Uno dei quattro fattori della produzione (v.). La sua definizione pone non pochi problemi: si è soliti, comunque, includere nel capitale tutti i beni, finiti o intermedi, e le strutture impiegate nella produzione (impianti, fabbricati, macchinari ecc.) e che sono stati oggetto essi stessi di produzione. Sulla natura e sulla funzione del capitale all’interno del ciclo di produzione le diverse scuole di pensiero hanno espresso teorie contrastanti: l’eterogeneità dei beni che costituiscono il capitale e, soprattutto, l’indubbia valenza politica dell’argomento hanno spesso concorso al formarsi di teorie inconciliabili.
Il primo tentativo di analizzare in maniera sistematica la funzione del capitale nell’economia capitalistica risale a F. Quesnay (v.) che, oltre a distinguere fra capitale produttivo e capitale monetario, differenzia anche il capitale circolante (v.), che trasferisce il suo valore nel prodotto nel corso di un solo ciclo produttivo, dal capitale fisso (v.) con il quale tale trasferimento avviene per più cicli.
Tale distinzione sfuma, invece, nei classici (v.): pur restando chiara la distinzione fra profitto ed interesse, le figure dell’imprenditore e del capitalista finiscono col confondersi. Adam Smith (v.), ad esempio, concentra la sua attenzione sul capitale produttivo, definito come quella percentuale del fondo di un individuo sottratta al consumo e destinata all’attività produttiva in vista del conseguimento di un profitto. Poiché per Smith, così come per tutti gli altri classici, solo il lavoro crea valore e poiché la moneta è considerata un semplice intermediario negli scambi, il capitale si identifica, in sostanza, con il fondo salari anticipato dai capitalisti: ogni bene strumentale, infatti, non è altro che il risultato di spese effettuate in passato a carico del fondo salari.
Nell’analisi marxista il capitale riveste un ruolo essenziale: esso è alla base del modo di produzione capitalista e dei rapporti sociali che si instaurano fra le classi.
Marx distingue, infatti, il capitale complessivo anticipato in capitale costante (destinato all’acquisto di materie prime e macchinari e che trasferisce il proprio valore al prodotto senza alcuna variazione) ed in capitale variabile (destinato all’acquisto di forza-lavoro). Solo il capitale variabile crea valore aggiuntivo, ovvero plusvalore, cosicché alla fine del processo produttivo il valore della merce prodotta sarà pari al capitale anticipato più la parte non remunerata del lavoro salariato o pluslavoro.
L’appropriazione da parte del capitalista del plusvalore costituisce lo specifico modo capitalistico di sfruttamento dei lavoratori ed il presupposto fondamentale dell’accumulazione (v.) del capitale.
I neoclassici (v.) tralasciano le implicazioni sociali del concetto e si fermano alla sua semplice connotazione materiale investigando sulla relazione intercorrente fra saggio di profitto e saggio d’interesse.
Su questi argomenti, all’interno della scuola neoclassica si formano diversi filoni a partire da quello, per lungo tempo maggioritario, di Marshall (v.).
Secondo l’economista inglese «il capitale è il risultato del lavoro e dell’astinenza» e, data la sua natura ibrida, esso è al tempo stesso «risparmiato ed usato»: i risparmiatori si astengono dal consumare beni e li offrono agli imprenditori che li utilizzano nel processo produttivo.
Tuttavia, l’approccio più originale è senz’altro quello della scuola austriaca (v.) e del suo esponente più noto, Böhm Bawerk (v.), che si differenzia dagli altri neoclassici perché non considera il tasso d’interesse come un fenomeno monetario.
L’idea centrale del pensiero di questo autore è che il sistema capitalistico è in grado, attraverso l’uso di strumenti indiretti, di accrescere notevolmente il volume produttivo; l’uso di tali beni indiretti, in sostanza l’applicazione del fattore capitale al processo produttivo, permette di accrescere la quantità di prodotto ottenuta attraverso un migliore utilizzo degli altri fattori produttivi (lavoro e terra); ma tale effetto sarà dilazionato nel tempo. In quest’ottica la scelta che ogni operatore deve effettuare è tra l’uso immediato dei beni disponibili e il loro consumo futuro. Nel secondo caso tale sacrificio dovrà essere in qualche modo ricompensato; il saggio d’interesse costituisce appunto la ricompensa per il consumo posticipato nel tempo di beni, ovvero per il risparmio accumulato nel presente che permetterà di ottenere, attraverso l’impiego di strumenti indiretti, un aumento di produttività nel futuro. Tale sacrificio è tuttavia conveniente solo finché la produttività del capitale (che è decrescente) è pari o superiore al saggio d’interesse corrisposto.
Sempre seguendo l’impostazione data dalla scuola austriaca e sempre tenendo conto del complesso legame che sussiste tra capitale e interesse, I. Fisher (v.) pone in evidenza come vi sia una preferenza temporale per i beni presenti rispetto ai beni futuri, preferenza dovuta all’impazienza dei soggetti economici di soddisfare i propri bisogni nel breve periodo. Soltanto qualora si raggiunga un equilibrio nel mercato dei capitali tra i diversi saggi di impazienza (normalmente condizionati da fattori soggettivi quali la disponibilità presente e futura di alcune risorse o la sottostima dei bisogni futuri) ed i saggi di opportunità di investimento vi sarà una determinazione del saggio d’interesse.
Riprendendo le idee di Böhm Bawerk, l’economista svedese Wicksell (v.) definisce il capitale come «lavoro risparmiato e terra risparmiata: l’interesse è la differenza tra la produttività marginale del lavoro e della terra risparmiati e la produttività marginale della terra e del lavoro correnti». Il capitale è formato, in definitiva da «tutti gli elementi ausiliari della produzione, eccetto le forze naturali nella loro forma originaria, e il lavoro umano diretto».
Come risulta ovvio, tale definizione di capitale è strettamente legata all’idea che esso è formato da beni già prodotti nel passato attraverso la combinazione di terra e lavoro; per quanto vari possano essere i beni che rientrano nella generica definizione di capitale, essi sono sempre riconducibili all’impiego di lavoro e terra risparmiati nel passato ed attualmente utilizzati accanto ai fattori lavoro e terra corrente per la produzione di altre merci. In definitiva, quindi, è possibile distinguere quattro diversi fattori produttivi: lavoro corrente, lavoro risparmiato, terra corrente e terra risparmiata; ciascun fattore sarà remunerato in base alle rispettive produttività marginali, misurabili in termini fisici. La maggiore remunerazione dei fattori lavoro risparmiato e terra risparmiata (che coincide con l’interesse corrisposto) è dovuta alla loro maggiore produttività; nel caso contrario non si avrebbe alcun incentivo a destinare risorse correnti ad un impiego futuro.
Dopo Wicksell, il dibattito sulla natura del capitale e sulle sue funzioni all’interno del processo produttivo si è riacceso grazie alla c.d. Cambridge controversy (v.): sottoposti ad un attacco diretto da parte della c.d. scuola di Cambridge (v.), autori di impostazione neoclassica come Solow (v.) e Samuelson (v.) hanno cercato di ribattere elaborando una nuova versione della teoria della produzione (v. Funzione di produzione di Solow).
Poiché le distanze fra le due scuole sono rimaste incolmabili, a partire dagli anni Ottanta il problema di definire analiticamente il concetto di capitale è stato in un certo senso rimosso.