A cura del dott. Domenico CIRASOLE
La questione giuridica in esame, vede interessato MEVIO, quale dipendente di Pubblica Amministrazione (P.A.), che aveva alterato il registro delle presenze, facendosi figurare presente in ufficio, quando in realtà non lo era.
L’assenza dall’ufficio che comunque furono limitate a poche ore, nei giorni 22, 23 e 30 marzo.
A parere di MEVIO, le assenze, riferite (poche ore nei giorni 22, 23, e 30), furono causate da sprezzi, incomprensioni, discussioni, avvenute con gli altri dipendenti, presenti nell’ufficio, nonchè con il responsabile dello stesso ufficio.
MEVIO in tali giorni, a seguito dei non buoni rapporti con gli altri dipendenti, si allontanava dal proprio ufficio, e di ciò, ne sono testimoni gli altri dipendenti.
Ma, questa testimonianza è inficiata proprio dai non buoni rapporti che MEVIO aveva con gli altri dipendenti dell’ufficio.
Può, a parere di chi scrivere, nella fattispecie in esame, configurarsi il delitto di truffa (art. 640 c.p.) continuata (art. 81, comma 1° c.p.) aggravata (art. 61 n.9 c.p.).
Ciò è confermato dalla costante giurisprudenza che statuisce che la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare, come nel caso concreto, economicamente apprezzabili (Cass. Penale 24-08-2010, n. 32290; Cass. 6.10.06 n. 34210; Cass. 2, 16.3.04 n. 19302).
Mentre a parere di chi scrive non può ascriversi al comportamento di MEVIO il delitto di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale (art. 476 c.p.), rilevando che i registri delle presenze non hanno la qualità di atti pubblici (art. 2699 c.c.).
Inoltre la circostanza che le assenze dall’ufficio, furono limitate a poche ore, sembra a parere di chi scrive, possa consentirsi l’applicazione "dell’attenuante del valore lieve" (art. 62 n.4 c.p.) e l’aver agito in stato d’ira (art. 62, n 2 c.p.).
Categoria: Professioni, lavoro ed Impresa
Parere legale motivato di diritto civile. Mediazione immobiliare, società franchising non iscritta, esercizio abusivo della professione. Obbligo alla restituzione della provvigione venditore/acquirente
a cura del dott. Domenico Cirasole direttore del sito http://www.gadit.it/
La questione giuridica in rilievo vede interessati TIZIO e CAIO in merito alla mediazione di vendita di immobile.
Infatti TIZIO proprietario di un appartamento si rivolge dall’agenzia immobiliare SENSALE srl per conferirgli mandato di vendita dell’appartamento in questione.
L’amministratore della Agenzia SENSALE srl, il sig. CAIO per l’appunto fa sottoscrivere a TIZIO, un modulo prestampato contenente mandato, ovvero incarico, di proporre in vendita l’appartamento in questione.
TIZIO aggiunge di proprio pugno, sul prestampato proposto da CAIO che in nessun caso sarà tenuto al pagamento di provvigione o compenso, che saranno a carico del solo compratore.
CAIO, per rigor di completezza, alla data della sottoscrizione del mandato, era in attesa di ottenere l’iscrizione prevista presso la Camera di Commercio, e non aveva adempiuto al deposito dei moduli prestampati in uso, presso la Commissione della stessa Camera di Commercio.
CAIO quale amministratore unico della SENSALE srl a seguito di ricerche propone a TIZIO un compratore, SEMPRONIO per l’appunto.
SEMPRONIO, ritenendo che l’immobile soddisfacesse le proprie necessità, sottoscrive una proposta d’acquisto, anch’essa redatta su predisposto modulo offerto da CAIO, nel quale è previsto che lo stesso assumeva valore di contratto preliminare di compravendita immobiliare, qual’ora l’offerta fosse stata accolta da TIZIO.
