Parere legale motivato di diritto civile. Separazione personale, affidamento congiunto- minorenni, trasferimento del coniuge con cui i figli erano residenti, senza accordo dell’altro coniuge.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessatii signori TIZIO e CAIA.
Detti signori sono sposati da otto anni, e a completamento del loro amore hanno avuto un figlio, sette anni fa.
Detto figlio di nome ANDREA è affetto da lieve sindrome di down.
Purtroppo oggi dopo circa 8 anni di matrimonio, interviene una crisi coniugale, che spinge CAIA a chiedere la separazione da TIZIO. Inoltre CAIA chiede l’affidamento esclusivo del figlio ANDREA, motivando la sua scelta (a suo dire), con il fatto che il rapporto tra padre e figlio non è armonioso e a conferma di ciò chiede che ANDREA venga ascoltato dal Giudice.
Orbene la famiglia è una formazione sociale fondata sul matrimonio, con i caratteri della esclusività, della stabilità e della responsabilità.

Tra i coniugi vi sono una serie di diritti e doveri reciproci quali la coabitazione, la fedeltà, l’assistenza, la collaborazione, la contribuzione ai bisogni della famiglia.

La presenza di figli in una famiglia, impone ulteriori obblighi, quali appunto l’educare, l’istruire, il mantenere, e curare i figli.
Si conferma quindi l’importanza della crescita del minore nell’ambito della famiglia, con l’obiettivo di garantire l’equilibrio dei bambini e dei ragazzi, creando o valorizzando, i rapporti della famiglia e del sociale.

La Consulta già nel 1980, aveva già avuto modo di affermare che: "Per il combinato disposto degli artt. 2 e 30 Cost., primo e secondo comma, emerge, quale valore primario per il minore, la promozione della personalità, la sua educazione nel luogo a ciò più idoneo, che è in primissima istanza la famiglia di origine, e solo in caso di incapacità di questa una famiglia sostitutiva, poiché il minore richiede, per la sua crescita normale, affetti individualizzati e continui, ambienti non precari, situazioni non conflittuali. (Corte cost. 10 febbraio 1981, n. 11)".

Detti obblighi da parte dei genitori (assistenza morale e materiale nell’ambito della propria famiglia) sono in realtà un diritto di entrambi i genitori, ma anche un diritto dei figli (il diritto del minore alla bi genitorialità).

La bigenitorialità, altro non è che l’effettiva presenza di entrambi i genitori accanto al figlio, ossia « mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, per ricevere dagli stessi cura, educazione e istruzione» art. 155, comma 1, c.c. novellato nell’art. 1, comma 1, legge n. 54/2006.

Concretamente significa che la figura del minore va tutelata e protetta nella misura più ampia possibile.
Detto principio è già formalizzato a livello costituzionale (art. 30 Cost) prima ancora che ordinario (art. 155 c.c.).

In particolare quindi i figli minori sono soggetti di diritto meritevoli di protezione e protagonisti delle proprie scelte, soggetti dotati di un potere di autodeterminazione, che hanno diritto all’ascolto, e che l’adulto valuti in modo adeguato le dichiarazioni che vengono rese dallo stesso.

Naturalmente parlare di centralità del minore significa considerarlo nel suo essere in formazione, e dunque richiede con riferimento alla dimensione dell’ascolto, l’assunzione di tecniche di tutela particolari (circostanze ambientali, lessico, tono, e quant’altro faciliti l’esposizione del minore).

L’ascolto del minore capace di discernimento (art. 12 Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia del 2 novembre 1989; art. 3 Convenzione europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 5 gennaio 1996; art. 155 sexies c.c.) è la nuova chiave interpretativa e di tutela, per garantire la crescita del minore, un normale sviluppo della sua personalità, delle sue reali esigenze in modo indipendente e responsabile, tenendo conto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni (art.147 c.c), e ciò si realizza non solo e non tanto per mero effetto del benessere economico, ma attraverso “assistenza personale ed aiuto psico-affettivo” (Cass. civ., 1° febbraio 2005, n. 1996; Cass. civ., 10 agosto 2006, n. 18113) che solo la famiglia e la presenza di entrambi i genitori può garantire.

La Giurisprudenza pronunciandosi nel tempo ha affermato che «Il minore ha diritto alla prestazione di cure idonee a garantirgli uno sviluppo ottimale (vale a dire armonioso ed equilibrato sotto ogni punto di vista) a vivere in un ambiente familiare moralmente sano e materialmente confortevole, che lo sottragga a influenze deleterie, che possano incidere negativamente sul suo processo di maturazione» (Trib. min. Roma, 6 febbraio 1984).

Quindi possiamo affermare che libertà di espressione, salute, educazione, formazione, socializzazione, gioco, ascolto, dignità, riservatezza, sicurezza, sono tutti diritti del minore.
Ma alcune patologie (handicap) aumentando da un lato la sensibilità dell’adulto, e dall’altro la fragilità del minore, impongono all’adulto, un incremento delle attenzioni, per garantire allo stesso i diritti di cui vanta; quando questo accade, vi è perfetta simbiosi tra adulto e minore, tanto da creare una perfetta armonia tra il genitore e il figlio.
Cosa non semplice e non frequente.
Tra i vari handicap dei minori, la sindrome di Down, crea un particolarissimo rapporto tra genitore e figlio.

La sindrome di Down è nota per la presenza di un ritardo mentale, e il futuro di queste persone non è prevedibile e la sua crescita dipenderà da una serie di aspetti costituzionali, famigliari e ambientali insieme.
Queste differenze dipendono soprattutto dalle capacità individuali delle persone con sindrome Down, dagli atteggiamenti educativi della loro famiglia e dalla disponibilità o meno di strutture socio-sanitarie adeguate.
In Italia un bambino su 1000 nasce con la sindrome Down. Il grado di ritardo mentale non è assolutamente prevedibile e varia molto da una persona all’altra.
Quello che è certo è che il bambino sarà in grado di capire, di imparare e di ricordare quello che ha imparato e il grado di autonomia e responsabilità datogli.
Spesso non viene permesso loro di fare delle scelte, né di sfruttare le proprie capacità relazionali, né di inserirsi in un contesto sociale adeguato.
Comunque si può dire che, data una situazione familiare, educativa e sociale adeguata, una persona con sindrome Down può imparare tutto quello che è necessario per avere una vita relativamente autonoma e soddisfacente, esprimendosi con un linguaggio verbale adeguato.
I genitori per aiutare il loro bambino a parlare, devono stimolarlo, conversando con lui, ascoltarlo, fare attenzione a quello che il bambino cerca di dire, rispondergli nel modo giusto, essere pazienti, concedendo al bambino lo spazio e il tempo per agire o per rispondere.
In altre parole bisogna farsi guidare dal bambino, rispettare il suo interesse del momento, mantenendo il passo del bambino, valorizzando il bambino, imparando a pensare come il bambino, considerando il suo punto di vista secondo il suo sviluppo cognitivo e, la sua diversa prospettiva sulle azioni, sul tempo e sullo spazio.

L’accettazione delle persone con ritardo mentale da parte della società è fortemente collegata al loro comportamento sociale, in altre parole un bambino con sindrome Down sarà accettato se si comportano in modo accettabile e adeguato socialmente.

Una persona con sindrome Down potrà quindi avere una vita sociale soddisfacente se i suoi genitori cureranno fin dai primi anni di vita lo sviluppo delle capacità autonome e le regole di un comportamento sociale maturo.
Queste competenze sono indispensabili per un reale inserimento nella scuola e nel mondo del lavoro, ma soprattutto per favorire una sicurezza e una stima di sé e delle proprie capacità senza le quali una vita insieme agli altri può essere difficile e improbabile.

Ecco, quindi, che i genitori devono essere gentili, devono curare al massimo gli aspetti legati all’insegnamento dell’autonomia e delle buone maniere, devono fare gli opportuni complimenti se ha imparato bene qualcosa o se si è comportato bene.

In altre parole il genitore deve creare un rapporto unico, ed armonioso con il figlio affetto da sindrome down, e come già detto cosa non semplice e facile, quando questo non accade, per i casi molto gravi il legislatore ha creato una figura particolare, ovvero l’amministratore di sostegno provvisorio o definitivo.

Il ricorso per la richiesta di detta figura è frutto di una azione coordinata dei servizi sociali e sanitari, del medico psichiatra, e dell’assistente sociale.
Anche in questo caso il Giudice può non ritenere, sufficiente la documentazione fornita, richiedendo solo ove vi siano delle ombre ulteriori informazioni al medico curante, e per le informazioni patrimoniali, interpellando direttamente gli istituti di credito interessati.

L’audizione dei parenti, del PM, non è sempre necessaria, nel senso che se non compaiono dopo la convocazione il giudice provvede ugualmente, ma l’audizione dell’interessato è un passaggio non solo dovuto ex art. 407 c.c. (il giudice sente l’interessato dovunque si trovi) ma anche essenziale per l’acquisizione delle informazioni utili a elaborare il decreto di nomina.

Va sottolineato che l’audizione è diretta a conoscere il beneficiario, a raccogliere i suoi desideri e le sue aspirazioni, a verificare anche le sue relazioni con l’ambiente, con i famigliari, con i parenti, con i vicini, conoscenti, ad accertare il suo grado di abilità, la sua tensione verso l’autonomia, la sua suggestionabilità, i rischi a cui è esposto se lasciato solo, i rapporti di forza presenti nelle dinamiche famigliari, le sue preferenze elettive e affettive, la sua fragilità, le sue abitudini di vita, “i riti” a cui non può rinunciare.
In altre parole l’audizione è sempre diretta a conoscerlo, a raccogliere elementi utili per la scelta dell’amministratore di sostegno da farsi avendo unicamente riguardo all’interesse del beneficiario.

Orbene osservando questo istituto possiamo comprendere quanto importante sia l’audizione allorquando il minore si affetto da handicap, ovvero da sindrome di Down, e in un procedimento di separazione dei coniugi, che il più delle volte avviene dopo un periodo alquanto lungo di crisi famigliare, dove il minore è stato spettatore e vittima di scontri, conflitti, ma soprattutto di disattenzioni da parte dei/del genitori, vedendo modificare, crollare, scomparire, quel particolarissimo rapporto di armonia, che come abbiamo già appreso risulta imprescindibile per la (futura) vita sociale dello stesso.

La Suprema Corte (22238/09), ha cambiato le regole "del gioco" nei processi di separazione e divorzio ove vengano in rilievo provvedimenti destinati ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei figli minori, non ultimo, l’affidamento.

Le Sezioni Unite, con la sentenza 22238/09 ha introdotto uno specifico onere motivazionale che non provvede all’audizione del minore.

Il giudicante dovrà espressamente riferire per quale motivo non ha inteso sentire il minore, motivo che può attenere o alla capacità di discernimento del minore stesso o all’eventualità di pregiudizi ai suoi interessi superiori.

Con la sentenza n. 22238/09 viene inoltre asserito l’obbligatorietà dell’audizione dei figli minori nei procedimenti di separazione attinente l’affidamento.

La Cassazione sostiene che non si può ignorare l’opinione del minorenne nel caso in cui si debba decidere a quale genitore dovrà essere affidato, in quanto il minore è parte sostanziale del procedimento e portatore di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori.

Si asserisce, quindi, che il mancato ascolto dei minori costituisce una violazione dei due principi cardini dell’ordinamento italiano, precisamente il principio del contradditorio e quello del giusto processo.

L’audizione del minore è prevista e riconosciuta dall’art. 12 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, fatta a New York nel 1989, nella quale è previsto che «Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità.

