Parere legale motivato di diritto civile. Assenza di rendita inail per il coniuge (more uxorio), in caso di decesso del lavoratore per infortunio, e previsione di rendita del quaranta per cento per il figlio naturale.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessata la sig.ra TIZIA, vedova del marito SEMPRONIO, esercente la patria potestà sul figlio CAIO, minore degli anni 18.
Il sig. SEMPRONIO convivente more uxorio, della sig.ra TIZIA, a seguito di infortunio sul lavoro, riceve lesioni gravi tali da conseguirne il decesso.
Dall’art. 85, primo comma, n. 1, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), si ricava che, in caso di decesso del lavoratore per infortunio, sia disposta una rendita inail per il coniuge nella misura del cinquanta per cento della retribuzione percepita dal lavoratore stesso.
Dallo stesso art. 85, primo comma, n. 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965, si ricava che in conseguenza della morte per infortunio del lavoratore, è disposta una rendita del venti per cento della retribuzione dallo stesso percepita per ciascun figlio ovvero del quaranta per cento per gli orfani di entrambi i genitori.

Appare subito l’evidenza che il predetto art. 85, primo comma, n. 1, del citato d.P.R. n. 1124 del 1965, non prevede che, in caso di decesso del lavoratore, sia disposta una rendita per il coniuge more uxorio nella misura del cinquanta per cento.
Ancora è palesemente evidente che ai sensi dell’art. 85, primo comma, n. 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965, spetta una rendita pari al «venti per cento per ciascun figlio legittimo, naturale, riconosciuto e/o riconoscibile e adottivo, ed il quaranta per cento se si tratti di orfani di entrambi i genitori». Detta norma non prende in considerazione, l’ipotesi del decesso di un genitore in una situazione di famiglia di fatto (more uxorio) consolidata, con la conseguenza che anche in questo caso viene erogato al figlio superstite solo il venti per cento della rendita.
In tal modo, viene sottratta al figlio anche quella quota della rendita riservata al coniuge che è naturalmente destinata a soddisfare le esigenze del nucleo familiare e non soltanto quelle di sostentamento del coniuge stesso.
In altre parole dall’art. 85 della 1124/65 si evince che al minore figlio di genitori non coniugati, in caso di morte a causa di infortunio, di uno dei genitori, spetta una rendita del 20 % della retribuzione.
Mentre se i genitori fossero stati coniugati, sarebbe spettato, una rendita del 50% per la madre, e del 20% per il figlio.
Non solo la morte nel caso di orfani di entrambi i genitori, la rendita per il figlio superstite sarebbe stata del 40%.
Detto ciò, appare evidente, nel predetto articolo 85, a)che manca un’adeguata tutela alla famiglia di fatto che è pari di quella fondata sul matrimonio (art. 2 Cost. art. 3 Cost.);b) che vi è un contrasto con il principio del favor familiaris, che obbliga lo Stato ad impegnarsi per promuovere ed agevolare il nucleo familiare qualunque ne sia la forma (art. 31 Cost.); c) rendendo al genitore non coniugato l’incapacità di provvedere al mantenimento dei propri figli, creando così un disagio individuale e familiare (art. 38 Cost.); d) creando irragionevole disparità di trattamento tra i figli nati fuori dal matrimonio e quelli legittimi (artt. 2 e 3 Cost.);
Vi è inoltre una lesione: 1) della Convenzione sui diritti dell’infanzia, siglata a New York che, impone agli Stati di adottare adeguati provvedimenti, per aiutare i genitori ad attuare il diritto di ogni fanciullo a un livello di vita sufficiente a consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale e sociale; 2) della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza con il fine di combattere le discriminazioni fondata sulla nascita e sulla cittadinanza.
La Corte costituzionale con sentenza del 27-03-2009, n. 86, ha posto in evidenza, che la mancata equiparazione del convivente al coniuge del lavoratore, agli effetti della corresponsione della rendita Inail, in caso di infortunio sul lavoro che abbia avuto per conseguenza il decesso dello stesso lavoratore, deriva dalla diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo, individuando le ragioni costituzionali che giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi nella circostanza che il rapporto coniugale trova tutela diretta nell’art. 29 Cost.. ( Vedi anche ordinanza n. 121 del 2004; sentenza n. 461 del 2000).
Ovvero, contina la Corte, la mancata inclusione del convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità trova una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che il suddetto trattamento si collega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico (cfr. ordinanza n. 444 del 2006).
Dunque secondo tale principio affermato dalla corte costituzionale, la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, giustifica un differente trattamento normativo, in caso di da infortunio sul lavoro.
In altri termini è giustificato il predetto art. 85, primo comma, n. 1, del citato d.P.R. n. 1124 del 1965, che non prevede, in caso di decesso del lavoratore, una rendita per il coniuge more uxorio.
Al coniuge more uxorio, nulla è dovuto, sulla base dei diritti e doveri che nascono soltanto dal vincolo del matrimonio.
Mentre per quanto concerne la questione attinente all’interesse del minore figlio naturale riconosciuto, nato da una coppia convivente more uxorio, attinente alla mancata previsione che, in conseguenza della morte per infortunio del lavoratore, sia disposta una rendita del quaranta per cento della retribuzione dallo stesso percepita in favore del figlio nato fuori dal matrimonio, deve anzitutto osservarsi nella materia de qua, che al figlio minore di una coppia non coniugata, ma stabilmente convivente, in caso di morte di uno solo dei genitori, il minore ha diritto alla sola rendita pari al venti per cento della retribuzione del genitore deceduto, senza potere usufruire del sostegno economico che, indirettamente, gli perverrebbe dall’attribuzione all’altro genitore della rendita pari al cinquanta per cento, legittimamente negata al convivente.

Detta norma si pone in contrasto con gli artt. 3 e 30 Cost. (Corte cost., 27-03-2009, n. 86).
E’ bensì vero che i figli, legittimi o naturali riconosciuti, godono – in caso di infortunio mortale del loro genitore – della rendita infortunistica nella stessa misura, ma la discriminazione deriva dal fatto che solo i figli legittimi, e non anche quelli naturali, possono godere di quel plus di assistenza che deriva dall’attribuzione al genitore superstite del cinquanta per cento della rendita (Corte cost., 27-03-2009, n. 86).
Infatti il minore, pur trovandosi, in una condizione analoga a quella di chi ha perso entrambi i genitori – non essendo destinatario di alcun beneficio economico, neppure indiretto, a tali fini, per la sopravvivenza dell’altro genitore, cui non spetta, in quanto non coniugato, alcuna rendita, ha diritto solo al venti per cento di essa, e non anche al quaranta per cento spettante agli orfani di entrambi i genitori.
A causa di detta disparità la corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 85, primo comma, numero 2), del d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui, nel disporre che, nel caso di infortunio mortale dell’assicurato, agli orfani di entrambi i genitori spetta il quaranta per cento della rendita, esclude che essa spetti nella stessa misura anche all’orfano di un solo genitore naturale (Corte cost., 27-03-2009, n. 86).
Dunque in virtù di detto principio, nella fattispecie in esame, al coniuge, non spetta alcuna rendita Inail, mentre al figlio dovrebbe spettare una rendita pari al 40% della retribuzione del padre.

Capacità giuridica : incapacità speciali, impedimenti ed incompatibilità

Le incapacità giuridiche speciali non possono contrapporsi, alla generale capacità giuridica poiché la mancanza di questa necessariamente esclude ogni altra forma di capacità.
La carenza della capacità giuridica speciale, produce una nullità radicale dell’atto posto in essere.
Gli atti personalissimi (matrimonio, separazione, adozione, riconoscimento di figlio naturale, testamento) possono essere compiuti solo dal titolare della situazione giuridica, se posti in essere da un titolare incapace sono annullabili.

Sono incapacità speciali:
1.Il divieto agli amministratori di enti pubblici ed ai pubblici ufficiali di rendersi rispettivamente acquirenti dei beni dell’ente al quale appartengono ovvero dei beni da loro venduti;(1)
2.Sono incapaci di rendersi cessionari dei diritti litigiosi gli operatori di giustizia ;(2)
3.Quelle ostative al matrimonio;(3)
4.Quelle dettate in caso di disposizioni testamentarie in favore del tutore e del protutore;(4)
4.Quelle del notaio e dei testimoni;(5)

Gli impedimenti alla capacità costituiscono dei divieti suscettibili di rimozione.
Il più grave è il fallimento. (6)
Configurano impedimenti alla capacità giuridica anche:
1.l’indegnità a succedere;
2.l’indegnità che comporta la revoca dell’adozione di persona maggiore d’età;
3.la condotta negligente, inetta o immeritevole del tutore (7) cui può seguire la rimozione dall’incarico o la sua sospensione;
4.il comportamento disordinato e riprovevole dell’alimentato cui può seguire la riduzione degli alimenti (8);
5.l’interdizione dai pubblici uffici, da una professione e da un’arte;
6.l’interdizione legale;
7.acquisti da parte dei genitori dei beni del minore;
8.gli atti vietati al tutore, al protutore ed al curatore;(9)

Limitazioni alla capacità giuridica sussistono anche per le persone giuridiche.
Le associazioni nazionali di assistenza e tutela del movimento cooperativo non hanno capacità giuridica e di agire piene, ma limitate alle specifiche attività, di natura non economica né di garanzia, ad esse assegnate per legge o per statuto (10).

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1. art. 1471, nn. 1 e 2;
2. artt. 1261 e 2233;
3. art. 87, nn. 1 e 2;
4. art. 596;
5. artt. 597 e 598;
6. art. 42 r.d. 16.3.1942, n. 267;
7. art. 384;
8. art. 440;
9. artt. 323, 1° co., 378, 1° co., 396, 2° co.
10. C. 2834/93; C. 2965/90

Domenico CIRASOLE
diritto penale d’impresa, dei mercati, e degli intermediari finanziari

Parere legale motivato di diritto civile – contratto preliminare di vendita, stipulato dal coniuge (marito), in regime di separazione legale dei beni, di un immobile acquistato dai coniugi in comune e pro-indiviso (comunione ordinaria).

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

Il caso in esame vede interessati due coniugi che al momento del loro matrimonio (20 aprile 2000) non stipulavano convenzione di separazione legale dei beni. Questa veniva stipulata solo in seguito il 2 gennaio 2007.
In seguito alla separazione legale anzidetta, entrambi i coniugi acquistavano un immobile in comune e pro-indiviso.
Tizio (uno dei coniugi), in data 15 dicembre 2008 stipulava con Sempronio, un preliminare d vendita, avente ad oggetto l’intero immobile acquistato dai coniugi, fissando il 20 dicembre 2009 la data della stipula del contratto definitivo di compravendita. Detto preliminare veniva regolarmente trascritto in data 16 dicembre 2008.
Caia, moglie di Tizio, invitata alla stipula del contratto definitivo, rifiuta la vendita.
Il contratto stipulato tra le parti è un contratto preliminare di cosa altrui.
La fattispecie è perfettamente lecita ed è disciplinata dall’articolo 1478 c.c. in combinato disposto con l’articolo 1351.
L’articolo 1479 c.c. disciplina in modo specifico l’ipotesi della vendita di cosa altrui venduta come propria.

Il compratore, che ignorava la proprietà della cosa, può chiedere la risoluzione del contratto, se nel frattempo il venditore non ha fatto acquistare la proprietà al compratore.

Tale norma però disciplina l’ipotesi del contratto di vendita “definitivo”, non già del contratto preliminare di cosa altrui.

L’acquirente può, chiedere in primo luogo l’annullamento per errore e, in subordine, la risoluzione del contratto.
L’azione di annullamento per errore può essere intentata ai sensi dell’articolo 1428, quando l’errore è essenziale o può essere considerato essenziale, (quando cade sull’identità dell’oggetto della prestazione; quando cade sull’identità del contraente).
La risoluzione per inadempimento ai sensi dell’articolo 1453 c.c., può chiedersi quando l’altro contraente non adempie in tutto o in parte la sua prestazione.
Nella fattispecie trattandosi di un preliminare di cosa altrui, (obbligo di stipulare un successivo contratto definitivo) il venditore non può essere considerato inadempiente fino al momento della stipula del definitivo.
Non essendo possibile risolvere il contratto o annullarlo, non può chiedersi altresì il risarcimento dei danni e la restituzione della somma versata.
L’azione di annullamento per dolo, con richiesta di risarcimento del danno e, restituzione di quanto pagato, può essere applicata qualora si riesca a dimostrare che il venditore era in male fede, (aver venduto un bene altrui ricevendo in anticipo il prezzo)
In teoria poi, potrebbe prospettarsi anche un’azione di nullità per violazione delle norme imperative che prevedono obblighi di correttezza e buona fede (articoli 1175 e 1375 c.c.).
In costanza di matrimonio, salvo diverso accordo tra i coniugi, il regime patrimoniale stabilito dalla legge è quello della comunione legale dei beni.
Tuttavia, il regime della comunione legale, per volontà concorde degli sposi, può essere opportunamente derogato al momento della celebrazione del matrimonio, con conseguente annotazione a margine dello stato civile che i coniugi hanno scelto il regime della separazione patrimoniale.
Una scelta analoga può essere fatta anche successivamente alla celebrazione del matrimonio, con atto avente la forma di atto pubblico (redatto cioè dinanzi ad un notaio).
Fanno parte della comunione tutti quei beni che sono stati acquistati congiuntamente o separatamente dai coniugi dopo il matrimonio. Essi appartengono in parti uguali al marito ed alla moglie.
I coniugi in regime di comunione legale dei beni possono agire con poteri disgiunti per il compimento di atti di ordinaria amministrazione, per quelli di straordinaria amministrazione devono, invece, agire congiuntamente.
Alternativamente al regime di comunione legale dei beni, la legge permette l’applicazione del regime patrimoniale di separazione.
Nel caso di separazione legale dei beni, ciascun coniuge rimane titolare esclusivo, non solo dei beni acquistati antecedentemente al matrimonio, ma anche di quelli conseguiti successivamente.
Al coniuge proprietario dei beni spettano, in via esclusiva, il godimento e l’amministrazione degli stessi, egli ha quindi tutto il diritto di goderli o amministrarli, in via esclusiva. I patrimoni di marito e moglie restano quindi separati durante il matrimonio.
Per ottenere la cointestazione di un bene, una volta optato per il regime di separazione, occorrerà esplicitamente dichiarare all’atto dell’acquisto tale volontà, specificando anche la quota di comproprietà da assegnare.
Nel regime di separazione dei beni vigono particolari regole in materia di "onere della prova". Con ciò si intende che, in caso di contenzioso giudiziale fra i coniugi, questi, ai sensi dell’art. 219 del Codice civile, potranno provare con ogni mezzo, nei loro rispettivi confronti, la proprietà esclusiva del bene mobile acquistato, non applicandosi i limiti di ammissione della prova testimoniale di cui agli artt. 2721 e seguenti codice civile.
Nel caso in cui nessuno dei due coniugi riesca a provare la proprietà esclusiva del bene, questo è attribuito in proprietà di entrambi di coniugi, per pari quota (art. 219 c.c. 2°comma).
Se uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i beni di questo o comunque compie atti relativi a detti beni risponde dei danni (art. 217 c.c).
La Corte costituzionale con la sentenza 17.3.88 n. 311, ha evidenziato la netta distinzione tra comunione ordinaria e comunione legale tra coniugi.
La comunione ordinaria detta pro- indiviso, e qualificata anche come proprietà plurima parziaria .
Il diritto di proprietà è unico ed attiene al bene nella sua interezza.
Il diritto dei comproprietari, sarà rivolto al bene unico nella sua pienezza (quota ideale).
La giurisprudenza in tema di preliminare di vendita di bene in comunione ordinaria, con la sentenza delle SS.UU n. 7481/93 ha definito il contrasto esistente affermando che “nella communio pro-indiviso, la promessa di vendita di un bene in comunione è di norma considerata dalle parti attinente al bene inteso come un unicum inscindibile.
Se detto negozio venga redatto in modo tale da farne risultare la volontà di scomposizione in più contratti preliminari, nel quale ognuno dei comproprietari si impegna esclusivamente a vendere la propria quota, l’assenza di una di tali dichiarazioni, non operando la fusione delle singole volizioni dei comproprietari, comporta la assoluta impossibilità, da parte del promissario acquirente di ottenere la pronuncia ex art. 2932 c.c..
La comunione legale è quella particolare situazione dominicale nota come comunione legale tra i coniugi.
Ciascun coniuge è titolare del bene per intero.
Questa fattispecie si riconduce alla classica figura della comunione senza quote, in quanto i coniugi-comunisti vantano un diritto avente per oggetto i beni della comunione stessa (fondamentale la ricostruzione data da C.C. 17.3.88 N.311).
Vi è pertanto da considerare la disciplina codicistica dettata dagli artt. 180 e ss. cc..
Il codice civile, infatti, stabilisce il modello dell’amministrazione disgiuntiva per tutto ciò che concerne gli atti di ordinaria amministrazione.
Viceversa gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione dovranno essere compiuti dai coniugi congiuntamente.
Qualora, si ravvisi la vendita (o la promessa di vendita) di un bene immobile al coniuge pretermesso ed escluso, che non convalidi l’atto, non resterà che proporre l’azione di annullamento entro il ristretto termine di cui all’art. 184 secondo co. c.c., ovvero un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto ed in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione o, comunque, non oltre l’anno dallo scioglimento della comunione quando l’atto non sia stato trascritto ed il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione.

Il potere del coniuge di poter disporre unilateralmente ed autonomamente dei beni coniugali senza il consenso necessario viene ricondotto in un vizio del negozio.
Da tale vizio, consegue che il negozio è quindi annullabile e non inesistente, ovvero nulla, ma solo annullabile.

Di conseguenza come legali potremmo rassicurare Caia sul fatto che il negozio giuridico (preliminare di vendita) se la separazione è pienamente valida ed opponibile ai terzi, non avrà esito positivo, trattandosi quindi di vendita di cosa altrui in comunione ordinaria, affetta da difetto di consenso, per l’appunto di Caia.
Tizio non può vendere, o promettere di vendere ciò che non li appartiene.
Cosa diversa è se la separazione dei beni dei coniugi, non fosse opponibile ai terzi, in tal caso, Caia avrebbe dovuto proporre l’azione di annullamento entro il ristretto termine di cui all’art. 184 secondo co. c.c. ( 1 anno dal preliminare), cosa che non è avvenuta, rendendo il bene aggredibile da Sempronio.

Parere legale motivato di diritto civile.La maggiorazione del contributo fisso di mantenimento, legata alla crescita del figlio.

a cura del dott. Domencio CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessato il sig. SEMPRONIO, resistere alla revisione delle condizioni della separazione consensuale omologata, proposta dalla sig.ra CAIA.
SEMPRONIO aveva inizialmente concordato l’importo della somministrazione in lire 300.000, tali accordi separatizi in merito al contributo in argomento, prevedevano un annuale aggiornato in proporzione agli aumenti stipendiali del sig. SEMPRONIO.
Infatti, lo stesso SEMPRONIO aveva spontaneamente e gradualmente aumentato l’importo per poi invece, ridurre il suo apporto.
Tale comportamento era dovuto al presumibilmente dissenso dall’iniziativa del figlio d’iscriversi all’università.
Gli accordi separatizi, all’epoca della separazione consensuale, avevano valutato le esigenze economiche del figlio della coppia, che allora aveva due anni, mentre ora aveva più di venti e frequentava l’università.
Dette esigenze economiche dovevano ritenersi certamente aumentate, e comportavano l’aumento del contributo economico dovuto dal sig. SEMPRONIO per il mantenimento del figlio delle parti (oltre rivalutazione annuale in base Istat) ormai maggiorenne, con lei convivente e non economicamente autonomo.

SEMPRONIO era proprietario dell’immobile in cui abitava (oltre che della quota di altro immobile), e dopo la separazione non vi era stato alcun peggioramento delle condizioni economiche dello stesso.
La maggiorazione del contributo fisso di mantenimento, consegue all’aumento delle esigenze economiche ordinarie del figlio ormai maggiorenne, verificando, sempre ineccepibilmente, anche la perdurante assenza di indipendenza economica da parte del ragazzo, ancora dedito agli studi universitari, e per plausibili ragioni, in luogo diverso da quello di residenza.
D’altra parte detto aumento delle esigenze del figlio a) è notoriamente legato alla sua crescita, anche in termini di bisogni alimentari, ed allo sviluppo della sua personalità in svariati ambiti, ivi compreso quello della formazione culturale e della vita sociale, b) non ha bisogno di specifica dimostrazione (Cass. 2007/17055) e c) di per sé legittima (Cass. 2006/10119), pure in mancanza di evoluzioni migliorative delle condizioni patrimoniali del genitore tenuto alla contribuzione ( Cass. civ., Sez. I, Sent. 13 gennaio 2010, n. 400).
Conclusivamente in occasione della revisione delle condizioni della separazione consensuale, a parere di chi scrive, sembra inevitabile l’aumento del contributo fisso di mantenimento legato alla crescita del figlio.