TIZIO ricevuta la notizia dell’offerta, che accetta senza condizione, si vede costretto da CAIO a sottoscrivere una promessa di pagamento, ovvero impegno di corrispondere, un compenso, la cui somma non viene riportata nello stesso atto, nonostante inizialmente fosse stato appositamente sottoscritto, che nulla era dovuto per l’affare da TIZIO.
TIZIO sottoscrive, suo malgrado la promessa di pagamento, e solo in seguito, controfirma per accettazione, la proposta ricevuta da SEMPRONIO.
TIZIO dopo aver stipulato il contratto notarile definitivo, ed ottenuto da SEMPRONIO il corrispettivo pattuito, riceve dall’agenzia immobiliare SENSALE srl, una richiesta di pagamento a titolo di provvigione per la mediazione, ritenuta esorbitante, e comunque mai pattuita, in sede di contrattazione iniziale.
Infatti TIZIO accetta e sottoscrive in buona fede di corrispondere un compenso a CAIO, solo quando ha notizia dell’offerta, senza che quest’ ultimo specificasse l’ammontare, ovvero la percentuale.
La compravendita immobiliare nella storia ha visto da sempre l’interessamento di soggetti terzi, nella stipula dell’atto finale.
Questi terzi nel Codice Civile, emanato nel 1942, venivano definiti mediatori ovvero sensali.
Detta figura è oggi definita del codice civile, ma anche da norme successive speciali nonché di giurisprudenza, osservando che nell’intermediazione nel mercato immobiliare vi è la presenza crescente di società di intermediazione diffuse su tutto il territorio articolate con concessionari in franchising.
Questa circostanza non può restare ininfluente nel momento della formazione del contratto, ora organicamente ricompresa nel Codice del consumo (D.lgs. 6 settembre 2005 n. 206).
Un primo esempio di adattamento dell’art.1754 è dato dalla stesso riconoscimento della natura contrattuale dell’attività di mediazione, posto che in precedenza, per oltre cinquant’anni, la mediazione si riteneva avesse solamente natura negoziale.
Se infatti la mediazione non poteva qualificarsi come contratto alla stessa non potevano essere applicate le norme, anche a carattere generale, riferibili ai contratti.
L’iniziale riconoscimento della natura meramente negoziale dell’istituto in esame era dovuto al fatto che la disciplina sulla Mediazione, non contemplava una definizione di contratto di mediazione, ma prevedeva unicamente la descrizione della figura del mediatore.
Infatti la definizione di mediatore è prevista all’art. 1754: “E’ mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”.
In seguito all’entrata in vigore della legge 3 febbraio 1989, n. 39 che ha istituito la figura del mediatore professionale prevedendo l’incompatibilità tra l’esercizio dell’attività di mediazione ed ogni altra attività, si è incominciato a sostenere che, nonostante non se ne rinvenisse una definizione precisa all’interno del Codice Civile, la mediazione fosse un contratto in tutto e per tutto e ciò in ragione delle modalità concrete con le quali veniva esercitata la relativa attività (cfr. Cass. civ. 7 agosto 1990, n. 7985; Cass. civ., sez. II, 26 settembre 2005, n. 18748; Cass. civ., sez. III, 14 aprile 2005, n. 7759).
La mediazione differisce da altre fattispecie contrattuali, che potrebbero sembrare ad essa assimilabili.
In particolare, la mediazione differisce dal contratto di agenzia, in quanto l’agente è legato stabilmente ad una delle parti, nel cui esclusivo interesse agisce per la promozione e la conclusione di determinati contratti. Ne deriva che la provvigione gli sarà dovuta solamente da tale parte.
Quanto al mandato tale contratto, diversamente dalla mediazione, prevede che il mandatario agisca nell’interesse del mandante e per suo conto per la conclusione di un contratto. Egli percepirà pertanto il compenso per l’attività svolta anche a prescindere dal risultato raggiunto, e solamente dal mandante.