La Suprema corte rileva ulteriormente che l’audizione del minore è divenuta obbligatoria con l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n. 77/2003, in quanto si dispone che «nei procedimenti che riguardano un minore, l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualunque decisione, deve: a) esaminare le informazioni che dispone, al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare da parte dei detentori delle responsabilità genitoriali; b) quando il diritto interno ritiene che il minore abbia una capacità di discernimento sufficiente (assicurandosi che il minore abbia ricevuto tutte le informazioni pertinenti) nei casi che lo richiedono, consultare il minore personalmente, se necessario in privato, direttamente o tramite altre persone od organi, con una forma adeguata alla sua maturità, a meno che ciò non sia manifestamente contrario agli interessi superiori del minore, permettendo al minore di esprimere la propria opinione; c) tenere in debito conto l’opinione da lui espressa».

Pertanto la Suprema corte deducendo la violazione della Convenzione di Strasburgo, la Convenzione ONU, l’art. 155 sexies del codice civile (che dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore ove capace di discernimento), ritiene necessaria ed obbligatoria l’audizione del minore nel procedimento di separazione.

Quindi, in presenza di una richiesta di audizione avanzata da uno dei genitori o dal Pubblico Ministero, il Giudice della separazione o del divorzio (anche nella fase presidenziale) dovrà procedere all’ascolto dei minori, a meno che, come già detto, non fornisca idonea motivazione in ordine al fatto che a)tale ascolto si ponga in contrasto con gli interessi fondamentali dei figli; b) manchi il necessario discernimento dei minori infradodicenni, che può giustificarne l’omesso ascolto.

L’audizione dei figli minori ha quindi un’indubbia valenza probatoria, quale fonte di preziose informazioni sulla vita familiare, al fine di realizzare l’affidamento più conveniente nel preminente interesse del minore.

La materia dell’affidamento è molto è cambiato rispetto al secolo scorso che stabiliva il principio dell’indissolubilità del matrimonio,e ammetteva la separazione solo in caso di colpa di uno dei coniugi, e disciplinava i provvedimenti riguardanti i figli, stabilendo che i medesimi fossero affidati al coniuge
"senza colpa".
Certamente 898/70, che ha introdotto il divorzio nel nostro ordinamento, per la prima volta ha fissato all’art. 6 un criterio guida per il giudice in tema di affidamento dei figli cioè quello della preminenza del loro interesse morale e materiale.
Detto principio viene introdotto nella successiva legge di riforma del diritto di famiglia (legge 21 maggio 1975 n.151), in materia di separazione.

La separazione non viene più pronunciata solo per colpa di uno dei coniugi, ma viene intesa come rimedio ad una situazione di fallimento della vita coniugale, e il giudice nello scegliere il genitore al quale affidare i figli deve tener presente solo ed esclusivamente la posizione dei figli, il loro interesse, le condizioni migliori per lo sviluppo della loro personalità.

In particolare, oggi il criterio unico che disciplina l’affidamento in caso di separazione è quello del superiore interesse della prole, inteso quale riorganizzazione di un modello di comunità familiare in cui il minore possa venire educato e realizzare il proprio diritto alla formazione ed alla crescita della sua personalità.

La separazione, tanto consensuale quanto giudiziale, determina lo scioglimento dell’eventuale regime di comunione legale dei beni e non solo, creando una rottura emotivo, economica, genitoriale, comunità, psichico.

In caso di separazione consensuale, i coniugi regolamentano i loro rapporti con un accordo che verrà poi omologato dall’autorità giudiziaria.

Il contenuto dell’accordo potrà avere ad oggetto la divisione di beni comuni, l’assegnazione ad uno dei coniugi di beni di proprietà comune o esclusiva dell’altro coniuge, il
riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge debole.

In ogni caso sono fatti salvi tutti i provvedimenti indispensabili all’interesse della prole, quali ad esempio l’assegnazione della casa coniugale al coniuge affidatario, l’obbligo di corrispondere un assegno di mantenimento per i figli o per il coniuge economicamente più debole.

Sempre nell’interesse della prole, vi è stato un ripetuto cambiamento di rotta nell’affidamento che ha visto concludere il percorso grazie alla Legge 8 febbraio 2006, n. 54.

In passato frequenti erano la svalutazione dell’altro genitore, manipolazione dei fatti o anche alla costruzione di false denunce di abuso, di violenza e inidoneità genitoriale con il solo scopo di allontanare un genitore escludendolo dalla funzione di genitore condizionando il minore a schierarsi a sua volta contro il genitore allontanato.
I danni che queste forme di comportamento arreca ai figli sono enormi creando nel minore un senso di perdita e di abbandono che potrà influenzarlo per tutta la vita. Questa sintomatologia si chiama Sindrome da alienazione genitoriale o PAS, provocando una regressione, una limitazione, un blocco delle capacità di pensiero. L’esperienza dimostra che, qualora venga meno l’influenzamento dei figli da parte del genitore alienante, i sintomi della PAS svaniscono. Consentire ai figli di maturare esperienze dirette e complete di vita con ciascun genitore separatamente dal genitore alienante è il modo migliore per prevenire la PAS, mitigando l’influenza delle azioni denigratorie.
Inoltre, la convivenza equilibrata con ciascun genitore senza la presenza dell’altro, in modo alternato, favorisce la
creazione di una relazione diretta e autentica.
Prima della legge 54/06, i figli in caso di separazione
legale dovevano essere affidati al padre e solo in casi gravi alla madre, con la L.151/75 i diritti del padre e della madre vengono parificati prevedendo l’affidamento monogenitoriale esclusivo ai sensi del disposto dell’art. 155 c.c. (il modello di affidamento più applicato sino ad oggi in caso di separazione).
Tale modello prevedeva l’affidamento dei minori ad un genitore mentre l’altro conservava un generico diritto di visita, di vigilanza sulla istruzione ed educazione. In ogni caso le decisioni di maggiore interesse dovevano essere adottate di comune accordo tra i genitori.
Mentre con l’affido congiunto come modalità alternativa di custodia dei figli minori previsto dall’art. 6 Legge 878/70 veniva superata il contrasto tra genitori, garantendo al minore, una continuità affettiva e di intervento di
entrambi i genitori.
Ne discende che tale soluzione dovesse essere esclusa laddove uno solo dei coniugi reclamasse l’affidamento per sé, sul presupposto che l’altro genitore non fosse in grado di assumersi il compito educativo con pienezza di poteri, e nei caso di conflittualità della coppia genitoriale.
Oggi con legge 8 febbraio 2006, n. 54, l’art. 155 c.c., così come riformato, prevede che <>.
Ecco quindi sorgere il principio della bi genitorialità.
Qualora il giudice ritenga che i genitori non siano in grado di comporre la loro conflittualità nell’interesse dei figli minori, permane l’alternativa dell’affidamento ad uno soltanto di essi. Un aspetto degno di nota della riforma in oggetto è l’introduzione all’art. 155 sexies c.c. (obbligo di ascolto del minore e l’attivazione dei percorsi di mediazione dei genitori).

