a cura del dott. Domenico CIRASOLE
Nel nostro ordinamento il rapporto di lavoro subordinato viene trattato separatamente dagli altri contratti perché in esso non è tanto rilevante la fase della formazione della volontà contrattuale quanto lo svolgimento del rapporto stesso. Vi è inoltre la necessità pubblicistica di tutelare il lavoratore, quale contraente più debole.
La principale caratteristica del rapporto di lavoro subordinato è infatti la subordinazione del lavoratore al datore di lavoro, che non implica solo inferiorità economica e sociale dello stesso ma anche la sua estraneità all’organizzazione produttiva in cui è inserito, nonché la soggezione al potere direttivo del datore di lavoro.
Dal punto di vista formale, il rapporto di lavoro è un rapporto di scambio, oneroso, a prestazioni corrispettive. Da una parte c’è l’obbligazione del lavoratore di eseguire la prestazione per il quale è stato assunto, dall’altra c’è quella del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione, in proporzione alla qualità e la quantità del lavoro prestato. E’ inammissibile nel nostro ordinamento un contratto di lavoro a titolo gratuito.
Attorno a queste due obbligazioni fondamentali, si dispongono a carico di entrambe le parti una serie di obbligazioni accessorie, strumentali o integrative, quali, per il lavoratore, l’obbligo di non trattare affari in concorrenza con l’imprenditore (c.d. obbligo di fedeltà), gli obblighi di collaborazione, diligenza ed obbedienza, d’altra parte, per il datore di lavoro, l’obbligo di garantire condizioni di lavoro sicure ed i poteri disciplinare, gerarchico e di controllo.
L’obbligazione di lavoro al momento della stipula del contratto è determinata solo in maniera generica; sarà poi il datore di lavoro a riempirla di contenuto (mansioni), attraverso l’esercizio del proprio potere direttivo. Il luogo della prestazione di lavoro viene stabilito dall’imprenditore nell’esercizio del potere direttivo, mentre per quello che riguarda l’orario vi sono una serie di limitazioni stabilite dalla legge a tutela della salute e della sicurezza del lavoratore.
Il potere direttivo del datore di lavoro è tuttavia soggetto ad una serie di limiti legali, in quanto non è attribuito al datore di lavoro solo per il soddisfacimento dei propri interessi ma soprattutto nell’interesse dell’impresa. I lavoratori hanno quindi un interesse legittimo che venga esercitato con imparzialità e senza abusi, da qui la necessità per il datore di lavoro di motivare i provvedimenti presi, ogni volta che venga fatto un trattamento differenziato tra i lavoratori.
Accanto al potere direttivo, il datore di lavoro ha in via strumentale anche il potere di vigilanza sui lavoratori. Tale potere tuttavia deve essere esercitato nel rispetto della riservatezza, libertà e dignità del lavoratore. Sono vietati quindi i controlli a distanza mediante impianti audiovisivi, le indagini sulle opinioni politiche, sindacali o religiose, mentre gli accertamenti sulle infermità fisiche possono essere espletati solo tramite strutture pubbliche.
Qualora il lavoratore non osservi le disposizioni impartite, il datore di lavoro può fare uso del potere disciplinare e comminare sanzioni proporzionali alla gravità dell’infrazione. A tutela del lavoratore è però previsto il principio della predeterminazione delle infrazioni e delle sanzioni corrispondenti in modo che il lavoratore possa fondare la propria responsabilità su una ragionevole prevedibilità della sanzione e anche che il datore di lavoro non abbia troppa discrezionalità nell’applicazione delle stesse. La normativa disciplinare deve essere pubblica e conoscibile a tutti i lavoratori e contro le sanzioni illegittime è possibile fare ricorso.
Oltre al principale obbligo di retribuzione, si è detto che il datore ha il dovere di garantire le condizioni di sicurezza del lavoratore, pertanto il lavoratore ha un vero e proprio diritto soggettivo a condizioni di lavoro sicure. Le condizioni di sicurezza non sono dalla legge stabilite a priori, bensì il datore di lavoro è tenuto ad attuare tutte le precauzioni rese di volta in volta possibili dal progresso tecnico. Si tratta di un obbligo preventivo e si considera violato ogni volta che le misure non vengono approntate, anche se in concreto non sia capitato nessun danno al lavoratore.
Venendo ad analizzare le possibili modifiche apportabili al rapporto di lavoro vediamo che dal lato del lavoratore il contratto di lavoro non è cedibile ne per atto tra vivi , né per successione. Questo perché la persona del prestatore di lavoro non è fungibile. Dal lato del datore di lavoro è invece possibile la cessione, perché l’obbligazione retributiva è invece perfettamente fungibile. Il codice civile disciplina infatti espressamente la sorte dei contratti di lavoro in caso di trasferimento d’Azienda.
Per quello che riguarda invece le modificazioni dell’oggetto del contratto vediamo che le mansioni del lavoratore non possono essere modificate unilateralmente dal datore di lavoro e comunque, anche con l’accettazione del lavoratore non possono mai essere modificate in senso peggiorativo. Il trasferimento del lavoratore può essere invece disposto unilateralmente dal datore di lavoro ma solo per comprovate esigenze organizzative.
Il rapporto di lavoro è suscettibile di periodi di sospensione (dovuti ad esempio a malattia, gravidanza, puerperio, scioperi,ecc.). In tutti questi casi viene meno l’obbligo della prestazione lavorativa ma non necessariamente quello della retribuzione e tutte le obbligazioni accessorie. Le sospensioni per potersi considerare tali devono però essere espressamente previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, altrimenti costituiscono inadempimento degli obblighi contrattuali.
Il rapporto di lavoro si estingue per scadenza del termine in caso di contratto a tempo determinato, mentre nel caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato si può estinguere per morte del lavoratore, licenziamento o dimissioni dello stesso. Mentre le dimissioni non sono sottoposte ad alcun obbligo formale tranne quello del preavviso, il licenziamento può avvenire solo per giusta causa (ragioni attinenti a gravi mancanze del lavoratore ) o giustificato motivo (ragioni attinenti all’organizzazione aziendale). In entrambi i casi va motivato per iscritto ed è impugnabile dal lavoratore davanti all’Autorità Giudiziaria Ordinaria.
In ogni caso di risoluzione, al lavoratore spetta il trattamento di fine rapporto, che è costituito da una somma di denaro commisurata alla durata del rapporto stesso. Oltre ad avere natura retributiva, il trattamento di fine rapporto ha anche natura previdenziale in quanto serve a far fronte ai bisogni immediati che possono presentarsi al lavoratore nel momento in cui si trovi senza lavoro. Questo diritto matura solo alla cessazione del rapporto, perché solo in quel momento diventa certo il suo ammontare. Le anticipazioni in corso di rapporto sono circoscritte ad esigenze eccezionali.
Le regole fin qui enunciate valevano fino a pochi anni fa solo per il rapporto di lavoro tra privati. In seguito al decreto legislativo n. 29 del 1993 invece anche il rapporto di pubblico impiego è stato assoggettato alla disciplina privatistica. Si è parlato di privatizzazione del pubblico impiego, è però più corretto parlare di contrattualizzazione dello stesso. Il rapporto alla dipendenza delle pubbliche amministrazioni resta infatti pubblico, ma ora trae la sua fonte da un contratto e non più da un atto unilaterale di nomina ed è regolato contrattualmente. Gli atti di gestione del rapporto non sono pertanto più da considerare atti amministrativi ma sono “degradati” ad atti autoritativi privati e le eventuali controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario.