie (ancorché affidate ai direttori generali delle nuove aziende), cosicché solo alle predette Gestioni deve essere riconosciuta la legittimazione processuale e sostanziale per le domande concernenti gli eventuali debiti precedenti all’istituzione delle aziende sanitarie locali (cfr., ex multis, Consiglio di stato, sez. V, 27 dicembre 2010, n. 9487; C.d.S sez. V, 06 dicembre 2010, n. 8548; C.d.S., sez. V, 25 maggio 2010, n. 3310; 19 novembre 2009, n. 7233; 29 gennaio 2009, n. 493; 10 luglio 2008, n. 3428; Cass. Civ., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5063; 26 gennaio 2010, n. 1532; 13 aprile 2007, n. 8826).

Sul tema è intervenuta, come noto, anche la Corte costituzionale, che con le sentenze n. 89 del 31.03.2000 e n. 437 del 9.12.2005, ha evidenziato come il cit. complesso di norme statali (D. L.vo n. 502/1992, L. 724/1994 e L. 549/1995) abbia approntato gli strumenti per la realizzazione del principio della insensibilità, per ragioni politicoeconomiche, delle neocostituite aziende unità sanitarie locali ai debiti delle pregresse unità sanitarie locali, sì da poter le prime cominciare a funzionare secondo i nuovi criteri di maggiore economicità e di responsabilità dei dirigenti, senza essere oberate dal passivo accumulato in un sistema di gestione della sanità pubblica che si riteneva generatore di disfunzioni e perciò da abbandonare.

Il principio fondamentale ricavabile dalla succitata normativa statale impone, quindi, di assicurare la separazione tra la gestione liquidatoria delle passività anteriori al 31.12.1994, risalenti alle soppresse usl e le attività poste in essere direttamente dalle nuove aziende sanitarie.

Le aziende sanitarie locali, quindi, rispondono dei debiti sorti dopo il 31 dicembre 1994, mentre, per i debiti sorti anteriormente a tale data, deve rispondere la Regione, che è successore "ex lege" a titolo particolare delle ormai soppresse unità sanitarie locali.

Avuto riguardo al caso che qui occupa, si deve, pertanto, constatare come il ricorso, pur riguardando pretese economiche sorte nel periodo 1983 – 1987, lo stesso risulti notificato soltanto all’U.S.L., nella persona del legale rappresentante p.t., e non alla competente Regione, e per essa, alla Gestione liquidatoria della disciolta USL di Legnano, cui fanno capo le reclamate pretese.

Da ciò, l’inevitabile conseguenza della inammissibilità del gravame, per difetto di legittimazione passiva dell’unica amministrazione convenuta in giudizio (cfr., in terminis, T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 22 ottobre 2007, n. 10234; T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 12 gennaio 2007, n. 154; Consiglio Stato, sez. V, 17 dicembre 2001, n. 6248).

Nel caso in esame, in definitiva, la materia del contendere è costituita da crediti patrimoniali che i ricorrenti assumono di aver maturato, nei confronti della struttura sanitaria di originaria appartenenza, svariati anni prima della sua soppressione, con la conseguenza che il ricorso, notificato soltanto il 15.02.1995 e depositato il successivo 1.03.1995, andava notificato alla suddetta Gestione liquidatoria ovvero, in ultima analisi, alla Regione Lombardia, e non alla dissolta U.S.L. (cfr. ancora T.A.R. Puglia Bari, sez. I, 23 novembre 2006, n. 4091; T.A.R. Piemonte Torino, sez. II, 22 maggio 2006, n. 2164; Tribunale Venezia, sez. III, 20 settembre 2005).

Conclusivamente, pertanto, il ricorso in epigrafe specificato deve essere dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese, stante la mancata costituzione delle parti intimate.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.

Nulla sulle spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 21-04-2011, n. 9219 Contenzioso tributario Procedimento avanti le Commissioni tributarie

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il 28 ottobre 2005 la commissione tributaria regionale di Trieste ha rigettato l’appello proposto dall’agenzia delle entrate nei confronti di T.R., confermando la sentenza della commissione provinciale di Udine che, il 14 luglio 2003, aveva dichiarato estinto, per intervenuta conciliazione, il giudizio sui ricorsi avverso plurimi avvisi di accertamento per gli anni 1993 (IRPEF, SSN), 1994 (IRPEF, SSN, IVA), 1995 (IRPEF, SSN, IVA).

