Parere legale. Il telegramma del consumatore basta a mettere in mora il venditore, nel caso di vizi della cosa venduta.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessato CAIO che compra delle porte credendole di massello, ovvero le aveva comprate come tali, mentre sono in realtà di legno rigenerato.
Infatti CAIO eseguendo una scalfittura superficiale rivela che le porte acquistate non hanno le qualità promesse.
CAIO invia immediatamente, appena si accorge che la merce è “viziata”, un telegramma all’azienda venditrice, ottenendo fra l’altro la risposta dell’azienda.
Nella lettera CAIO chiede la riduzione del prezzo, ed il risarcimento dei danni, mettendo in mora la società venditrice, denunciando la scoperta dei vizi delle porte, e richiede l’intervento della garanzia per vizi.
A parere di chi scrive l’azione di riduzione del prezzo ( ex articolo 1497 c.c.), è giustamente proposta da CAIO, che può anche chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento.
Il venditore ha l’obbligo di garantire il compratore dall’evizione e dai vizi della cosa, ovvero sia immune da vizi, che ne diminuiscono il valore.
E’ dunque una discrezionalità del compratore scegliere se ridurre il prezzo o risolvere il contratto (art. 1492 c.c.).
Il compratore decade dal diritto alla garanzia se non denunzia i vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta, ed entro un anno dalla consegna.
Ora il telegramma che il consumatore (CAIO) invia al venditore appena si accorge che la merce è “viziata”, ottenendo fra l’altro la risposta dell’azienda, è valido ad interrompere la prescrizione, in attesa di introdurre un giudizio con l’atto di citazione che risulterebbe notificato tempestivamente, anche se un solo giorno prima della scadenza dell’anno, dall’invio del telegramma, e non dalla consegna della merce (Cass. civ., Sez. II, Sentenza 3 Agosto 2010, n. 18035).
Infatti il telegramma ha il risultato sostanziale di mettere in mora la società venditrice. E per centrare l’obiettivo non basta denunciare di avere scoperto i vizi della cosa, ma bisogna esplicitare una pretesa: serve l’intimazione – intesa come richiesta scritta – di adempimento alla controparte: in altre parole, la comunicazione deve manifestare in modo inequivocabile che il titolare del credito, nel nostro caso l’acquirente, ha tutte le intenzioni di far valere il suo diritto alla garanzia nei confronti del venditore per i vizi riscontrati nella merce (Cass. civ., Sez. II, Sentenza 3 Agosto 2010, n. 18035).
Infatti, il telegramma di CAIO agli effetti dell’articolo 2945 c.c., primo comma, determina l’interruzione della prescrizione e fa iniziare un nuovo periodo di prescrizione.
Tali effetti si determinano soltanto quando la comunicazione effettuata dal consumatore ha il risultato sostanziale di mettere in mora la società venditrice.
La società è messa in mora da ogni atto che interrompe la prescrizione, notificato alla stessa, e che dichiari di avere scoperto i vizi della cosa, e intima – intesa come richiesta scritta – l’adempimento della controparte.
In altre parole, la comunicazione deve manifestare in modo inequivocabile che il titolare del credito, nel nostro caso l’acquirente, ha tutte le intenzioni di far valere il suo diritto alla garanzia nei confronti del venditore per i vizi riscontrati nella merce.
Dunque, basta un telegramma del consumatore a mettere in mora il venditore, cosa che ha immediatamente fatto CAIO, inviando telegramma con il quale denunciava la presenza del vizio, e chiedeva la riduzione del prezzo, e il risarcimento del danno.

Parere legale motivato di diritto penale – peculato- confisca per equivalente-

Il caso in esame vede interessato il sig. TIZIO.
Tizio è un dirigente regionale responsabile della concessione ai privati di contributi regionali per attività professionali svolte dagli stessi privati.
Tizio è responsabile con potere istruttorio e decisorio ed ha il compito di erogare i contributi, solo dopo aver verificato le spese effettivamente sostenute dai privati per attività professionali.
Dette spese sono documentate a mezzo di fatture, nella misura del 100 % degli esborsi.
Tizio viene sottoposto ad indagini preliminare per delitto di peculato.
Il P.M. procedente gli contesta di aver partecipato ad un accordo criminoso con i rappresentanti legali di due società ammesse ai contributi a fondo perduto.
Secondo le accuse del P.M. procedente, Tizio preventivamente accordatosi con i legali delle società, avrebbe erogato, ovvero concesso contributi agli stessi, rimborsando fatture gonfiate.
I legali delle società come prova dei corsi svolti, emettevano fatture con importi superiori.
Su dette fatture false Tizio si basava per l’erogazione dei finanziamenti.
Le stesse fatture contenevano indicazioni d’importo maggiore alle spese effettivamente sostenute.
Secondo l’accordo criminoso le società ricevuto il rimborso delle fatture, consegnavano a Tizio la maggiore differenza delle spese realmente sostenute.
I fatti risalivano all’agosto 2000 e novembre 2006.
A Tizio viene applicata dal G.I.P. la custodia cautelare in carcere, ed il sequestro per equivalente, finalizzato alla confisca delle somme lucrate, quale prezzo del reato.
La confisca viene eseguita su beni immobili di proprietà di Tizio.
Numerosi e complessi sono i temi connessi ai delitti contro la pubblica amministrazione.
I reati di corruzione interessano sia le imprese direttamente coinvolte sia le persone fisiche, i pubblici ufficiali, ovvero la persona incaricata di pubblico servizio.
Le norme in esame hanno trovato larga applicazione nella pratica a causa dell’interpretazione estensiva che è stata data al concetto di funzionario pubblico.
L’art. 357 c.p definisce come pubblico ufficiale chi esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico, caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.
Al Titolo II del codice penale, sono descritti e sanzionati i reati contro la pubblica amministrazione.
Il peculato è sanzionato dall’art. 314 c.p. il quale stabilisce che “il pubblico ufficiale, che avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni”.
L’attuale art. 314 pone l’accento sul disvalore di particolari abusi qualificati del possesso conseguenti all’attività prestata.
La norma, tutela il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione sotto il profilo del doveroso rispetto della destinazione dei beni di cui i soggetti pubblici abbiano il possesso per ragione dell’ufficio o del servizio.
Il bene sottratto può essere fungibile o infungibile.
La locuzione “ragione dell’ufficio o del servizio” esprime una caratterizzazione giuridica del potere che deve sussistere in capo al soggetto.
Così a chi avesse sulla cosa un potere di mero fatto, ossia fosse in grado di disporne solamente per motivi contingenti senza una situazione di potere/dovere funzionale, non potrebbe configurarsi il presupposto normativo de quo.
Quindi sussiste la figura delittuosa anche quando il soggetto pubblico, sebbene non detenga materialmente la cosa, ne possa ugualmente disporre mediante ordini o istruzioni.
Si avrà possesso e disponibilità anche qualora il possesso si poggi su gerarchie o prassi amministrative e non anche quando il dominio non è legato ad una competenza del p.u. .
Il bene protetto, dell’art. 314 c.p. è il bene-patrimonio della pubblica amministrazione, il buon andamento e l’imparzialità della stessa attività amministrativa.
In particolare, si è sostenuto che il buon andamento sarebbe leso perché il pubblico funzionario, disponendo arbitrariamente del denaro della pubblica amministrazione, svolge un’attività amministrativa non rispondente alle finalità proprie dell’ente pubblico, e che l’imparzialità sarebbe lesa perché l’agente, sfruttando la sua posizione, avvantaggia illecitamente se stesso o altro privato.
La giurisprudenza ha confermato la natura “plurioffensiva” del reato di peculato, affermando la teoria della “doppia” tutela: da un lato, la legalità, l’efficienza, la probità e l’imparzialità dell’attività della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), e dall’altro, il patrimonio della stessa pubblica amministrazione o di terzi (Cass. pen. n. 8009/93).
La norma in esame (art. 314 c.p) ha trovato larga applicazione nella pratica a causa dei fondi relativi al finanziamento dei corsi di formazione.
E’ doverosa la distinzione tra peculato e truffa.
Il peculato ricorre quando il possesso del denaro sia stato conseguito legittimamente per ragioni di ufficio, mentre vi è truffa quando il responsabile si sia procurato il possesso mediante artifici e raggiri (Cass.pen. n°179604/88; Cass.pen. n°183538/89).
Di frequente la magistratura ha riconosciuto accanto alla responsabilità penale degli operatori del settore della formazione professionale anche quella dei funzionari che non hanno provveduto ai necessari controlli.
Le ipotesi più frequenti di frodi sono costituite principalmente dai seguenti abusi: a) presentazione di falsi preventivi recanti l’indicazione di attività formative per le quali l’ente aveva già ottenuto il finanziamento; b) presentazione di false fatturazioni per attività formative diverse da quelle effettivamente effettuate; c) informazioni non veritiere relative al numero degli allievi, alla prestazione di docenze etc.
In questa sede è opportuno premettere alcune considerazioni generali atte ad inquadrare la fattispecie in esame.
La formazione professionale può essere affidata ad un ente privato.
Detti corsi di formazione professionale, sono disciplinati e finanziati dalla PA.
Lo strumento operativo usato è la concessione amministrativa (concessione-contratto) come risulta dalla “legge in materia di formazione professionale” n° 845 del 21 dicembre 1978 e dalle varie leggi regionali emanate ai sensi dell’art. 117, comma primo, della Costituzione.
All’art.2 della L. n° 845 è esplicitamente dichiarato che “le iniziative di formazione professionale costituiscono un servizio di interesse pubblico” (comma 1).
E’ pertanto logico e doveroso, oltre che legittimo, che i soggetti gestori-beneficiari del finanziamento siano in qualche modo assoggettati a poteri di valutazione, controllo e verifica da parte dell’Amministrazione nel corso dell’intero rapporto instaurato.
Ed anzi, a ben vedere, l’attività di istruttoria e di verifica amministrativa, viene a rispondere innanzi tutto a regole di garanzia e di controllo che se correttamente esercitate, prevengono l’insorgenza di possibili irregolarità della gestione o danni all’amministrazione.
Le amministrazioni sono tenute quindi a compiere attività di vigilanza (art.12 della legge 241/90).
Questi atti di vigilanza, e di controllo, precedono gli atti decisori e la stessa erogazione dei contributi.
Detti atti sono svolti da pubblici ufficiali, a ciò preposti.
Qualora mancando un’adeguata vigilanza e controllo, venissero concessi contributi inappropriati, ed si avvantaggia illecitamente se stesso o altro privato, ricorre il delitto di peculato.
Il peculato lo ricordiamo ricorre quando il possesso del denaro sia stato conseguito per ragioni di ufficio.
Il peculato si consuma nel momento in cui ha luogo l’appropriazione del danaro da parte dell’agente, la quale, anche quando non arreca, per qualsiasi motivo, danno patrimoniale alla P.A., è comunque lesiva dell’ulteriore interesse tutelato dall’art. 314 cod. pen. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento del suo operato (Cass. pen., sez. Unite n. 38691/09)
In presenza di un indiziato di delitto, per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, l’articolo 280 c.p.p. consente l’applicazione di una misura cautelare.
La custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
La custodia cautelare in carcere è la forma più intensa di privazione della libertà personale.
L’art. 275 c.p.p. prevede che si possa applicare la custodia cautelare in carcere solamente quando ogni altra misura risulti inadeguata (principio di extrema ratio della custodia cautelare).