Notevoli divergenze disciplinari si riscontrano poi anche con riferimento al procacciamento oneroso d’affari. Il procacciatore è, infatti, un collaboratore che pone in essere la propria attività promozionale nell’ambito del rapporto intercorrente con una delle parti, dalla quale sola può pretendere la provvigione.
La mediazione tipica, è disciplinata come detto dagli art. 1754 ss. c.c., ed è soltanto quella svolta dal mediatore in modo autonomo, senza essere legato alle parti da alcun vincolo di mandato o di altro tipo, e non costituisce un negozio giuridico, ma un’attività materiale dalla quale la legge fa scaturire il diritto alla provvigione.
Tuttavia, in virtù del "contatto sociale" che si crea tra il mediatore professionale e le parti, il mediatore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile nell’adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., e di non aver agito in posizione di mandatario.
Dall’art. 1754 c.c., ricaviamo inoltre alcuni requisiti del mediatore, ovvero l’imparzialità e l’indipendenza, precisando che il mediatore non deve avere con le parti “rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”, a pena di nullità del contratto stesso.
L’attività di mediazione, infatti, ravvisa nel mediatore colui che, mettendo in contatto due o più soggetti attua un’interposizione neutrale ed imparziale tra le stesse, favorendone l’accordo al fine di pervenire alla conclusione di un affare (Cass. civ., sez. II, 27 giugno 2002, n. 9380).
Orbene il mediatore per assolvere a tale compito dovrà essere privo di qualsivoglia interesse nella conclusione – o non conclusione – dell’affare, diversamente da quanto si verificherebbe se egli fosse, per esempio, il rappresentante di una delle parti intermediate.
Nella mediazione tipica la responsabilità del mediatore, con specifico riferimento agli obblighi di correttezza e di informazione, si configura come responsabilità da contatto sociale.
La stessa è incompatibile con un sottostante rapporto di mandato tra il cosiddetto mediatore e una delle parti che ha interesse alla conclusione dell’affare stesso, nel qual caso il cosiddetto mediatore-mandatario non ha più diritto alla provvigione da ciascuna delle parti ma solo dal mandante.
Nel caso in cui il mediatore agisca, invece, come mandatario, assume su di sé i relativi obblighi e, qualora si comporti illecitamente recando danni a terzi, è tenuto a favore di questi ultimi al risarcimento dei danni ex art. 2043 del c.c. (non escludendosi in proposito un’eventuale corresponsabilità del mandante).
A tale impostazione aderisce la Suprema Corte che distingue tra una mediazione tipica, ed una mediazione atipica contrattuale fondata sul conferimento di uno specifico incarico.
Il conferimento ad un mediatore professionale dell’incarico di reperire un acquirente od un venditore di un immobile dà vita ad un contratto di mandato e non di mediazione.
Da ciò consegue che nell’ipotesi suddetta che il mandatario: (a) ha l’obbligo, e non la facoltà, di attivarsi per la conclusione dell’affare; (b) può pretendere la provvigione dalla sola parte che gli ha conferito l’incarico; (c) è tenuto, quando il mandante sia un consumatore, al rispetto della normativa sui contratti di consumo di cui al d.lg. n. 206 del 2005; (d) nel caso di inadempimento dei propri obblighi, risponde a titolo contrattuale nei confronti della parte dalla quale ha ricevuto l’incarico, ed a titolo aquiliano nei confronti dell’altra parte.
Il mediatore tanto nell’ipotesi tipica in cui abbia agito in modo autonomo, quanto nell’ipotesi in cui si sia attivato su incarico di una delle parti (c.d. mediazione atipica, la quale costituisce in realtà un mandato), ha l’obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede, e di riferire alle parti le circostanze dell’affare a sua conoscenza, ovvero che avrebbe dovuto conoscere con l’uso della diligenza da lui esigibile.