Ha motivato la decisione ritenendo che:

a) si era verificata la fattispecie legale prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 46 attesa la sottoscrizione di apposito processo verbale di conciliazione giudiziale;

b) erano irrilevanti sia l’omesso pagamento delle rate concordate con la parte contribuente, sia la mancata prestazione della prescritta garanzia, atteso che, ai sensi dell’art. 48 d.Lgs. cit., il verbale sottoscritto aveva definito la vertenza e costituiva "titolo per la riscossione delle somme dovute".

Nei confronti di L.F., nella documentata qualità di curatrice dell’eredità giacente di T.R., ha proposto ricorso per cassazione, affidato a un solo motivo, l’amministrazione;

la controparte non si è costituita.
Motivi della decisione

1. Con l’unico motivo, la ricorrente denuncia sia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 46 e 48 sia l’omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.

2. Sostiene che, concordata tra le parti la conciliazione con pagamento rateale, per legge detta conciliazione si poteva perfezionare solo in virtù del pagamento della prima rata e della prestazione d’idonea garanzia per le rate successive, il tutto da effettuarsi entro venti giorni dalla sottoscrizione del verbale.

3. Rileva, in proposito, che:

a) in vista dell’udienza del 10 luglio 2002 era stata depositata in giudizio la proposta di conciliazione, con l’adesione della controparte, redatta il 18 giugno 2002;

b) dopo numerosi rinvii si era appurato che solo il 5 novembre 2002 la parte contribuente aveva versato la prima rata, senza però prestare garanzia per i versamenti delle rate successive;

c) all’udienza del 12 febbraio 2003 era emerso che la prescritta garanzia non era stata mai prestata.

4. Conclude affermando che la fattispecie estintiva non si era mai perfezionata nei termini di legge, atteso che il versamento della prima rata e la prestazione della garanzia sarebbero dovuti avvenire al più tardi il 30 luglio 2002 (20 giorno dall’udienza del 10 luglio 2002), mentre la prima rata era stata pagata solo il 5 novembre 2002 (nonostante una proroga accordata sino al 17 ottobre 2002) e la garanzia non era stata affatto prestata, nè allora nè successivamente. Pertanto, venuta meno la conciliazione, la vertenza avrebbe dovuto essere decisa nel merito. Il motivo è fondato.

5. L’invocato art. 48, comma 3 stabilisce: "Se la conciliazione ha luogo, viene redatto apposito processo verbale nel quale sono indicate le somme dovute a titolo d’imposta, di sanzioni e di interessi. Il processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute mediante versamento diretto in un’unica soluzione ovvero in forma rateale, in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo, ovvero in un massimo di dodici rate trimestrali se le somme dovute superano i cento milioni di lire, previa prestazione di idonea garanzia secondo le modalità di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 38-bis. La conciliazione si perfeziona con il versamento, entro il termine di venti giorni dalla data di redazione del processo verbale, dell’intero importo dovuto ovvero della prima rata e con la prestazione della predetta garanzia sull’importo delle rate successive, comprensivo degli interessi al saggio legale calcolati con riferimento alla stessa data, e per il periodo di rateazione di detto importo aumentato di un anno". 6. Dunque riassumendo, l’invocato art. 48, nel testo in vigore dal 16 luglio 1998 e vigente all’epoca dei fatti, prevede che, se la conciliazione ha luogo, è redatto processo verbale nel quale sono indicate le somme dovute e che il processo verbale costituisce titolo per la riscossione di tali somme mediante versamento diretto in un’unica soluzione ovvero in forma rateale previa prestazione di idonea garanzia.

7. La norma in esame precisa che "la conciliazione si perfeziona con il versamento, entro il termine di venti giorni dalla data di redazione del processo verbale, dell’intero importo dovuto ovvero della prima rata e con la prestazione della predetta garanzia sull’importo delle rate successive". 8. Nella specie è pacifico che la conciliazione fosse stata raggiunta mediante regolamento rateale e che la prima rata fosse stata pagata non entro venti giorni ma dopo quasi quattro mesi e per giunta senza che fosse stata prestata la necessaria garanzia per il versamento delle ulteriori rate.

9. Dunque, dei due requisiti congiuntamente richiesti dall’art. 48 per il perfezionamento della conciliazione, il primo si è verificato in grave ritardo (pagamento della prima rata), il secondo non si è mai verificato (prestazione di garanzia).