L’affido condiviso è dunque oggi l’unica forma di affidamento dei figli includendo l’eccezione dell’affido a un solo genitore quando il comportamento dell’altro genitore nei confronti del figlio sia contrario all’interesse del minore stesso. Solo in tal caso potrà essere limitata la frequentazione ma non la potestà di quel genitore.
A differenza del passato non sono considerati validi motivi per l’affidamento a un solo genitore il conflitto tra i genitori.
L’affido condiviso consente l’esercizio della potestà anche in modo disgiunto (in caso di conflitto) cosicché ciascun genitore è responsabile in toto quando i figli sono con lui mantenendo inalterata la genitorialità di entrambi.
La permanenza del minore presso ciascun genitore viene ripartita in un progetto educativo genitoriale da presentare in allegato all’istanza di separazione, con la ripartizione dei compiti e dei capitoli di spesa assegnati a ciascun genitore.

L’affidamento condiviso costringe i genitori a distinguere la relazione di coppia dalla loro relazione genitoriale.

Le azioni che un genitore dovesse compiere, volte a ostacolare la frequentazione dell’altro genitore o a gettare
discredito sull’altra figura genitoriale, verranno considerate un valido motivo di esclusione.

Resta però la differenza fra amministrazione ordinaria e amministrazione straordinaria.
L’art. 155 c.c., aggiunge che limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.

Concludendo a parere dello scrivente CAIA può si proporre l’affidamento esclusivo, ma questo difficilmente potrà essere accolto, qualora non fossero presenti comportamenti di TIZIO contrari all’interesse di ANDREA.

Anzi ben può il giudice ritenere la sua richiesta volta ad ostacolare la frequentazione dell’altro genitore, escludendogli l’affido.

CAIA può, invece proporre un esercizio separato della potestà.

In merito all’ascolto di ANDREA, il giudice per quanto obbligato all’ascolto, può ritenerlo incapace di discernimento sia a causa della patologia di cui è affetto che per la sua tenera età (non avendo compiuto gli anni dodici).

Pornografia minorile (pedopornografia). Ripresa video e distribuzione-divulgazione in rete internet di un filmato contenente un rapporto sessuale con minore di anni 18.