La Cassazione con la sentenza n. 16382 del 14 luglio 2009 precisa in tema di responsabilità del mediatore (nella fattispecie immobiliare) che la responsabilità, in assenza di mandato, è di matrice extracontrattuale e va qualificata da“contatto sociale” poiché “tale situazione è riscontrabile nei comportamenti dell’operatore di una professione sottoposta a specifici requisiti formali abilitativi” (iscrizione albo mediatori ex l. 39/89) “ed a favore di quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue caratteristiche”, mentre nel caso vi sia un mandato, il mediatore risponderà in base alle norme ex art. 1703 e ss.cc verso la parte che lo ha incaricato di acquistare/vendere l’immobile e risponderà per responsabilità da “contatto sociale” nei confronti del terzo acquirente/venditore, verso il quale non è legato da rapporto di mandato, eventualmente in solido ex art. 2055 cc con il mandante, ricorrendone i presupposti (anche Cass. 16470/02 ).
Orbene il mandato è il contratto col quale una parte si obbliga a compiere atti per conto di un’altra, con o senza poteri di rappresentanza, si presume oneroso, nella misura stabilita dalle parti, dalle tariffe professionali, dagli usi, ovvero dal giudice, ma le parti possono concordarne la gratuitià; può essere revocato, ma anche semplicemente modificato dalle stesse parti. Il mandatario, è tenuto nell’esecuzione del mandato, ad usare la diligenza del buon padre di famiglia, ossia quella diligenza media, ispirata sempre al principio della buona fede. Se il mandato è a titolo gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore, mentre il mandante, salvo diversa pattuizione tra le parti, è tenuto a fornire al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato rimborsandogli le stesse somme comprensive degli interessi legali.
Sia i mediatori immobiliari a titolo oneroso che i mandatari, sono entrambi obbligati all’iscrizione nel degli Agenti di Affari in
Mediazione. Ciò è stato pensato dal legislatore al fine di accorpare e disciplinare (per alcuni aspetti) in modo uniforme le due figure, solo perché operanti entrambi nel campo immobiliare.
A norma dell’art. 2, comma 4, della legge n. 39/1989, "l’iscrizione al ruolo deve essere richiesta anche se l’attività viene esercitata in modo occasionale o discontinuo, da coloro che svolgono, su mandato a titolo oneroso, attività per la conclusione di affari relativi ad immobili od aziende"; mentre ai sensi dell’art. 11, comma 1, del d.m. n. 452/1990, "quando l’attività di mediazione sia esercitata da una società, i requisiti per l’iscrizione nel ruolo devono essere posseduti dai legali o dal legale rappresentante della società stessa ovvero da colui che è preposto dalla società a tale ramo d’attività".
In caso di assenza dell’iscrizione al ruolo di agenti di affari in mediazione ai sensi della legge 3 febbraio 1989 n. 39, e successive modificazioni, il notaio è obbligato ad effettuare specifica segnalazione all’Agenzia delle entrate di competenza.
In merito alla provvigione ai sensi dell’art. 6, comma 1, della legge n. 39/1989, "hanno diritto alla provvigione soltanto coloro che sono iscritti nei ruoli" ed ai sensi del successivo art. 8, come modificato dall’art. 1, comma 47, della legge n. 296/2006, "chiunque esercita l’attività di mediazione senza essere iscritto nel ruolo è punito con la sanzione amministrativa, ed è tenuto alla restituzione alle parti contraenti delle provvigioni percepite.
A coloro che siano incorsi per tre volte in quest’ultima sanzione, si applicano le pene previste dall’articolo 348 del codice penale, nonché l’articolo 2231 del codice civile, in merito all’esercizio abusivo della professione punita con multa, reclusione, e la prestazione eseguita da chi non è iscritto non da azione per il pagamento della provvigione.
Dalla vigente normativa si ricava anche che il mediatore che opera usando una propria modulistica sia tenuto all’osservanza di alcune norme a tutela del consumatore, quale il deposito preventivo degli stessi presso la competente Camera di Commercio delle scritture denominate “incarico di mediazione”, “proposta di acquisto”e “proposta di locazione”. L’art.21 del Regolamento prevede che: “ Fatte salve le sanzioni disciplinari, l’agente che si avvale di moduli o formulari per l’esercizio della propria attività senza ottemperare al deposito di cui all’art.5 della legge, è punito con la sanzione di tre milioni.
Ulteriore prescrizione per il mediatore è il divieto di prevedere l’obbligo di pagamento da parte del cliente di spese indicate in modo forfetario e non supportato quindi da specifiche ricevute o fatture, ovvero indeterminate nell’indicazione del prezzo, delle modalità, dei termini di pagamento.
Si può ritenere che il legislatore abbia risolto una delle ipotesi di esercizio abusivo dell’attività, privando l’operatore non iscritto al ruolo dei mediatori della possibilità di percepire una provvigione, pertanto attualmente chiunque operi nel settore immobiliare come mediatore, come mandatario, come procacciatore, etc. è tenuto all’iscrizione al ruolo degli agenti di affari ed in difetto sarà considerato come esercente l’attività in modo abusivo.
Ulteriore obblighi in capo ai mediatori immobiliari iscritti è quello di richiedere la registrazione per le scritture private non
autenticate di natura negoziale, stipulate a seguito della loro attività per la conclusione degli affari (nuovo art. 10, lett. d-bis), del d.p.r. n. 131/1986). A tal proposito è necessario precisare che il suddetto obbligo di registrazione vale per qualsiasi scrittura privata avente contenuto negoziale, sia che la stessa documenti un contratto (preliminare o definitivo), sia che si tratti di un atto unilaterale (es., proposta irrevocabile di acquisto per la quale è espressamente esclusa, nell’atto, la necessità l’accettazione). La proposta di acquisto destinata ad essere accettata, in quanto mero atto "prenegoziale", non è invece soggetta all’obbligo di registrazione come tale, ma solo dopo la sua accettazione. Quindi il mediatore immobiliare che rediga prima una proposta di acquisto (accettata), e successivamente un "preliminare formale", deve adempiere all’obbligo di richiesta di registrazione per entrambi.
In virtù di quanto affermato, un’eventuale, promessa di pagamento o ricognizione di debito "condizionata" dal rapporto sottostante estorta dal mediatore lede il rapporto di fiducia e di buona fede, dello stesso. Se l’obbligato, su cui grava l’onere della prova, dimostra l’inesistenza o l’invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale viene
meno ogni effetto vincolante dell’eventuale promessa o della ricognizione di debito. La ricognizione di debito, così come la promessa di pagamento, fonte autonoma di obbligazione comportando solamente l’inversione dell’onere della prova.
Vale a dire che il destinatario della promessa o della ricognizione è esonerato dal provare la causa o il rapporto fondamentale; grava, invece, sul dichiarante l’onere di provare l’inesistenza o l’invalidità o l’estinzione del rapporto, sia esso menzionato o non nella ricognizione di debito.
Da ciò deriva, che “dall’esistenza o validità del rapporto fondamentale non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, con il conseguente venir meno di ogni effetto vincolante della promessa o della ricognizione, ove rimanga giudizialemente provato che, detto rapporto fondamentale non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esiste una condizione ovvero un altro elemento attinente al rapporto medesimo che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento”.
In buona sostanza, se l’“onerato” prova che il debito non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, il precedente riconoscimento non ha più effetto (Tribunale ROMA, Sentenza 04/09/2009, n. 18009).
In conclusione a parere di chi scrive il sig. TIZIO ha validi motivi per opporsi alla richiesta di pagamento avanzata da CAIO rappresentante legale della SENSALE srl.
Infatti considerando l’aspetto contrattuale delle parti, sin dal principio tra le parti, vi era l’accordo che nulla era dovuto per la mediazione in questione, e certamente una ricognizione di debito, ovvero promessa di pagamento, successiva si fonda su un rapporto sottostante nullo, infondato, ancor più se si considera che l’assenza dell’iscrizione del mediatore e della stessa società di mediazione, determina una sanzione, quella appunto della mancata provvigione, e di ogni altra spesa sostenuta da CAIO.
In secondo luogo un’eventuale compenso per spese sostenute, ovvero provvigione, devono essere decise dal giudice secondo equità, e secondo i tarifari in uso.
Al sig. CAIO è quindi consigliato intraprendere un giudizio, al fine di provare il rapporto sottostante dell’obbligazione, e quindi l’assenza di qualsivoglia somma richiesta.
Parere legale. E’ opponibile la multa per eccesso di velocità, ovvero per non rispetto del colore rosso del semaforo, se rilevata con auto- velox, e in senza di agenti sul posto.
La questione giuridica in esame vede interessato MEVIO che si vede recapitare, l’accertamento della violazione dell’art. 146 C.d.S., comma 3, in base a documentazione fotografica.
A parere di chi scrive MEVIO può proporre opposizione avverso, tale contestazione chiedendo l’annullamento del verbale, sul rilievo che l’accertamento, effettuato in maniera non conforme alle disposizioni ministeriali, non può essere utilizzato quale prova della violazione contestata.
E’ da premettere che, in base al D.M. 18 marzo 2004 che ha approvato il documentatore fotografico d’infrazioni commesse da veicoli ad intersezioni regolate da semaforo, occorre che siano scattati, per ogni infrazione, almeno due fotogrammi, "di cui uno all’atto del superamento della linea di arresto e l’altro quando il veicolo in infrazione si trova al centro dell’intersezione controllata".
Dalle fotografie prodotte al sig. MEVIO, non risulta che l’auto sanzionata sia stata fotografata all’atto del superamento della linea d’arresto, ma subito dopo il superamento di detta linea.
Inoltre occorre rilevare che nessun accertatore era presente sul posto e nessun agente era impegnato nel funzionamento dell’apparecchio foto-documentatore.
La giurisprudenza con indirizzo costante (Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-12-2009, n. 27414;Sez. 2, 11 aprile 2006, n. 8465 ; Sez. 2, 11 gennaio 2008, n. 558) – ha precisato che, in tema di violazioni del codice della strada, le condizioni che in caso di rilevamento della velocità a mezzo di apparecchiatura tipo auto- velox consentono la contestazione differita dell’infrazione, non ricorrono nella diversa ipotesi in cui, l’attraversamento di un incrocio con luce semaforica rossa sia constatato a mezzo di apposita apparecchiatura fotografica.
Infatti, in quest’ultimo caso, l’assenza non occasionale di agenti operanti non appare consona all’utilizzazione di un apparecchio di rilevamento automatico, nè appare superabile alla luce del disposto dell’art. 384 reg. esec. C.d.S., atteso che tale norma è di natura regolamentare e secondaria rispetto alla disposizione legislativa, che prevede comunque come regola generale la contestazione immediata, e non contempla affatto l’assenza di agenti sul posto. D’altra parte, l’istituzionale rinuncia alla contestazione immediata non è conforma alle possibili situazioni che in tali evenienze possono verificarsi (come ad es. nel caso di coda di veicoli che non consenta al mezzo che abbia legittimamente impegnato l’incrocio di attraversarlo tempestivamente) e che solo la presenza di un agente operante "in loco" può ricondurre nell’alveo della corretta applicazione delle disposizioni relative (Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-12-2009, n. 27414).
Concludendo, MEVIO può proporre opposizione alla contestazione ricevuta, in merito al rilevamento della velocità a mezzo di apparecchiatura tipo auto- velox.