In Italia è consentita la carcerazione preventiva solo in tre casi (ex art 274 cpp), cioè a) pericolo di fuga e conseguente sottrazione al processo ed alla eventuale pena, b) pericolo di reiterazione del reato e c) pericolo di turbamento delle indagini.
La custodia in carcere viene disposta dal giudice che procede.
Nella fase delle indagini preliminari la custodia in carcere viene disposta dal gip, su richiesta del pm che “presenta al giudice competente gli elementi su cui la richiesta si fonda”.
Il provvedimento entro 10 giorni dalla esecuzione o dalla notificazione, può essere riesaminato (art. 309 cpp), appellato (art.310. cpp), su richiesta dell’imputato.
In entrambi i casi il giudice del riesame e dell’appello deve provvedere, entro 10 giorni dalla ricezione degli atti.
Infine l’articolo 311 prevede che contro le decisioni emesse ex artt. 309 e 310 le parti possono proporre ricorso per cassazione entro 10 giorni dalla comunicazione o dalla notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento.
A differenza dell’articolo 280 c.p.p, a norma dell’art. 236 cp, è prevista un’ulteriore misura di sicurezza, non personale ma patrimoniale: la confisca ex art. 240 cp.
Le Sezioni Unite del 22 gennaio 1983, hanno affermato che “la confisca prevista dall’art. 240 c.p. è una misura di sicurezza patrimoniale, tendente a prevenire la commissione di nuovi reati.
Essa quindi ha carattere cautelare e non punitivo.
L’art. 240 cod. pen., utilizza al I comma la locuzione “in caso di condanna”, quindi individua nell’esistenza di una sentenza di accertamento della responsabilità penale dell’imputato il primo dei presupposti per l’applicazione della confisca facoltativa.
La confisca facoltativa (1° comma dell’art. 240 cod. pen.) si applica al prodotto ed al profitto del reato, ossia ai producta sceleris, risultati immediati del reato, ovvero di diretta ed immediata derivazione causale rispetto al reato.
Ciò premesso, è possibile definire il prodotto come il risultato materiale dell’esecuzione del fatto criminoso e risultano esclusi dall’ambito di applicabilità della misura i beni di legittima appartenenza del reo.
Per profitto si intende il risultato economico positivo tratto dal reo.
Il legislatore, in relazione al profitto , precisa che nel caso di condanna, la confisca va estesa alle cose che sono il prodotto del reato.
Le trasformazioni del prodotto del reato, non debbono né possono impedire che al colpevole venga sottratto ciò che era il disegno criminoso e che egli sperava di convertire in mezzo di maggior lucro e di illeciti guadagni .
Mentre a norma dei commi II dell’art. 240 cod. pen., il giudice deve sempre ordinare la confisca delle cose che costituiscono il prezzo del reato.
Al prezzo del reato, il legislatore ha disposto la confisca obbligatoria.
Ulteriormente dal 3° comma dell’art. 240 cod. pen., ricaviamo che “se la cosa appartiene a persona estranea al reato”, non si applica la confisca.
Ma va altresì precisato che colui che paga all’autore materiale del reato il prezzo per determinarlo a commetterlo non può mai considerarsi terzo estraneo, essendo egli sempre concorrente ex art. 110 cod. pen. ove non addirittura autore esclusivo ex art. 111 cod. pen., salvo che le cose non gli siano state carpite, estorte sottratte.
La definizione di prezzo del reato è da individuarsi in tutti i beni che sono stati dati per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato.
Esso si differenzia dal provento del reato che deve ritenersi rientrante nella più ampia nozione di prodotto o profitto del reato e, pertanto, oggetto di confisca facoltativa (art. 240 cp 1° comma).
A ben vedere quindi la confisca prevista dall’art. 240 codice penale è di due tipi: facoltativa e obbligatoria.
