Parere legale motivato di diritto civile – IPOTESI DI FALSO IN SCRITTURA PRIVATA A SOSTEGNO DI RICHIESTA DI DECRETO INGIUNTIVO DI PAGAMENTO.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione in esame ci vede impegnati in un falso in scrittura privata.
TIZIO sostiene di aver ricevuto due scritture private da CAIO, con le quali riconosceva il suo debito.
Dette scritture, sono il fondamento di una richiesta di decreto ingiuntivo.
Il giudice viste le dichiarazioni di riconoscimento di debito, emetteva il decreto ingiuntivo, rilevando che il credito era certo ed esigibile.
CAIO, al contrario sostiene di non aver mai contratto debito con TIZIO, di non aver firmato alcuna dichiarazione in merito, e infine, riconosce come non proprie (falsificate) le sottoscrizioni apposte alle dichiarazioni.
Quindi CAIO, propone opposizione al decreto ingiuntivo, e denuncia TIZIO alla autorità giudiziaria, per falsità materiale delle scritture private.
Il P.M. contestava a TIZIO i reati di :
falso in scrittura privata;
falso in atto pubblico;
induzione in errore.

Le scritture private fanno piena prova, fino a querela di falso, della provenienza della dichiarazione di chi l’ha sottoscritta, a meno chè, non sono disconsciute come proprie ( art. 2702 c.c.).
Dette scritture possono essere usate anche per promettere un pagamento, o riconoscere un debito ( art. 1988 c.c.).
La dichiarazione che riconosce un debito fa piena prova, se non si dimostra il contrario ( art. 2720 c.c.).
Chi non riconosce le scritture, può proporre querela di falso ( art. 221 c.p.c.), affinchè venga provata la verità del documento, e dando prova in giudizio (art. 2967 c.c.), chiede istanza di verificazione ( art. 216 c.p.c.).
Il giudice se il credito, è certo, ed esigibile, su domanda del creditore, e sulla base delle scritture private proposte, pronuncia ingiunzione di pagamento ( art. 633 c.p.c.).
Le promesse di pagamento, dichiarate con scrittura privata sono prove che il giudice ritiene idonee, al fine di pronunciare ingiunzione di pagamento, che si conclude con l’accoglimento della domanda (art. 641 c.p.c.).
A tale decreto d’ingiunzione è possibile opporsi ( art.645 c.p.c.), o se divenuto esecutivo, impugnare ( art. 656 c.p.c.) davanti al giudice civile, per ottenere la sospenzione ( art. 649 c.p.c.), o la revocazione, dell’esecuzione dello stesso.
Inoltre è possibile chiederne revocazione della eventuale sentenza, se la stessa è l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra, sulla base di prove riconosciute false ( art. 395 c.p.c.).
Se invece la scrittura, è falsa, e facendone uso, procura a sè o ad altri un vantaggio, a querela di parte ( art. 336 c.p.), si può essere puniti, prevedendo una reclusione da sei mesi a tre anni ( art. 485 c.p.).
E’ altresi punito chi usa la scrittura falsificata, procurando a se o ad altri un vantaggio ( art. 489 c.p.).
Se sulla base di dette scritture private (falsificate), con inganno ( art. 48 c.p.), si induce in errore un pubblico ufficiale, che ricevendo un atto, nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, di ciò, è punito chi ha determinato l’inganno, con la reclusione da uno a sei anni.
La falsità è dichiarata nel dispositivo ( art. 537 c.p.p.), e con la stessa sentenza è ordinata la cancellazione dell’atto ( scrittura privata).
Il reato di falsità in scrittura privata tutela la circolazione dei documenti, e la fiducia che i consociati ripongono in essi ( cass.pen. 3331/00), ma altresì tutela il pregiudizio che si ricollega alle conseguenze, che dall’alterazione della verità, un soggetto sopporta (cass. pen. 1797/84).
Per scrittura privata va inteso quel documento, redatto senza un pubblico ufficiale, nel quale vi è una qualsiasi dichiarazione di volonta e scienza avente rilevanza giuridica ( cass.pen.12877/86).