Parere legale motivato di diritto penale .Intervista di giornalista, quotidiano nazionale,dichiarazioni diffamatorie, pubblicate omettendo le verifiche di attendibilità, al quale non è applicabile la scriminante del diritto di cronoaca
a cura del dott. Domenico CIRASOLE
Il caso in esame vede interessato il sig. TIZIO, quale giornalista di un noto quotidiano a livello nazionale.
TIZIO pubblicava sul quotidiano l’intervista rilasciata da CAIA.
CAIA non risultava essere personaggio pubblico, o ricoprente particolare carica istituzionale, ma una privata cittadina, quindi presumibilmente poco affidabile.
CAIA definiva SEMPRONIO (all’epoca dei fatti era direttore generale dell’Azienda Municipale Igiene urbana di Milano) un “faccendiere ed un opportunista che pensa soltanto ai suoi interessi” asserendo anche che era condizionato dalla mafia nelle assunzioni e nelle promozioni dei dipendenti della stessa azienda.
TIZIO pubblicava sul quotidiano l’intervista senza effettuare alcun controllo in ordine alla veridicità delle notizie, ed ometteva di contenere le espressioni riferite da CAIA.
Tutte le affermazioni di CAIA erano riportate tra virgolette, ed il giornalista prendeva le distanze dalle stesse affermazioni assumendo la posizione di terzo osservatore.
E’ doveroso in questa sede riferire della scriminante del diritto di cronaca.
Il diritto di cronaca presuppone la fedeltà dell’informazione, cioè l’esatta rappresentazione del fatto percepito dal cronista.
La scriminante interviene quando la notizia riportata viene seriamente accertata e corrisponde alla verità dei fatti senza alterazioni o travisamenti del contenuto (criterio della verità dell’informazione).
La scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca non è invocabile quando le affermazioni dell’intervistato sono palesemente false o, comunque, il giornalista non le abbia in alcun modo controllate , e quando l’intervistato esprima valutazioni critiche gratuitamente offensive, perché in questo caso l’illiceità delle dichiarazioni riferite è immediatamente rilevabile dal giornalista, senza neppure l‘esigenza di indagini tese a verificare la corrispondenza ai fatti.
In altri termini, se è discutibile la punibilità del giornalista che riporti asserzioni dell’intervistato risultate poi non vere, non è certamente discutibile la punibilità del giornalista che riporti valutazioni gratuitamente e palesemente offensive dell’altrui reputazione (Cass. pen., 25 gennaio 1999, n. 935).
Altra scriminante è data dal diritto di critica, che rientra tra i diritti pubblici soggettivi inerenti alla libertà di pensiero e di stampa, e si estrinseca “nella libertà di esprimere opinioni e valutazioni su fatti e situazioni nonché dissensi o consensi rispetto ad opinioni altrui” (Trib. Milano, 08.04.2003, n. 1430).
La critica consiste in un dissenso motivato, espresso in termini corretti e misurati e non deve assumere toni gravemente lesivi dell’altrui dignità morale e professionale.
E’ necessario che il fatto su cui la critica viene esercitata, sia vero, mentre ne rimane libera la valutazione.
La critica è soggetta ai parametri della rilevanza sociale dell’argomento e della correttezza dell’espressione.
La cronaca è soggetta anche alla verità dei fatti.
L’esimente putativa nel caso d’intervista è configurabile nei confronti del giornalista tutte le volte in cui la notizia è costituita da un contenuto di
pubblico interesse e sono rese da un soggetto idoneo a creare particolare affidamento sulla veridicità delle sue affermazioni.
La Suprema Corte ritiene che il giornalista risponda del reato di diffamazione commesso dal terzo intervistato qualora non ricorrano i requisiti della pertinenza, della verità dei fatti narrati e della continenza verbale, poiché chi da diffusione alla dichiarazione di altri commette diffamazione a sua volta (Cass. 17.03.1980, n.516).