10. Quand’anche si volesse considerare prorogabile sull’accordo delle parti il termine per l’effettuazione di tali adempimenti (per una lettura elastica del procedimento conciliativo cfr. Cass. n. 9222 del 2007), la proroga accordata (sino al 17 ottobre) era già scaduta al momento del primo e unico versamento del 5 novembre e comunque mai è stata prestata l’indispensabile garanzia per le somme residue (anch’esse non pagate).

11. Si deve concludere che l’iter perfezionativo della conciliazione rateale non si fosse mai compiuto fino in fondo e di ciò la commissione provinciale si sarebbe dovuta avvedere prima di dichiarare estinto il processo ai sensi del D.Lgs. 546, art. 46. 12. Erra, dunque, la commissione regionale nell’affermare che l’amministrazione non aveva ragione di dolersi "disponendo già del legale titolo per la riscossione delle somme dovute". 13. Si è affermato, in giurisprudenza, che la conciliazione giudiziale prevista dall’art. 48, sia nel testo originario che in quello risultante dalle modifiche apportate dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 419, comporta la sostituzione della pretesa fiscale originaria, ma unilaterale e contestata, con una certa e concordata, tanto è vero che il relativo processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute; ma perchè l’effetto novativo si verifichi è necessario il perfezionamento della conciliazione, per il quale è necessario il pagamento della prima rata con la prestazione di garanzia per il residuo regolamento rateale delle somme dovute (vedasi la motivazione di Cass. n. 20386 del 2006).

14. Dunque, se in caso di mancato versamento delle somme residue pattuite l’accordo non si risolve e l’amministrazione può solo esigere il loro pagamento attraverso la procedura di riscossione coattiva, la stessa cosa non accade nel caso di mancato o ritarda-to versamento della prima rata e/o di omessa prestazione della garanzia, perchè in questi casi la conciliazione "non" si perfeziona affatto.

15. Di recente si è meglio precisato che: a) la conciliazione tributaria giudiziale non ha natura negoziale, e in particolare non ha la natura di novazione, ma ha la natura, unitaria (perchè comune a tutte le sue specie) di fattispecie a formazione progressiva e procedimentalizzata, caratterizzata dall’identità temporale della sua perfezione e della sua efficacia;

b) solo nel momento in cui la conciliazione raggiunge la perfezione/efficacia si estingue il rapporto giuridico tributario sostanziale e, pendente una controversia giudiziale, si produce la cessazione della materia del contendere (Cassazione civile sez. trib., 13 febbraio 2009, n. 3560, 7.3.8).

16. L’unico provvedimento che la commissione provinciale dinanzi a una conciliazione rateale può adottare è, allora, quello del rinvio dell’udienza di trattazione della causa a una data successiva alla scadenza del termine concesso per l’adempimento dall’art. 48, comma 3, cit..

17. In quella sede il contribuente deve documentare sia il tempestivo primo versamento, sia la garanzia prestata (ovvero l’ufficio segnalare eventuali inadempimenti), solo per questa via la conciliazione raggiunge la perfezione/efficacia, si estingue il rapporto giuridico tributario sostanziale e si produce anche l’estinzione del processo per cessazione della materia del contendere ai sensi del D.Lgs. 546, art. 46. 18. Nella specie, invece, la mancanza della perfezione/efficacia dell’accordo, raggiunto in corso di causa, imponeva che la lite dovesse proseguire nello stato in cui si presentava al momento della sua sperata definizione consensuale, senza che l’ufficio potesse mai iscrivere a ruolo le somme indicate nell’atto conciliativo, perchè oramai "tamquam non esset". 19. La decisione impugnata è, pertanto, affetta dalla violazione della legge processuale denunciata non essendosi i giudicanti attenuti al seguente principio di diritto: "La conciliazione giudiziale rateale, prevista dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 48, comma 3, si perfeziona solo con il versamento, entro il termine di venti giorni dalla data di redazione del processo verbale, dell’importo della prima rata concordata e con la prestazione della garanzia prevista sull’importo delle rate successive; in mancanza, non si verifica l’estinzione del processo tributario per cessazione della materia del contendere, prevista dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 46, comma 1". 20. Alla stregua delle esposte considerazioni la decisione impugnata deve essere cassata e la causa va rinviata, per nuovo esame, ad altra sezione della competente commissione tributaria regionale, che si uniformerà al principio di diritto come sopra enunciato. La regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità resta riservata al giudice del rinvio.
P.Q.M.

LA CORTE accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della commissione tributaria regionale di Trieste.

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