Quella facoltativa può essere ordinata dal giudice, nel caso di condanna, per le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e per le cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato (art. 240 cp 1° comma).
Quella obbligatoria è sempre ordinata dal giudice per le cose che costituiscono il prezzo del reato, anche se non è stata pronunciata condanna.
Nel tempo, però, il legislatore ha previsto numerose ipotesi di confisca penale.
Si tratta di confische obbligatorie che conseguono alla condanna dell’imputato per delitti determinati.
Oggetto di esse sono normalmente dei beni legati al delitto da un vincolo di pertinenzialità.
Per superare detto vincolo di pertinenzialità, negli ultimi anni, sono stati introdotti nell’ordinamento penale numerosi casi di confisca per equivalente o di valore.
Infatti in alcuni casi in cui, nell’impossibilità di confiscare il bene-pertinenza del reato, vengono confiscati altri beni di eguale valore o delle somme di denaro per il valore corrispondente al bene da confiscare.
Ricordiamo che la legge 29 settembre 2000, n. 300, ha introdotto delle ipotesi speciale di confisca di cui all’art. 322 ter. operante nell’ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione.
Detta confisca è cosa diversa dalla confisca prevista nell’art. 240 cp. essendo quest’ultima sempre una misura di sicurezza patrimoniale applicabile anche se non è stata pronunciata condanna, ed è applicabile anche nella fase delle indagini preliminari disposta dal gip.
Mentre la confisca ex. art. 322 ter e applicabile solo nel caso di condanna, per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320.
In detti casi è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, ovvero, quando essa non è possibile, vi è la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio.
Infatti il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato.
Quindi l’art. 322ter è sì applicabile ai reati di peculato (art 314 cod. pen.), ma solo con sentenza di condanna e giammai durante la fase delle indagini preliminari.
L’irrogazione della confisca ex art. 322 ter cod. pen. è subordinata alla pronuncia di una sentenza di condanna, e colpisce i beni di appartenenza del condannato.
La misura colpisce le cose che costituiscono il prezzo o il profitto del reato.
Occorre, segnalare i problemi interpretativi sorti in ragione della formulazione dell’art. 322 ter cod. pen..
Infatti, il disposto del I comma, equipara il profitto al prezzo.
La confisca di valore è prevista esclusivamente con riguardo a beni corrispondenti a tale prezzo.
Diversamente, nel II comma, che estende al corruttore l’operatività della norma, questo elemento non appare.
L’intervento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione ha chiarito la questione.
Infatti le Sezioni Unite hanno stabilito che il testo dell’art. 322 ter cod.
pen. risulta chiaro nell’escludere la confiscabilità per equivalente del profitto
del reato.
E’ ribadito dalla cassazione che “ chi è responsabile del delitto di peculato può si subire la confisca per equivalente, prevista dall’articolo 322ter, comma primo, ultima parte, ma del solo prezzo e non anche del profitto del reato.
La norma limita quindi la confisca per equivalente al solo «prezzo» del reato (Cassazione penale , SS.UU., sentenza 06.10.2009 n° 38691).
Quindi in tema di peculato, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca "per equivalente" disciplinata dall’art.322 ter, comma primo cod. pen., può essere disposto, soltanto per il prezzo e non anche per il profitto del reato (Cassazione penale , SS.UU., sentenza 06.10.2009 n° 38691).
In altre parole qualora il profitto dei reati per i quali, ai sensi dell’art. 322 ter c.p., è prevista la confisca per equivalente, sia costituito da denaro l’adozione del sequestro preventivo in vista dell’applicazione di detta misura non può essere subordinata alla verifica che il denaro sia confluito nella effettiva disponibilità dell’indagato giacché, altrimenti, si verrebbe a ristabilire la necessità di un nesso pertinenziale tra la “res” ed il reato, che la legge, con l’introduzione della confisca “per equivalente”, ha escluso.