Le Sezioni Unite con la sentenza n. 37140/2001 affermano che in presenza, di un giornalista che pubblichi dichiarazioni espresse da un personaggio noto con contenuto diffamatorio nei confronti di terzi, deve essere sicuro della posizione di alto rilievo dell’intervistato.
Inoltre è ancora affermato che il giornalista deve sempre mantenere una posizione neutra e imparziale perché diversamente risponde a titolo di concorso nel reato di diffamazione.
In definitiva la cassazione afferma che l’intervista deve rispettare il criterio della continenza.
Cosi facendo è facile verificare “se il giornalista abbia assunto la posizione di terzo osservatore dei fatti o non abbia piuttosto, provocato o sollecitato le dichiarazioni diffamatorie.
Il giornalista non è esente da responsabilità in merito a quanto riportato, se ha omesso le necessarie verifiche di attendibilità, ma anche quando le dichiarazioni siano diffamatorie in sé, per le espressioni adoperate o per la palese falsità delle accuse.
Il giornalista non può limitare il suo intervento a riprodurre esattamente e diligentemente quanto riferito dall’intervistato e deve accertare
che non difetti il requisito della continenza, e cioè che esse non consistano in insulti ovvero in espressioni gratuite, non necessarie, volgari, umilianti o dileggianti, ovvero siano affermazioni in sé diffamatorie.
In tal caso il giornalista si rende responsabile, a titolo di concorso, del delitto di diffamazione, aggravata con il mezzo della stampa, perché, con la sua condotta, funge da “cassa di risonanza” delle frasi lesive dell’altrui onore .
Il giornalista diviene sostanziale coautore e quindi consapevole strumento di diffamazione conferendo il suo contributo causale
alla diffusione dell’offesa all’altrui reputazione, di talchè la sua
condotta non può non essere sussumibile nell’ambito della previsione
normativa dell’art. 110 c.p., rispondendo secondo lo schema del concorso di persone nel reato, ove il fatto non sia giustificato dallo "ius narrandi"
(Cass. pen., sez. V, sent. n. 5313 del 26 aprile 1999); né ha rilievo che il giornalista non sia d’accordo con le opinioni manifestate dall’intervistato, essendo all’uopo sufficiente la volontaria diffusione della dichiarazione diffamatoria (Cass. pen., sez. V, sent. n. 480 del 19 gennaio 1984).
La diffamazione è un reato a forma libera dove la condotta materiale
si estrinseca nell’offesa all’onore e al decoro della persona.
L’art. 595 c.p., “tutela la reputazione, l’onore, inteso come opinione e valutazione dei consociati rispetto alla personalità morale e sociale di un individuo”.
Per quanto concerne l’elemento oggettivo del reato, si rileva che l’intento diffamatorio può essere raggiunto con valutazioni o giudizi offensivi dell’altrui reputazione, con espressioni insinuanti e suggestionanti.
Quanto, invece, all’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, inteso come consapevolezza che le espressioni volontariamente utilizzate sono lesive dell’altrui reputazione o possono porla a rischio.
Non si richiede il dolo specifico, nel senso che non occorre “l’animus nocendi” .
A parere dello scrivente TIZIO ben può essere accusato di concorso nel delitto di diffamazione, aggravata con il mezzo della stampa, perché, con la sua condotta, ha dato risonanza alle frasi lesive dell’onore di SEMPRONIO.
TIZIO non è esente da responsabilità per il fatto di non aver, provocato o sollecitato le dichiarazioni diffamatori; non per aver mantenuto una posizione di terzo osservatore dei fatti; ne di meno per non esser d’accordo con le opinioni manifestate dall’intervistato.
TIZIO risponde del reato di diffamazione commesso da CAIA, dallo stesso intervistata, perché ha omesso le necessarie verifiche di attendibilità; ma anche perché le espressioni volontariamente utilizzate sono lesive della reputazione di SEMPRONIO, e quindi la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca non è invocabile.