Il caso in esame ci vede assumere le vesti del difensore di Tizio, imputato del delitto di pornografia minorile (ex art. 600 ter c.p.), di produzione e distribuzione di materiale osceno (ex art. 528c.p.), e di diffamazione (ex art 595 c.p.).
Infatti Tizio non accettando la rottura di una relazione sentimentale con Caia, aveva divulgato in rete un filmato che li vedeva ripresi durante un rapporto sessuale, che egli stesso aveva registrato.
Il suo gesto aveva fini vendicativi e diffamatori della giovane Caia, che all’epoca dei fatti aveva anni 14, mentre lo stesso Tizio aveva già raggiunto la maggiore età.
Premesso che è punito con la reclusione, chiunque offende l’altrui reputazione, tale gesto risulta ancor più offensivo se, per raggiungere tale scopo, ovvero l’offesa altrui, venga usato un materiale osceno.
Quindi entrambe le condotte di Tizio, fin qui descritte sono punite dagli art 595 c.p. e 528 c.p..
Ancor più sanzionata è la condotta di chi anche se a fini semplicemente vendicativi, pubblichi in rete scene di un rapporto sessuale, quale è la condotta di Tizio.
Questa condotta, qualora vede interessata una minore, è disciplinata dall’art 600 ter c.p..
La condotta di Tizio rientra certamente in quella descritta e sanzionata nel terzo comma dell’art 600ter, per aver divulgato in rete il video registrato.
Il terzo comma dell’art. 600 ter c.p. prevede l’ ipotesi di reato:“ la divulgazione, la diffusione del materiale pornografico.
La disposizione contiene una clausola di riserva.
Secondo detta clausola le fattispecie previste dal terzo comma dell’art.600ter delittuose da essa hanno, carattere sussidiario e residuale rispetto a quelle delineate dai primi due commi del medesimo articolo.
Conseguenza è che il terzo comma sanzionda l’autore delle condotte diffusive quando è persona diversa da colui che ha prodotto o commercializzato il materiale pornografico.
Il produttore che si occupa anche di divulgare o diffondere il materiale pedopornografico risponde unicamente dei più gravi reati di cui all’art. 600ter primo e secondo comma c.p., rispetto al quale la successiva immissione del materiale nella sfera di disponibilità di terzi fruitori rimane assorbita come post factum non punibile.
Quindi nei confronti di Tizio l’attenzione si pone sulla necessità di un accertamento delle forme delle condotte di produzione, di distribuzione, di divulgazione, pubblicazione in rete del materiale pedopornografico in questione.
Le condotta certamente implicano tutte, una reale capacità diffusiva e di propagazione del materiale fra i destinatari della comunicazione.
Debba escludersi l’idoneità della condotta solo quando questa non raggiunge una cerchia indefinita di soggetti, ovvero un gruppo determinato o determinabile di persone.
Solo in questa ipotesi non si perfezionata la fattispecie oggettiva di cui all’art. 600 ter terzo comma c.p..
Così non è stato per Tizio.
Infatti Tizio divulgando il materiale in rete ha messo a disposizione ed ha reso accessibile a un numero indeterminato di persone il materiale pornografico ottenuto mediante l’utilizzazione della minore Caia.
È indispensabile che questa attività sia rivolta a più di una persona, per perfezionarsi la fattispecie.
Infatti così è stato nella condotta di Tizio, quando ha pubblicato il materiale pedopornografico mettendolo a disposizione ed a conoscenza del pubblico, ossia di una pluralità, più o meno vasta, di persone.
La fattispecie delittuosa del terzo comma si consuma nel momento in cui l’agente pone in essere, anche una sola volta, una delle quattro forme alternative della condotta tipica., e quindi nel momento in cui il materiale oggetto di essa è immesso nella rete, stante nella possibilità di accesso ad un numero indeterminato di persone ( Cass. Pen. n. 25232/05).
Nel senso che il delitto di distribuzione, divulgazione o pubblicizzazione di materiale pedo-pornografico non è un reato abituale e può concretizzarsi anche in un solo atto( Cass., n. 236073/06).
Quindi nel caso di specie in esame, a parere di chi scrive nei confronti di Tizio potrà ascriversi il delitto previsto all’art 600ter terzo comma, per l’aver riversato in rete il filmato pornografico relativo alla ex ragazza minorenne, sfruttando le immagini della stessa al fine di diffamarla.
Detto intento, ovvero diffamare l’ex ragazza minorenne, era l’utilità che Tizio voleva ricavare dal filmato, infatti la Cass. n. 698/06 definisce "sfruttamento" in una qualsiasi utilità, non necessariamente economica, e quindi nel caso in specie l’utilità è consistita nella diffamazione della ragazza minorenne.
Specifica la stessa cass. che l’elemento soggettivo non implica uno scopo di lucro, ma è sufficiente il fine di trarre un vantaggio dall’attività di "sfruttamento" della ragazza minorenne.
Nel caso in specie il fine "vendicativo" di Tizo integra l’elemento soggettivo del reato, ovvero la volontarietà di divulgare e pubblicare il filmato in un ambito potelziamente illimitato come è quello internet.
Inoltre a parere di chi scrive sembra potersi applicare anche il primo comma dell’art. 600 ter.
Il legislatore con detta norma ha inteso punire, con la reclusione da sei a dodici anni, chiunque sfrutti i minori degli anni diciotto al fine di produrre materiale pornografico.
Per "produzione di materiale pornografico" si intende, la trasposizione di detto materiale su supporti di varia natura.
Si tratta di una nuova ipotesi di reato, introdotta dalla legge n. 38/2006.
Per materiale pornografico deve intendersi, invece, qualsivoglia supporto (come ad esempio, floppy disk, cd rom, videocassette), anche di natura informatica, rappresentante immagini o esibizioni di carattere pornografico, alle quale partecipi una persona minore di età.
In altre parole, nel primo comma dell’art. 600 ter c.p. il legislatore vuole sanzionare il momento della realizzazione dello sfruttamento, che consiste sia nell’esibizione fine a se stessa, sia nella riproduzione su supporti di varia natura, condizione per la creazione del materiale che poi potrà essere, diffuso o detenuto.
La condotta di questa fattispecie è stata indicata in termini ampi e generici, in modo da poter ricondurre una vasta gamma di comportamenti che vengono socialmente percepiti come fortemente negativi.
Il delitto previsto dal primo comma dell’art. 600 ter c.p., è volto a sanzionare qualsiasi impiego di persone minori di età per la produzione di materiale pornografico, ancorché funzionale esclusivamente all’appagamento di personali istinti sessuali, indipendentemente da qualsivoglia finalizzazione commerciale.
Le due fattispecie delittuose, si assorbono, così che il soggetto che diffonde il prodotto pedopornografico, da lui stesso realizzato tramite l’impiego di persone minori di età, risponderà del delitto più grave, quello appunto previsto al primo comma.
In sostanza il primo comma vieta, come per la condotta di Tizio, la semplice utilizzazione di persone minori di età, nella produzione di materiale pornografico, sanziona qualsivoglia impiego sessuale di una persona minore degli anni diciotto, a prescindere dall’eventuale ritorno economico che possa derivarne al soggetto agente e dal carattere occasionale o meno di questo impiego.
Anche la produzione casalinga e artigianale di materiale pornografico, effettuata al di fuori di qualsiasi contesto organizzativo di tipo imprenditoriale e al solo scopo di soddisfare propri istinti libidinosi, quindi, può integrare il reato, qualora comporti il coinvolgimento di persone minori degli anni diciotto in attività di natura sessuale.
Il primo comma, quindi, attribuisce rilievo anche al singolo e isolato episodio di utilizzazione di uno o più minori per scopi pornografici.
La Cass., n. 237204/07, afferma che “ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 600 ter, comma primo, c.p., il concetto di "utilizzazione" comporta la degradazione del minore ad oggetto di manipolazioni, non assumendo valore esimente il relativo consenso del minore.
Quindi il consenso data da Caia, minorenne all’epoca dei fatti, e legata a Tizio da un legame sentimentale, non esclude l’applicabilità della norma (Cass n 27252/07 )
Spetterà anzi al giudice di merito verificare quali margini di libera determinazione abbia potuto conoscere una giovane di neppure quattordici anni, ridotta a mero strumento di piacere, esibito e condiviso.
Sarà, dunque, compito del giudizio di merito verificare quale apporto di consapevole volontà (alla luce del livello di maturità personale che sarà accertato) la giovane abbia dato al verificarsi della volontà di Tizio di riprendere il singolo episodi sessuale in questione.
Il concetto di "produzione" richiede l’inserimento delle condotte in un contesto di organizzazione e di destinazione alla successiva fruizione anche potenziale da parte di terzi.
Il reato di pornografia minorile delineato dal primo comma dell’art. 600 ter c.p., infatti, si consuma con il confezionamento del materiale di natura pornografica, realizzato tramite l’impiego di persone minori degli anni diciotto.
Quindi la condotta di Tizio a parere di chi scrive è certamente sovrapponibile alla fattispecie descritta la primo comma, che assorbe la condotta sanzionata nel terzo comma.

Adozioni. Impossibile accogliere la domanda di adozione da parte di un single in assenza di apposita legge – Cassazione Civile, Sentenza 3572/2011

Con la sentenza n. 3572/2011 che ha ‘aperto’ alle adozioni di bambini anche da parte di single, non c’è stato “nessun invito al legislatore da parte della Corte di Cassazione in materia di adozione”, perchè la Corte ha “semplicemente affermato che, in assenza di un’apposita legge (che ove emanata non sarebbe in contrasto con la Convenzione di Strasburgo sui diritti dei minori), non è possibile al giudice accogliere una richiesta di adozione da parte di una persona single”. A precisarlo, in una nota, è l’ufficio stampa della Corte di Cassazione, in riferimento ad “alcuni commenti alla sentenza apparsi nel senso che la Corte con la sentenza avrebbe invitato, sollecitato o addirittura preteso che il legislatore approvasse una norma che permettesse l’adozione anche da parte di persone singole”.

Cassazione Civile, Sezione Prima, Sentenza n. 3572 del 14/02/2011

Parere legale motivato di diritto civile – obbligazione del defunto (de cuius) -testamento- principio della responsabilità pro-quota degli eredi. Annullabilita della promessa di pagamento per inesistenza del rapporto sottostante.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

Il caso in esame ci propone un caso debito ereditario di circa euro 600.000,00 dei sig. CAIO (defunto) e SEMPRONIA (coniuge).
Il debito risale a molti anni addietro, realizzatosi con diversi prestiti fatti da TIZIA a CAIO e SEMPRONIA.
CAIO E SEMPRONIA hanno tre figli.
Alla morte di CAIO, la moglie, SEMPRONIA, e due dei tre figli, MEVIA e FLAVIANO, dichiarano a TIZIA di aver ricevuto la somma di euro 600.000,00 e si impegnano personalmente e non a titolo ereditario a restituirla entro una data prefissa.
Il debito alla scadenza non viene estinto, e TIZIA, da prima, procede a richieste stragiudiziali per ottenere la restituzione della somma versata, e dopo, richiede ed ottiene ingiunzione di pagamento in danno di SEMPRONIA, MEVIA, e FLAVIANO per vedere restituita la somma asseritamente ricevuta.
MEVIA E FLAVIANO per meglio attuare un’adeguata linea difensiva dichiarano che nonostante quanto hanno asserito nella promessa di pagamento, non hanno mai chiesto e ricevuto in prestito alcuna somma dalla sig.ra TIZIA.
Per meglio comprendere la questione, a grandi linee affrontiamo gli istituti che lo regolano.
La morte della persona determina nell’ordinamento giuridico il problema della destinazione da dare ai beni e, più in generale, ai rapporti che alla persona facevano capo.
Che taluni rapporti non possano continuare al di là della vita del soggetto è agevole a comprendersi.
Alla morte è collegata la vicenda che va sotto il nome di successione a causa di morte.
Si parla di successione a causa di morte poiché è la morte il fatto che determina il trasferimento dei beni e il passaggio dei rapporti.
Con l’espressione successione a causa di morte si intende la vicenda traslativa di tutti i rapporti giuridici attivi e passivi, di una persona a seguito della sua morte, in forza della quale, il delato, a seguito dell’accettazione, subentra nella titolarità del complesso (o di una quota) dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al de Cuius, ed assume la qualità di erede (successione a titolo universale).
Il principio soffre alcune eccezioni, sia perché vi sono rapporti patrimoniali che si estinguono alla morte del titolare, e sia perché possono trasmettersi a causa di morte alcuni rapporti di natura non patrimoniale.
Il testamento non può pregiudicare «i diritti che la legge riserva ai legittimari».
La successione per legge si verifica quindi in caso di inefficienza totale o parziale della regolamentazione dei propri interessi per dopo la sua morte da parte del titolare, oppure in caso di sua disattenzione totale o parziale verso determinati soggetti (coniuge, discendenti, ascendenti) cui la legge riserva quote determinate e che definisce legittimari.
Dall’art. 457 e dagli artt. 553 e 556 si individua la successione, testamentaria e legale.
All’interno di quest’ultima, vi sono due specie quella ab intestato e l’altra necessaria.
Perché si apra la successione necessaria deve riscontrarsi 1) una lesione della quota riservata; 2) vi deve essere una dichiarazione giudiziale di inefficacia delle liberalità lesive.
Mentre per l’apertura della successione ab intestato basta che manchi in tutto o in parte il testamento.
Distinzioni e interrelazioni tra le successioni necessaria, intestata e testamentaria non sempre sono chiare.
Secondo la dottrina la necessaria si aprirebbe tutte le volte che l’acquisto ereditario risulti limitato alla quota loro riservata dalla legge quindi non soltanto quando vi sia lesione di legittima.
La successione si apre al momento della morte della persona, nel luogo del suo ultimo domicilio (art. 456). È importante fissare il momento della morte, in ragione delle disposizioni che fanno riferimento al tempo dell’apertura: in ordine alla capacità di succedere delle persone fisiche (art. 462), alla prescrizione del diritto di accettare l’eredità (art. 480, 2° co.), all’esercizio del diritto alla separazione dei beni ereditari (art. 516), alla continuazione del possesso in capo all’erede (art. 1146).
La delazione di un’eredità non è di per sé sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede perché a tale effetto è necessaria anche l’accettazione da parte del chiamato mediante aditio, oppure per effetto di pro herede gestio, oppure, per la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c.
Solamente al delato sono attribuiti, oltre al diritto di accettare l’eredità, i poteri di cui all’art. 460 c.c.
Alla stregua del secondo comma dell’art. 479 c.c., se più siano gli eredi del chiamato e tutti accettino la delazione trasmessa, l’eredità sarà acquistata in proporzione alle rispettive quote di loro spettanza.
Alla vedova consegue complessivamente, metà a titolo di divisione della comunione legale, e sul rimanente, che forma l’eredità del coniuge, ancora metà o un terzo.
L’accettazione del chiamato rappresenta l’ultima fase del procedimento successorio, l’attività cioè che determina la successione.