Il primo comma dell’art. 322 ter cod. pen. consentirebbe, invero, la confisca per equivalente, per il reato di peculato, solo in relazione al “prezzo” del reato.
Ciò comporta che la stessa confisca per equivalente , può trovare applicazione anticipata nel sequestro preventivo di ciò che può essere soggetto all’esito del procedimento.
Il sequestro preventivo in esame ex art 322 ter 1° co ultima parte può riguardare beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure ha alcun collegamento diretto con il singolo reato.
Quindi questa è la sostanziale differenza della confisca preventiva ex. art 322 ter, con l’ordinaria confisca prevista dall’rt. 240 cod. pen., che può avere ad oggetto soltanto cose direttamente riferibili al reato (Cass., Sez. Unite n. 41936/05).
La ratio del’art 322 ter è quella di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall’attività criminosa, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, (Cass., Sez. Unite n. 26654/08)
Nell’interpretazione dell’art. 322 ter cod. pen., la giurisprudenza è orientata nel senso che la previsione della confiscabilità (e quindi del prodromico sequestro) per equivalente non è applicabile in relazione al “profitto” del delitto di cui all’art. 314 cod. pen., dovendo ritenersi limitata, invece, al solo prezzo del reato (Cass., Sez. n. 12852/06; Cass.: Sez. n. 19586/07).
Ciò in quanto nella formulazione dell’art. 322 ter cod. pen., le nozioni di “prezzo” e di “profitto” risultano nettamente distinte come già nell’art. 240 cod. pen..
Risulterebbe chiara la volontà del legislatore nel senso di escludere, al di fuori delle ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 322 ter cod. pen., il profitto del reato da tale ipotesi di confisca.
Le Sezioni Unite hanno rilevato che non è rinvenibile una definizione della nozione di “profitto del reato” e che in via interpretativa “il profitto a cui fa riferimento l’art. 240, comma 1, cod. pen., deve essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al “prodotto” e al “prezzo” del reato.
Il prodotto è il risultato dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato.
Il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito.
Il profitto del reato presuppone l’accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente.
Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio di ciò che può essere confiscato a tale titolo.
Occorre cioè una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l’oggetto.
Le Sez. Unite n. 10280/08 con riferimento alla confisca “diretta” del profitto, ha ricompreso anche il bene acquistato con il denaro illecitamente conseguito attraverso il reato.
Il “prezzo del reato”, invece è il compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito.
Ad esso non può essere attribuita la definizione di “utilità economica”.
A fronte della netta distinzione tra le nozioni di “prezzo” e di “profitto” del reato deve convenirsi, dunque, che nell’art. 322 ter cod. pen. appare inoperante la confisca per equivalente per i profitti derivanti dalle fattispecie di reato previste al primo comma, diverse dalla corruzione attiva, nelle quali il vantaggio ottenuto dal reato non è qualificabile come “prezzo”.
In conclusione al delitto di peculato, può disporsi la confisca per equivalente, prevista dall’art. 322 ter, comma 1, ultima parte, cod. pen., soltanto del prezzo e non anche il profitto del reato”.

A parere di chi scrive e per quanto sopra ampiamente descritto in merito al prezzo del reato, ed alla relativa confisca per equivalente, con applicazione anticipata (sequestro preventivo) TIZIO potrebbe impugnare il decreto di sequestro del G.I.P. al fine di ottenere la restituzione dei beni immobili di proprietà dello stesso sequestrati.

Mentre in merito alla misura cautelare in carcere sempre a parere di chi scrive vi è insussistenza delle esigenze cautelari, poichè e escluso la possibilità di un inquinamento delle prove, ed non esiste il rischio di reiterazione, e quindi è auspicabile che il provvedimento possa essere riesaminato (art. 309 cpp) o appellato (art.310. cpp).

Corte Costituzionale nella sentenza N. 333 del 24 novembre 2010.

