Ogni orientamento dottrinale secondo cui la verità di una o più proposizioni matematiche o fisiche dipende sempre da una precedente convenzione (esplicita o implicita) stipulata tra coloro che devono utilizzare le proposizioni medesime.
Una premessa del (—) si rinviene nel De nomina (1658) di T. Hobbes, in cui il filosofo inglese asserì che i prìncipi della matematica, dell’etica e della politica, in quanto posti dall’uomo, sono perfettamente conoscibili da questo, a differenza dei principi della natura, noti solo al suo autore (Dio).
Tuttavia, una concezione convenzionalistica delle scienze venne elaborata solo verso la fine del sec. XIX da J.-H. Poincaré (1854-1912). In La scienza e l’ipotesi (1902) Poincaré sostenne che le leggi scientifiche devono rispondere al criterio dell’efficacia nella ricerca. Egli distinse tra la conoscenza dei «dati-bruti» (desumibili dall’esperienza) e la scienza degli enti logico-matematici (creati dall’uomo sulla base di considerazioni di opportunità pratica).
P. Duhem (1861-1916) e E. Le Roy (1870-1954) ripresero la concezione di Poincaré, giungendo a forme di (—) estremo. I due epistomolgi francesi affermarono che la formulazione di leggi scientifiche è discrezionale e le teorie scientifiche, avulse dal riscontro esperenziale, sono pure convenzioni «nominalistiche».
J. Dewey (1859-1952) sostenne che tutte le teorie, comprese le scienze esatte non devono essere qualificate in vere o false, ma in più o meno fornite di «utilità» pratica.
La concezione convenzionalista annovera tra i maggiori critici il filosofo americano W. Quine (1908), il quale ha sostenuto che l’insieme delle nostre conoscenze è contemporaneamente convenzionale ed empirico, per cui non ha senso distinguere tra proposizioni vere in base alle sole convenzioni linguistiche e proposizioni vere in base ai soli fatti empirici.