L’accettazione può essere espressa o tacita (art. 474 c.c.).
L’eredità può essere accettata puramente e semplicemente o col beneficio d’inventario (art. 470, 1° co., c.c.).
L’accettazione con beneficio d’inventario è espressa ed è soggetta alle forme di cui all’art. 484 c.c..
La differenza tra i due tipi di accettazione sta nel fatto che, a seguito di accettazione pura e semplice, l’erede subentra nei debiti del de cuius, rispondendone illimitatamente; con quella beneficiata, l’erede risponde dei debiti e dei pesi ereditari nei limiti del valore dell’eredità, e non con il proprio patrimonio personale.
La dichiarazione deve essere preceduta o seguita dall’inventario, nelle forme prescritte dal codice di procedura civile (art. 484, 3° co., c.c.).
Dispone l’art. 490 c.c. che l’effetto del beneficio d’inventario consiste nel tener distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede.
Conseguentemente: a) l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto, tranne quelli che si sono estinti per effetto della morte; b) l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legatari oltre il valore dei beni a lui pervenuti; c) i creditori dell’eredità e i legatari hanno preferenza sul patrimonio ereditario di fronte ai creditori dell’erede.
Dal terzo comma dell’art. 480 c.c. si ricava che la prescrizione del diritto di accettare l’eredità è decennale.
L’inosservanza delle prescrizioni dell’art. 485 c.c. comporterà un’ipotesi di acquisto (puro e semplice) dell’eredità senza accettazione.
Le disposizioni di cui agli artt. 752, 754 e 1295 cod. civ. prevedono la parziarietà delle obbligazioni dei coeredi e la sostituzione, per effetto dell’apertura della successione, di una obbligazione nata unitaria con una pluralità di obbligazioni parziarie.
Ciascun erede risponde soltanto della sua quota, in quanto è titolare di una quota di beni ereditari, e l’obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione alle quote ereditarie.
Non soddisfare un obbligo del defunto è ritenuto indebito oggettivo o ex re.
Sorge in capo al creditore del defunto, il diritto alla restituzione di quanto prestato.
In materia di ripetizione di indebito oggettivo, incombe sull’attore (il solvens o il suo erede) l’onere di dimostrare i fatti costitutivi del preteso diritto alla restituzione di quanto prestato.
L’azione di ripetizione si fonda sull’inesistenza di una valida causa dell’attribuzione patrimoniale eseguita dal solvens a favore dell’accipiens.
Qualora per soddisfare quest’obbligazione ereditaria, vi sia un rafforzamento dato da una promessa di pagamento ( art. 1988 c.c.), questa dispensa il promissario dall’onere di provare il rapporto fondamentale della promessa, presumendone la sua esistenza fino a prova contraria.
La promessa di pagamento, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi, in forza dell’art. 1988 c.c. un’astrazione meramente processuale della "causa debendi", comportante una semplice "relevatio ab onere probandi" per la quale il destinatario della promessa è dispensato dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (Cass. 11 dicembre 2000, n. 15575; Cass. 9 febbraio 2001, n. 1831; Cass. 10 agosto 2002, n. 11426).
Conseguentemente, l’onere di provare la mancanza del titolo giustificativo della solutio, deriverebbe dal fatto che la presunzione determina un’inversione dell’onere della prova.
L’inversione dell’onere probatorio si limita alla sola sussistenza del rapporto causale sottostante alla promessa.
L’attore deve provare l’inesistenza di un titolo giuridico giustificativo del pagamento. L’attore deve provare che nulla era dovuto.
Deve allora provare che non concluse vendite, non concluse locazioni, non interruppe indebitamente trattative contrattuali, non diffamò, non usurpò, non molestò, non ebbe rapporti societari di fatto, non vide sorgere a suo carico obbligazione.
L’attore, deve quindi provare l’inesistenza del titolo o causa del pagamento.
Il caso in cui accanto ad un debitore principale vi sia un ulteriore rapporto obbligatorio fa pensare ad una delegazione di pagamento.
Infatti la delegazione passiva può avere ad oggetto sia una promessa di futuro pagamento (delegatio promittendi, con funzione creditoria), sia un pagamento immediato (delegatio solvendi o dandi, con funzione solutoria); può assolvere, quindi, sia alla finalità di predisporre un futuro adempimento e di rafforzare il rapporto obbligatorio, aggiungendovi un nuovo debitore (delegato) con posizione di obbligato principale accanto al debitore originario (delegante), la cui obbligazione diventa, peraltro, sussidiaria (delegazione c.d. cumulativa), sia alla finalità di rendere possibile l’adempimento, in atto, di un’obbligazione già scaduta, ad opera di un terzo (delegato) anziché ad opera del debitore (delegante), con funzione immediatamente solutoria. Attesa la struttura unitaria della delegazione, che è composta di un rapporto unico con tre soggetti e due rapporti sottostanti, debbono sussistere, per gli effetti delegatori, due condizioni, e cioè che il delegante sia creditore del delegato e debitore del delegatario, e che il delegato abbia assunto l’obbligo di pagare a quest’ultimo il debito del delegante; la formazione del negozio giuridico di delegazione può essere anche progressiva e non contestuale, senza che ciò faccia venir meno la unicità del rapporto. (Cass. civ., 12/03/1973, n.676)
L’ipotetica astrattezza della delegazione non si traduce in alcun modo in una sua necessaria gratuità, operando i due concetti su piani affatto distinti". L’astrattezza infatti costituisce una mera qualità della delegazione che si traduce nella impossibilità per il delegato di opporre al delegatario le eccezioni attinenti ai rapporti sottostanti; mentre la gratuità attiene alla causa del contratto e ne è quindi un elemento costitutivo.
Degli artt. 1268 – 1270 C.C., si evince che la delegazione ben possa essere realizzata attraverso una pluralità di distinti negozi bilaterali e unilaterali – dotati ciascuno di una propria causa – pur se tra loro finalisticamente collegati: l’incarico delegatorio, come accordo tra delegante e delegato, non postula il consenso del delegatario; all’atto di assegnazione, come accordo tra delegante e delegatario, ben può rimanere estraneo il delegato; infine la promessa del delegato, come atto unilaterale, si perfeziona con la relativa dichiarazione di volontà ed è efficace – art. 1334 C.C. – dal momento in cui perviene a conoscenza del delegatario.
Qualora a garanzia di un’obbligazione ereditaria viene effettuata una promessa di debito, da parte degli eredi, con una della parte principale questa è da intendere come ricognizione di debito titolata, se vi sono riferimenti espliciti al rapporto sottostante tale da dare prova del prestito di denaro eseguito.
In materia di promesse unilaterali l’art. 1987 c.c. stabilisce che la promessa unilaterale di una prestazione non produce effetti obbligatori al di fuori dei casi ammessi dalla legge.
Il successivo art. 1988 c.c. prevede che la promessa di pagamento o la ricognizione di debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (Inversione dell’onere della prova in "colui a favore del quale la promessa è fatta -art. 1334 c.c.-Cass. 10253/1994; Cass. 130/1998; Cass. 9530 e 15575/2000).
La dimostrazione dell’esecuzione del contratto, deve provare la dazione del danaro e che tale consegna era stata effettuata per un titolo che ne implicava l’obbligo di restituzione da parte del de cuius. Solo tale scrittura integra una promessa di pagamento titolata.
In altre parole nonostante la promessa, e quindi l’obbligazione, bisogna sempre accertare il fondamento della pretesa, cioè si deve accertare che il credito risulti fondato a sufficienza da elementi probatori.
Nulla deve l’erede per il pagamento dei debiti del de cuius, se non è provata la qualità di erede, che non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, ma consegue solo alla accettazione della eredità, che può essere espressa o tacita.
Gli eredi del debitore rispondono del debito del de cuius in proporzione delle rispettive quote senza vincolo di solidarietà, ai sensi degli artt. 752 e 754 cod. civ..
Tuttavia se il creditore del de cuius, o gli eredi del de cuius facciano esplicito riferimento alla qualità di eredi, con l’indicazione del titolo ereditario, come causa della obbligazione dedotta, è idonea ad escludere che il creditore abbia voluto esporre i coeredi alla responsabilità solidale ultra vires per l’intero debito.
Nella fattispecie concreta in esame si rileva che la promessa di debito fatta da MEVIA e FLAVIANO mancano di un rapporto sottostante.
Quindi essi devono provare che nulla loro devono a TIZIA (art. 1988 c.c.), in quanto mai e già mai, essi percepirono alcuna somma da essa, ne a titolo di prestito, ne a titolo di donazione, ne a titolo di pagamento.
In altre parole sorge a carico di MEVIA e FLAVIANO l’onere della prova.
Essi devono dimostrare che non vi fosse alcun rapporto giustificativo dell’attribuzione patrimoniale in quanto inesistente nei loro confronti.
Infatti se pure volessimo considerare il debito cosi come dichiarato nella promessa, l’unica vera debitrice, era, e rimane, SEMPRONIA, coniuge di CAIO.
Essa era obbligata in solido con CAIO.
La solidarietà passiva scaturisce dalla contestuale presenza di comunanza del debito tra più dei debitori e l’identica causa dell’obbligazione.
Quindi TIZIA, può rivolgere le proprie pretese di ripetizione di quanto prestato, solo nei confronti di SEMPRONIA.
Infatti il riconoscimento del debito fatto da uno dei debitori in solido non ha effetto riguardo agli altri (art.1309 c.c.).
Tale è da considerarsi la promessa di debito fratta da SEMPRONIA.
Infatti con essa, SEMPRONIA ha riconosciuto il suo debito verso TIZIA.
Non cosi è accaduto per MAEVIA e FLAVIANO che hanno riconosciuto un prestito che iure proprio non è mai avvenuto.
Ritornando a MEVIA e FLAVIANO, dimostrata l’inesistenza del rapporto sottostante alla promessa, non sono più responsabili solidalmente con SEMPRONIA ex art. 1292 c.c..
Su di loro sorge solo una contribuzione alle obbligazioni del de cuius in proporzione delle rispettive quote ereditarie, solo se accettate con beneficio d’inventario.
Gli eredi del condebitore solidale rispondano dei debiti del defunto in proporzione alle rispettive quote (C. 4155/89).
Peraltro, osserva la giurisprudenza, con la morte del debitore in solido non cessa il vincolo di solidarietà, ma si determina un frazionamento pro quota dell’originario debito del de cuius fra gli aventi causa, nel senso che ciascun erede rimane obbligato solidalmente con i debitori originari fino a concorrenza della propria quota ereditaria (è C. 13291/99; C. 785/98; C. 771/83).
Il coerede che ha pagato oltre la parte a lui incombente può ripetere dagli altri coeredi soltanto la parte per cui essi devono contribuire a norma dell’articolo 752, quantunque si sia fatto surrogare nei diritti dei creditori ( art. 754 c.c.).
Quindi alla sig. SEMPRONIA, estinto il debito nei confronti di TIZIA, può in seguito esercitare il regresso verso gli altri coeredi ex art. 752 c.c.
A parere dello scrivente SEMPRONIA, MEVIA, e FLAVIANO devono proporre opposizione al decreto ingiuntivo di pagamento, avanzato da TIZIA, adducendo come motivo la mancanza della sussistenza del rapporto sottostante, delle promesse fatte da MEVIA e FLAVIANO.
Il decreto ingiuntivo dovrà considerarsi affetto da nullità avendo condannato ciascuno degli eredi al pagamento della intera somma non specificando nel modo più assoluto le quote imputabili a ciascun erede proporzionalmente alla propria quota come richiamato dall’art. 752 c.p.c..
Infatti con l’opposizione al decreto ingiuntivo, si intende permettere il riconoscimento del debito da parte, a titolo successorio da parte di SEMPRONIA, e non a titolo personale.
Il vantaggio e che gli eredi risponderanno solo in proporzione della propria quota.
Ma possiamo ipotizzare anche che gli eredi possano anche decidere di non accettare l’eredità qualora il debito fosse maggiore del lascito.
Inoltre, qualora il terzo figlio avesse accettato l’eredità, anch’egli è costretto con la propria quota a contribuire all’obbligazione del de cuius.

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