Comunicato stampa del 28.11.2010
Comitato S.p.A. -Sanitari precari Altamurani-
PRESIDENTE: DOMENICO CIRASOLE
E-MAIL dcirasole@libero.it

Fonte: http://lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDNotizia=385101&IDCategoria=1
http://precariesenzalavoro.blogspot.com/

E FINITA !!!!
La vicenda dei Sanitari (medici, infermieri, tecnici) precari Baresi, Altamurani e Pugliesi è veramente finita.
La parola fine è stata scritta dalla Corte Costituzionale nella sentenza N. 333 del 24 novembre 2010.
Chiarezza è fatta!!
Giustizia e fatta !!?
La Suprema Corte sentenzia che “l’art. 1, commi 1, 2, 3 e 4, della legge della Regione Puglia n. 27 del 2009, destinando l’intero ammontare dei minori costi derivanti da cessazioni del servizio negli anni 2009 e 2010 a nuove assunzioni, non rispetta i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica e viola, quindi, l’art. 117, terzo comma, Cost.. “

Dunque per i precari non vi è più nessuna speranza!!
L’inquietudine ci assale!!!!
Giorni di sensibilizzazione della popolazione, e di appello a tutte le forze politiche e istituzionali, sono servite a nulla.
E’ venuta a mancare la fiducia nelle istituzioni, e nella forza della legge, che viene a trasformarsi in pochi istanti.
In pochi istanti il diritto alla stabilità lavorativa (stabilizzazione del personale precario) diventa superato, anche se quasi del tutto maturato.
La vecchia normativa prevedeva che nel pubblico si accedeva per concorso, e in casi eccezionali per stabilizzazione, dopo 36 mesi e 21 giorni.
Molti sanitari sono precari da molti più anni, e continueranno ad esserlo.
Infatti, noi precari della sanità da molti anni abbiamo consentito l’apertura e la vita di reparti d’urgenza (utic-cardilogia, rianimazione, 118, pronto soccorso), in attesa di concorsi, che non sono mai arrivati.
Abbiamo aspettato anche la stabilizzazione, e questa oggi c’è negata.
Insomma siamo stati puniti per aver creduto nella nostra terra, e abbiamo voluto continuare a lavorare da precari (con contratti a volte anche trimestrali) per la nostra popolazione.
Molti professionisti hanno scelto di andare in altre regioni, nelle quali i concorsi nei decenni precedenti venivano indetti regolarmente, ed ora all’età di 40 anni sono professionisti in pianta stabile, con tutti i diritti che ne conseguono.
Noi no!!!!!
Illusi che l’Italia fosse uguale in tutte le regioni, siamo rimasti, ed abbiamo continuato a sperare, com’è accaduto agli infermieri dell’assistenza domiciliare che ad esempio sono precari da più di dieci anni.
Dieci anni di attese e speranze che oggi del tutto svaniscono.
E’ finita !!!
Ora per tutti (medici, infermieri, tecnici), vi è un solo pensiero, trovare lavoro nel brevissimo tempo.
Si, dobbiamo trovare una nuova occupazione entro il 31.12.2010, perché dall’anno nuovo, in tutte le regioni vi sarà il blocco del turn-over, e quindi niente nuove assunzioni.
Ma è ora che la popolazione Altamurana sappia che questa fuga repentina entro il 31.12.2010 del personale sanitario precario impegnato nell’ospedale di Altamura e di tutte le città della Puglia, determinerà il collasso degli ospedali.
Infatti, ormai prossimi alle festività natalizie, e all’avvicinarsi del picco influenzale, il personale che ormai già da anni è in affanno perché meno di quanto dovuto, sarà costretto a turni di forza per garantire il servizio.
Ma a parere di chi scrive a causa di questa fuga, alcuni servizi e reparti saranno chiusi, o ridotti, mentre in altri saranno garantiti solo disservizi.