Ai fini della condotta, rilevante per la configurazione del reato ex. 485, è importante constatare l’uso del documento falso, quale che sia il significato che allo stesso intende attribuire (cass.pen. 26173/03).
L’elemento psicologico dell’attore è nel trarre vantaggio di qualsiasi natura.
La modificazione, l’alterazione, e la falsificazione di firma apocrifa di persona esistente, realizzano il delitto di falsità materiale in scrittura.
Il reato si consuma nel momento in cui si fa uso della stessa scrittura, uscendo dalla sfera di disponibilità dell’agente, essendo irrilevante il verificarsi di un pregiudizio patrimoniale.
Il tentativo è configurabile quando si hanno condotte dirette a concretarne l’uso.
Il delitto di cui all’art. 485 c.p. è punito a querela di parte.
Detta parte può essere anche il soggetto che risenta di un danno in conseguenza dell’uso della scrittua.
Infatti poichè il delitto si configuri, è richiesto oltra la formazione della scrittura, anche l’uso.
I delitti contro la fede pubblica, al contrario del falso in scrittura privata, offendono direttamente e specificamente l’interesse pubblico, costituito dalla tutela della genuità materiale e della veridicità ideologica di certi documenti, e solo di riflesso ledono l’interesse del singolo.
La falsità può essere materiale (art.476-477-478 c.p.), oppure ideologica (art.479-480-481 c.p.), e riguardare atti pubblici, certificati, autoizzazioni, copie autentiche, ma anche scrittura privata collegata funzionalmente ad un atto amministrativo, per effetto dell’inserimento di esso nella relativa pratica, occorrente per il provvedimento finale.
Analizzando il caso in concreto la condotta consistente nel presentare un documento falso come titolo idoneo per la richiesta di emissione di un decreto ingiuntivo configura i presupposti dell’induzione in errore del pubblico ufficiale cui viene richiesto l’atto, con la conseguente responsabilità del soggetto che pone in essere l’inganno mediante il meccanismo di cui all’art. 48 c.p.(Tribunale Genova 13-01-2006).
A TIZIO è facile intuire che possa applicarsi la fattispecie prevista dall’art. 48 c.p., per aver indotto il giudice in errore presentando al giudice, al fine di ottenere ingiunzione di pagamento, due scritture private contenenti riconoscimenti di debito, apparentemente rilasciategli da CAIO, ma risultate integralmente false.
Inoltre l’art. 479 c.p. sanziona penalmente la condotta del pubblico ufficiale che "attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità", ed appare evidente l’errore del giudice.
In un procedimento civile la verifica della scrittura (art. 221 c.p.c.), è affidata al contraddittorio (art. 2967 c.c.) delle parti e deve essere accertata con sentenza.
La pronuncia di un decreto ingiuntivo sicuramente non attesta fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità (Cass. pen. 40691/08).
Il giudice che li aveva pronunciati aveva soltanto recepito in via del tutto provvisoria quanto aveva esposto TIZIO nei ricorsi proposti ex art. 633 c.p.c., senza aggiungere alcunchè in ordine alla autenticità e veridicità del suo contenuto.
CAIO ha giustamente proposto opposizione avverso il decreto di ingiunzione (art. 645 c.p.c.).
Il giudice non ha attestato nulla falsamente, nell’esercizio delle sue funzioni, ma ha solo provvisoriamente recepito le scritture che TIZIO aveva proposto a fondamento della sua domanda, senza aggiungere nulla sulla autenticita o meno delle scritture.
CAIO ha gli strumenti opportuni in sede civile per far accertare la falsità delle scritture, e opporsi al decreto.
Inoltre a parere dello scrivente non essendo provato che le scritture fossero false, non è ipotizzabile il reato ex 48 cp.
Concludendo a parere dello scrivente, non è applicabile a CAIO, nè l’art. 48 c.p. (per non aver indotto il giudice in errore, non essedoci una sentenza passata in giudicato che accerti la falsità delle scritture), nè tanto meno l’art. 479 c.p.(perchè il giudice non ha attestato nulla falsamente).

Parere legale motivato di diritto civile. Sorge responsabilità dell’ente Provincia, e non della Regione, per il sinistro causato dal comportamento della fauna selvatica (capriolo ).

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessato il sig. CAIO, che ha subito danni alla sua autovettura a seguito dell’impatto con un capriolo, che aveva improvvisamente attraversato la strada statale che egli stava percorrendo.
Il sig. CAIO procedeva a velocità moderata, e l’animale ha fatto irruzione sulla strada all’improvviso.
Negli ultimi tempi si erano verificati molti incidenti analoghi, sì che il danno era prevedibile ed avrebbero dovuto essere approntate misure di vigilanza, in particolare facendo predisporre adeguata segnaletica stradale.
E’ facilmente intuibile che la presenza di un eccesso di popolamento, e la determinazione poco oculata dei luoghi in cui gli animali trovano cibo ed acqua, nonché l’assetto e le modalità di delimitazione del territorio in relazione alla prossimità con le strade pubbliche, ecc., possono incrementare i rischi di interferenze con la circolazione dei veicoli.
Vi è dunque una responsabilità per il sinistro del comportamento della fauna selvatica ai quali non può applicarsi i principi di cui all’art. 2052 cod. civ., ma l’applicazione dell’art. 2043 cod. civ..
Va premesso che il caso in esame concerne il problema della responsabilità per i danni arrecati a terzi dal comportamento della fauna selvatica, sulla base dei principi generali in tema di illecito civile di cui all’art. 2043 ss. cod. civ.: materia su cui le leggi speciali, statali e regionali, che regolano competenze e responsabilità dello Stato e degli enti locali, nulla dispongono espressamente
La disciplina applicabile deve essere ricostruita sulla base dei principi generali in tema di responsabilità civile, che impongono di individuare il responsabile dei danni nell’ente a cui siano concretamente affidati, con adeguato margine di autonomia, i poteri di gestione e di controllo del territorio e della fauna ivi esistente, e che quindi sia meglio in grado di prevedere, prevenire ed evitare gli eventi dannosi del genere di quello del cui risarcimento si tratta.
Nel caso in esame si tratta di stabilire se tali poteri spettino alla Regione o alla Provincia (o ad entrambe): problema da risolvere con riguardo sia alle leggi nazionali che regolano le rispettive competenze, sia alle leggi della regione interessata; che quindi è suscettibile di diversa soluzione, nell’ambito delle diverse regioni. (Cass. civ., Sent., 08-01-2010, n. 80).
La L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 14, sulle autonomie locali attribuisce alle province le funzioni amministrative che attengano a determinate materie, fra cui la protezione della fauna selvatica (comma 1, lett. f), nelle zone che interessino in parte o per intero il territorio provinciale.
Mentre la L. 11 febbraio 1992, n. 157, destinata a regolare la protezione della fauna selvatica, attribuisce alle regioni a statuto ordinario il compito di "emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie di fauna selvatica" (art. 1, comma 1) e dispone che le province attuano la disciplina regionale "ai sensi della L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 14, comma 1, lett. f)" (art. 1, comma 3), cioè in virtù dell’autonomia ad esse attribuita dalla legge statale; non per delega delle regioni.
Da tali disposizioni si desume che la regione ha una competenza essenzialmente normativa, mentre alle province spetta l’esplicazione delle concrete funzioni amministrative e di gestione, nell’ambito del loro territorio.
La sentenza n. 8788/1991 della Corte di cassazione ha affermato che, ove la Regione affidi ad un concessionario la gestione di attività di propria competenza, sul concessionario grava la stessa responsabilità civile propria del concedente, così come va individuata nel concessionario la posizione di soggetto passivo dell’azione di responsabilità, per i danni arrecati a terzi.
“In sintesi, è da ritenere che la responsabilità aquiliana per i danni a terzi debba essere imputata all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc, a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, con autonomia decisionale sufficiente a consentire loro di svolgere l’attività in modo da poter amministrare i rischi di danni a terzi che da tali attività derivino”. (Cass. civ., Sent., 08-01-2010, n. 80).
Deve essere parimenti disatteso l’ulteriore argomento secondo cui la Regione dovrebbe essere tenuta comunque responsabile, quale ente che ha delegato i suoi poteri alla provincia.
In primo luogo, l’esercizio di funzioni o di attività per delega di altri non vale di per sè ad escludere la responsabilità del delegato per i danni arrecati a terzi, ove il delegato goda di autonomia di valutazioni e di scelte, rispetto al delegante, sufficiente a ricondurre alla sua personale decisione, il comportamento produttivo di danno.
Per ravvisare la responsabilità esclusiva del delegante, in tema di illecito civile, occorrerebbe dimostrare che il comportamento del delegato è stato interamente vincolato dalle direttive del primo (artt. 1390 e 1391 cod. civ.).
In secondo luogo, si è detto che la L. n. 142 del 1990, art. 14, comma 1, lett. f, attribuisce alle province, nell’ambito del proprio territorio, una competenza propria in materia di fauna selvatica; che le regioni approvano le norme relative alla gestione e alla tutela della fauna, e che le province attuano tali norme, ai sensi del citato art. 14 (L. n. 157 del 1992, art. 1, comma 1), cioè nel quadro di una competenza propria (Cass. civ., Sent., 08-01-2010, n. 80).
“In tale contesto, la responsabilità della regione potrebbe essere coinvolta solo se l’evento dannoso fosse riconducibile all’attuazione da parte della provincia di specifiche norme regionali; non invece ove si tratti di danni inerenti all’esercizio di attività meramente amministrative, quali il controllo sugli animali e sul territorio, il fare apporre sulle strade apposita segnaletica per gli automobilisti, e simili, relativamente alle quali le decisioni su come agire spettano esclusivamente o prevalentemente alla provincia.” (Cass. civ., Sent., 08-01-2010, n. 80).
La questione dovrà essere infatti esaminata con riferimento alla specifica posizione dell’ente.
In linea di principio:"La responsabilità aquiliana per i danni provocati da animali selvatici alla circolazione dei veicoli deve essere imputata all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc, a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che i poteri di gestione derivino dalla legge, sia che derivino da delega o concessione di altro ente (nella specie della Regione). In quest’ultimo caso, sempre che sia conferita al gestore autonomia decisionale e operativa sufficiente a consentirgli di svolgere l’attività in modo da poter efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi, inerenti all’esercizio dell’attività, e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni" (Cass. civ., Sent., 08-01-2010, n. 80).

Capacità giuridica dello straniero

La cittadinanza può generare forme di incapacità giuridiche speciali.
La capacità giuridica delle persone fisiche è regolata dalla loro legge nazionale. (1)
Precedentemente vigeva il principio della reciprocità, che comportava per lo straniero la compromissione o compressione di diritti costituzionalmente riconosciuti (es.retribuzione adeguata, al riposo ed alle ferie). (2)

Bibibliografia
1.art. 20, l. 31.5.1995, n. 218.
2.C. 2265/88.

Domenico CIRASOLE
diritto penale d’impresa, dei mercati, e degli intermediari finanziari

Parere legale motivato di diritto penale Responsabilità oggettiva della P.A., quale gestore e custode di demanio pubblico (responsabile del controllo delle acque portuale), per i danni cagionati dalle cose in custodia (insidia da basso fondale)

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessato Tizio, che partito a bordo del proprio motoscafo dal porto di Bari, si arenava a breve distanza dal porto di Trani. L’incidente si era verificato a causa di una secca non rilevata sulle carte nautiche ufficiali e comunque non visibile né segnalata.
I porti sono quei tratti di costa, naturali ed artificiali, idonei ad offrire rifugio ed agevolare l’approdo delle navi al riparo dai venti e dalle onde. Nell’impianto codicistico prevale la concezione del porto come infrastruttura, come bene pubblico soggetto alla particolare disciplina dei beni demaniali. L’art. 28 c.n., include i porti tra i beni del demanio marittimo (art. 822 c.c.) e l’art. 35 c.n. ne individua l’elemento di qualificazione nella “utilizzabilità” per i “pubblici usi del mare”(difesa nazionale, navigazione, traffico marittimo, pesca e altre attività connesse). Dal combinato disposto di tali disposizioni discende che è la stessa soggezione ad un pubblico uso che giustifica l’inclusione dei porti nella categoria dei beni demaniali.

Di fronte all’assenza di una definizione giuridica di porto, si è tentato di ricostruirne la nozione ora facendo riferimento al profilo squisitamente fisico (tratto di mare chiuso, atto al rifugio, all’ancoraggio, all’attracco delle imbarcazioni, caratterizzato dalla presenza di elementi naturali e artificiali), ora ponendo sempre più l’accento sull’aspetto funzionale e quindi sulle attività economiche che si svolgono al suo interno, volte alla prestazione di servizi.

La legislazione in materia portuale classifica i porti in due categorie, la prima per i porti militari e la seconda per quelli di rilevanza economica (internazionale,nazionale e regionale, interregionale). La normativa richiamata si limita, tuttavia, a sancire l’appartenenza dei porti al demanio necessario, senza comunque offrire una nozione legislativa di porto. Neppure la legislazione speciale in materia portuale ha contribuito a fornire una definizione giuridica del bene-porto.

Il recente D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 2036 (traducendo quasi ad litteram quella contenuta nella Direttiva del 2005/65/CE) ha introdotto una precisa definizione di porto come “specifica area terrestre e marittima, intesa ad agevolare le operazioni commerciali e di trasporto marittimo. Mentre le rade sono zone di mare normalmente prospicienti o prossime al porto, ma anche di mare aperto, che offrono la possibilità di una sosta temporanea alle navi in quanto al riparo dai venti e dai marosi.

Chiarito ciò, occorre chiedersi cosa debba allora intendersi per “ambito portuale”, e se si tratti di un concetto diverso da quello di “area portuale”. Ebbene, l’ambito portuale di cui alla legge di riforma dei porti sembrerebbe più ampio, sotto il profilo spaziale, non solo del “porto”stricto sensu, ma talvolta anche delle singole “aree portuali” propriamente dette, comprendendo al suo interno sia l’uno che le altre, ma potendo racchiudere anche altre zone più periferiche. Che il concetto di “ambito portuale” sia molto ampio e onnicomprensivo, peraltro, si evince dallo stesso tenore dell’art. 18 della legge 84 del 1994, laddove prevede che siano soggette a concessione gli specchi acquei esterni in quanto anch’esse da considerarsi a tal fine ambito portuale, purché interessate dal traffico portuale e dalla prestazione dei servizi portuali.
Perché l’ambito portuale possa ricomprendere anche queste aree esterne, è stata quindi posta questa limitazione di natura funzionale.
Ebbene, dal momento che l’art. 5 della legge n. 84/94 prevede che sia oggetto di pianificazione l’“ambito portuale”, mentre l’art. 6, comma 7, si riferisce alla “circoscrizione” quale spazio nella quale si esercita la giurisdizione dell’Autorità Portuale, non è detto che il primo coincida sempre con la seconda, potendo l’ambito comprendere porzioni del territorio esterne alla circoscrizione.

La certezza dei confini delle zone portuali è di fondamentale importanza per la legittimità di qualsivoglia provvedimento.

A seguito del nuovo quadro normativo il Comune è oggi titolare delle funzioni amministrative sul demanio marittimo, incluso quello portuale, che il Codice della Navigazione affidava alle Capitanerie di Porto e che consentono all’Ente Locale, l’amministrazione diretta dei beni demaniali marittimi. Diverse Regioni, con diverse leggi regionali, hanno conferito ai propri Comuni costieri l’esercizio di tutte le funzioni amministrative relative al demanio marittimo, intendendosi per beni demaniali quelli elencati nell’art. 822 del c.c. e 28 del codice della navigazione e cioè il lido del mare, la spiaggia, i porti, le rade, le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare.

Ciò altro non è che il risultato del nuovo assetto costituzionale che, introduce una profonda ridislocazione di poteri dal centro alla periferia, e che hanno aperto la strada al potenziamento delle autonomie.

Quindi nelle Regioni a Statuto ordinario, a seguito del conferimento dei poteri amministrativi in capo alle Regioni, avvenuto ad opera dell’art. 105 del D.lgs. n. 112/98, la gestione amministrativa del demanio marittimo è ormai di competenza Regionale o, per subdelega ex art. 42 del D.lgs n. 96/1999, Comunale, salve rare ipotesi di competenza statale.

Le Regioni e i Comuni destinatari della riforma sono oggi chiamati a svolgere funzioni nuove. Molti Enti locali, nell’esercizio concreto delle funzioni concessorie, oltre ad essersi autolimitati, nel senso di aver adottato mediante apposite delibere comunali propri criteri direttivi si sono, altresì, legittimamente dotati di strumenti urbanistici demaniali.

Tra le varie funzioni nuove della Regione e dei Comuni vi è la funzione propria degli Enti Nazionali addetti al coordinamento della carta nautica, che è redatta non dalla regione, ma dalla Marina Militare, e dal’Ente cartografico di Stato.

La cartografia ufficiale proviene dalla Marina militare" (per il fatto stesso di dover essere unitaria ed aggiornata) alla quale va il compito di "redigere le carte nautiche ufficiali" sia marine, sia lacustri e fluviali. La Legge quadro 68/60 che detta “norme sulla cartografia ufficiale dello Stato e sulla disciplina della produzione e dei rilevamenti terrestri e idrografici” prevede che gli organi cartografici dello Stato siano l’Istituto geografico militare, l’Istituto idrografico della Marina, la Sezione fotocartografica dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, l’Amministrazione del catasto e dei servizi tecnici erariali, il Servizio geologico.
La cartografia ufficiale dello Stato è costituita dalle carte geografiche, topografiche, corografiche, nautiche, aeronautiche, catastali e geologiche pubblicate da un ente cartografico dello Stato e dall’ente stesso ente ufficiale dichiarate.

Ma la Regione e i Comuni quali enti pubblici dovrebbero conoscere la discrasia tra i dati reali e quelli indicati nella carta, e comunque dovrebbero segnalare nelle carte nautiche, il punto in cui un fondale è meno profondo.

L’assenza di detta indicazione, crea i presupposti di un’insidia a cui nessuno può sfuggire.
L’inerzia colposa delle Regioni o dei Comuni, consiste nell’omessa segnalazione del pericolo, ed a nulla rileva l’impossibilità nel caso concreto di una vigilanza continua sul bene, date le sue dimensioni e caratteristiche.

Sorge così una responsabilità per danni da beni di proprietà della Pubblica amministrazione, a cui consegue una presunzione di responsabilità per i danni cagionati dalle cose che si hanno in custodia vedendo applicata la disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ..

Qualora invece sia accertata in concreto l’impossibilità dell’effettiva custodia del bene, a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di uso da parte di terzi, l’ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall’utente, secondo la regola generale dell’art. 2043 cod. civ., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un’insidia o di un trabocchetto. Conseguentemente, secondo i principi che governano l’illecito aquiliano, graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene, che va considerata fatto di per sé idoneo – in linea di principio – a configurare il comportamento colposo della P.A., mentre incomberà a questa dimostrare i fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo (Cass. 6 luglio 2006, n. 15383).

Non è superfluo aggiungere che siffatto ordine di idee ha, a suo tempo ricevuto il significativo avallo della Corte costituzionale la quale, chiamata a scrutinare la conformità con gli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione degli artt. 2051, 2043 e 1227 cod. civ., ha ritenuto infondato il dubbio proprio in ragione della aderenza ai principi della Carta fondamentale del nostro Stato all’interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità ( Corte cost. n. 156 del 1999). Questa sentenza si pone sulla scia di precedenti interventi della Corte di Cassazione, tendenti a eliminare i privilegi tuttora concessi alla Pubblica Amministrazione nei rapporti con i privati, in vista di un progressivo innalzamento del grado di responsabilizzazione degli Enti Pubblici. Da quel momento la regola generale contenuta nell’art. 2043 c.c. ha svolto una funzione residuale nei casi di responsabilità della P.A. per danni causati da beni demaniali, in quanto richiamata solo in via subordinata rispetto all’art. 2051 c.c.

In concreto e allo stato attuale del diritto e della giurisprudenza, nonostante l’art. 2043 c.c. dovesse rappresentare una sorta di “rete di sicurezza” per tutti quei casi che non rientravano nella fattispecie dell’art. 2051 c.c., l’utilizzo della norma è stata molto limitata.

I giudici di legittimità hanno negli anni affermato che l’art. 2043 c.c. non limita ai soli casi di insidia e trabocchetto la responsabilità della pubblica amministrazione; inoltre hanno affermato il principio di diritto al quale il giudice di prime cure dovrà attenersi. Infatti graverà sul danneggiato il solo onere di provare l’anomalia del bene demaniale, che costituisce fatto di per sé idoneo a configurare un comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade conseguentemente l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità.

E’ evidente che l’introduzione dell’elemento dell’insidia o trabocchetto restringeva notevolmente l’ambito di operatività del principio contenuto nell’art. 2043 c.c., in quanto si poneva a carico del privato cittadino il dovere di evitare, per quanto possibile, ogni situazione di pericolo che possa eventualmente presentarsi durante la fruizione degli spazi di demanio pubblico. Infatti il danneggiato doveva dimostrare che il danno non era visibile o prevedibile, prova non facile da raggiungere e che spettava alla difesa della P.A. di puntare sulla negligenza o disattenzione del danneggiato per sottrarsi completamente alla richiesta di risarcimento o per concludere il contenzioso con la dichiarazione di un concorso di colpa ex art. 1227 c.c.

In seguito alle fondamentali sentenze 20 Febbraio 2006 n. 3651 e 14 Marzo 2006 n. 5445 della Cassazione civile, sezione III, il soggetto che lamenti un danno, e ne chieda il risarcimento ai sensi dell’art.2043 c.c. (e non ai sensi dell’art.2051 c.c.), sarà tenuto a provare i consueti elementi strutturali dell’illecito e in particolare l’esistenza di un’anomalia del bene demaniale idonea a configurare il comportamento colposo della P.A..
Non sarà, invece, tenuto alla prova della sussistenza dell’insidia o trabocchetto, restando in capo alla P.A. l’onere della prova dei fatti cd. impeditivi (ossia la prova dell’inesistenza della predetta anomalia, della visibilità e prevedibilità di essa etc.) con la conseguenza che la P.A. sarebbe responsabile di ogni danno causato dal bene di cui è custode, in quanto esercente su di esse un diritto di proprietà, a meno che tali danni non possano essere effettivamente ricondotti ad eventi fortuiti.

Con la sentenza n. 8692/2009 viene ribadito il concetto che la responsabilità della Pubblica Amministrazione non è limitata ai soli casi di insidia e trabocchetto, e che nell’ottica di una effettiva parità in ambito giurisdizionale tra Enti pubblici e soggetti privati, la circostanza che soggetto responsabile sia la pubblica amministrazione non modifica gli oneri probatori propri della regola generale ex art. 2043 c.c..

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 8692/2009 si pronuncia in tema di onere della prova nel caso di danno cagionato da un’insidia costituita da rocce semi-affioranti in un lago e non indicate nella carta nautica ufficiale.

Il ricorrente, chiedeva il risarcimento dei danni subiti al motoscafo di sua proprietà a causa della collisione con un basso fondale non segnalato. La Cassazione ha stabilito che l’ente nel cui territorio ricade il lago (Regione), garante della sicurezza della navigazione, risponde, in via di principio, verso i terzi della discrasia tra dato reale e risultanze cartografiche.

Concludendo alla luce di questa ultima sentenza, Tizio a parere di chi scrive, è legittimato a chiedere all’ ente pubblico territoriale (in via principale alla Regione Puglia, ed in via subordinata al Comune di Trani) su cui ricade la gestione, e la custodia, il risarcimento degli ingenti danni riportati dal proprio motoscafo, non essendo la secca nè visibile, nè segnalata, e ciò tanto più che la carta nautica ufficiale indicava in quel punto un fondale profondo, laddove questo si era rivelato molto più basso, dovendo provare l’esistenza della secca, quale causa dei danni riportati alla propria imbarcazione.