Il collasso degli ospedali è già in atto nella provincia di Bari, basta guardare ciò che accade in questi giorni nel Pronto Soccorso dell’ospedale Di Venere, nel quale è tutto esaurito, e i ricoverati sostano per giorni su barelle.
Tutta colpa dei tagli!!!
Ma la situazione dell’ospedale Di Venere non è molto diversa dall’ospedale di Altamura e negli altri ospedali.
A breve quando i primi professionisti precari daranno le dimissioni, la situazione anche ad Altamura e negli altri ospedali si farà dura.
Ad oggi già due ginecologi hanno dato le dimissioni, per firmare contratti con più garanzie, e con scadenza non a breve tempo.
Si, perché altrove i professionisti hanno contratti della durata minima di 24 mesi, mentre il sottoscritto ha visto solo contratti della durata di 6 mesi.
La fuga a breve riguarderà anche i rianimatori , cardiologi, radiologi, medici del pronto soccorso, tecnici, dietiste e non da meno gli infermieri che in tutto sono 37, e quasi tutti impegnati in reparti d’urgenza (pronto soccorso, utic-cardiologia, rianimazione), e nell’assistenza domiciliare.
Concludendo, la sentenza della suprema Corte ha fatto chiarezza, e giustizia, ma causerà a breve danni irreparabili per l’ospedale di Altamura, e negli altri ospedali di tutta la Puglia.
Il sottoscritto, in nome del comitato S.p.A. (sanitari precari altamurani), di tutti i precari della Puglia, e di tutta la popolazione altamurana e pugliese, rivolge un ulteriore appello a tutte le forze politiche ed istituzionali, a tutti i livelli, di voler discutere, ed in breve tempo risolvere la grave situazione dei sanitari precari, e delle conseguenze, ovvero ricadute che la popolazione subirà.
Il diritto alla salute è di tutti, e tutte le forze politiche devono impegnarsi a garantirlo.
Ricordo che “la salute diventa precaria, se è garantita da personale sanitario precario”.
Altamura 27.11.2010
Domenico CIRASOLE
PRESIDENTE DEL COMITATO S.p.A. (Sanitari precari Altamurani)

Parere di diritto civile: Svolgimento di mansioni ulteriori, compiti che non erano professionalmente equivalenti a quelle in precedenza assegnategli

Il caso giuridico in esame vede interessato il sig. CAIO che dichiara di essere stato adibito allo svolgimento di mansioni ulteriori rispetto a quelle di custodia, e precisamente delle mansioni di pulizia degli impianti e dei servizi igienici.
Caio assumeva l’illegittimità di tale ulteriore adibizione atteso che i nuovi compiti, non erano professionalmente equivalenti a quelle in precedenza assegnategli.
Caio chiedeva quindi la condanna del Comune al risarcimento del danno derivante dalla dequalificazione professionale.
Inoltre egli non poteva compiere dette mansioni perchè affetto da malattia cardiaca per la quale era stato riconosciuto invalido nella misura del 25% e non idoneo alla qualifica di operatore della nettezza urbana.
Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 prevede che il lavoratore deve essere adibito "alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi".
L’equivalenza deve essere valutata in concreto, valutando se le nuove mansioni abbiano pari valore professionale rispetto a quelle in precedenza svolte.
Sul concetto di equivalenza, è il giudice a valutare se determinate mansioni possono essere, in concreto, ritenute equivalenti, sulla base del bagaglio professionale necessario per svolgerle.
L’equivalenza contrattuale sta a significare che la disciplina collettiva che fa riferimento alla qualifica si applica di norma a tutte tali mansioni così accorpate, ancorchè espressione di diverse professionalità" (Cass. SS.UU., 24.11.2006, n. 25033).

In quest’ottica, affinchè le mansioni possano essere considerate equivalenti è sufficiente la previsione in tal senso della contrattazione collettiva. (Cass. SS.UU., 4.4.2008, n. 8740; Cass. sez. lav., 21.5.2009, n. 11835).