a cura del dott. Domenico CIRASOLE
La questione giuridica in esame vede interessatii signori TIZIO e CAIA.
Detti signori sono sposati da otto anni, e a completamento del loro amore hanno avuto un figlio, sette anni fa.
Detto figlio di nome ANDREA è affetto da lieve sindrome di down.
Purtroppo oggi dopo circa 8 anni di matrimonio, interviene una crisi coniugale, che spinge CAIA a chiedere la separazione da TIZIO. Inoltre CAIA chiede l’affidamento esclusivo del figlio ANDREA, motivando la sua scelta (a suo dire), con il fatto che il rapporto tra padre e figlio non è armonioso e a conferma di ciò chiede che ANDREA venga ascoltato dal Giudice.
Orbene la famiglia è una formazione sociale fondata sul matrimonio, con i caratteri della esclusività, della stabilità e della responsabilità.
Tra i coniugi vi sono una serie di diritti e doveri reciproci quali la coabitazione, la fedeltà, l’assistenza, la collaborazione, la contribuzione ai bisogni della famiglia.
La presenza di figli in una famiglia, impone ulteriori obblighi, quali appunto l’educare, l’istruire, il mantenere, e curare i figli.
Si conferma quindi l’importanza della crescita del minore nell’ambito della famiglia, con l’obiettivo di garantire l’equilibrio dei bambini e dei ragazzi, creando o valorizzando, i rapporti della famiglia e del sociale.
La Consulta già nel 1980, aveva già avuto modo di affermare che: "Per il combinato disposto degli artt. 2 e 30 Cost., primo e secondo comma, emerge, quale valore primario per il minore, la promozione della personalità, la sua educazione nel luogo a ciò più idoneo, che è in primissima istanza la famiglia di origine, e solo in caso di incapacità di questa una famiglia sostitutiva, poiché il minore richiede, per la sua crescita normale, affetti individualizzati e continui, ambienti non precari, situazioni non conflittuali. (Corte cost. 10 febbraio 1981, n. 11)".
Detti obblighi da parte dei genitori (assistenza morale e materiale nell’ambito della propria famiglia) sono in realtà un diritto di entrambi i genitori, ma anche un diritto dei figli (il diritto del minore alla bi genitorialità).
La bigenitorialità, altro non è che l’effettiva presenza di entrambi i genitori accanto al figlio, ossia « mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, per ricevere dagli stessi cura, educazione e istruzione» art. 155, comma 1, c.c. novellato nell’art. 1, comma 1, legge n. 54/2006.
Concretamente significa che la figura del minore va tutelata e protetta nella misura più ampia possibile.
Detto principio è già formalizzato a livello costituzionale (art. 30 Cost) prima ancora che ordinario (art. 155 c.c.).
In particolare quindi i figli minori sono soggetti di diritto meritevoli di protezione e protagonisti delle proprie scelte, soggetti dotati di un potere di autodeterminazione, che hanno diritto all’ascolto, e che l’adulto valuti in modo adeguato le dichiarazioni che vengono rese dallo stesso.
Naturalmente parlare di centralità del minore significa considerarlo nel suo essere in formazione, e dunque richiede con riferimento alla dimensione dell’ascolto, l’assunzione di tecniche di tutela particolari (circostanze ambientali, lessico, tono, e quant’altro faciliti l’esposizione del minore).
L’ascolto del minore capace di discernimento (art. 12 Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia del 2 novembre 1989; art. 3 Convenzione europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 5 gennaio 1996; art. 155 sexies c.c.) è la nuova chiave interpretativa e di tutela, per garantire la crescita del minore, un normale sviluppo della sua personalità, delle sue reali esigenze in modo indipendente e responsabile, tenendo conto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni (art.147 c.c), e ciò si realizza non solo e non tanto per mero effetto del benessere economico, ma attraverso “assistenza personale ed aiuto psico-affettivo” (Cass. civ., 1° febbraio 2005, n. 1996; Cass. civ., 10 agosto 2006, n. 18113) che solo la famiglia e la presenza di entrambi i genitori può garantire.
La Giurisprudenza pronunciandosi nel tempo ha affermato che «Il minore ha diritto alla prestazione di cure idonee a garantirgli uno sviluppo ottimale (vale a dire armonioso ed equilibrato sotto ogni punto di vista) a vivere in un ambiente familiare moralmente sano e materialmente confortevole, che lo sottragga a influenze deleterie, che possano incidere negativamente sul suo processo di maturazione» (Trib. min. Roma, 6 febbraio 1984).
Quindi possiamo affermare che libertà di espressione, salute, educazione, formazione, socializzazione, gioco, ascolto, dignità, riservatezza, sicurezza, sono tutti diritti del minore.
Ma alcune patologie (handicap) aumentando da un lato la sensibilità dell’adulto, e dall’altro la fragilità del minore, impongono all’adulto, un incremento delle attenzioni, per garantire allo stesso i diritti di cui vanta; quando questo accade, vi è perfetta simbiosi tra adulto e minore, tanto da creare una perfetta armonia tra il genitore e il figlio.
Cosa non semplice e non frequente.
Tra i vari handicap dei minori, la sindrome di Down, crea un particolarissimo rapporto tra genitore e figlio.
La sindrome di Down è nota per la presenza di un ritardo mentale, e il futuro di queste persone non è prevedibile e la sua crescita dipenderà da una serie di aspetti costituzionali, famigliari e ambientali insieme.
Queste differenze dipendono soprattutto dalle capacità individuali delle persone con sindrome Down, dagli atteggiamenti educativi della loro famiglia e dalla disponibilità o meno di strutture socio-sanitarie adeguate.
In Italia un bambino su 1000 nasce con la sindrome Down. Il grado di ritardo mentale non è assolutamente prevedibile e varia molto da una persona all’altra.
Quello che è certo è che il bambino sarà in grado di capire, di imparare e di ricordare quello che ha imparato e il grado di autonomia e responsabilità datogli.
Spesso non viene permesso loro di fare delle scelte, né di sfruttare le proprie capacità relazionali, né di inserirsi in un contesto sociale adeguato.
Comunque si può dire che, data una situazione familiare, educativa e sociale adeguata, una persona con sindrome Down può imparare tutto quello che è necessario per avere una vita relativamente autonoma e soddisfacente, esprimendosi con un linguaggio verbale adeguato.
I genitori per aiutare il loro bambino a parlare, devono stimolarlo, conversando con lui, ascoltarlo, fare attenzione a quello che il bambino cerca di dire, rispondergli nel modo giusto, essere pazienti, concedendo al bambino lo spazio e il tempo per agire o per rispondere.
In altre parole bisogna farsi guidare dal bambino, rispettare il suo interesse del momento, mantenendo il passo del bambino, valorizzando il bambino, imparando a pensare come il bambino, considerando il suo punto di vista secondo il suo sviluppo cognitivo e, la sua diversa prospettiva sulle azioni, sul tempo e sullo spazio.
L’accettazione delle persone con ritardo mentale da parte della società è fortemente collegata al loro comportamento sociale, in altre parole un bambino con sindrome Down sarà accettato se si comportano in modo accettabile e adeguato socialmente.
Una persona con sindrome Down potrà quindi avere una vita sociale soddisfacente se i suoi genitori cureranno fin dai primi anni di vita lo sviluppo delle capacità autonome e le regole di un comportamento sociale maturo.
Queste competenze sono indispensabili per un reale inserimento nella scuola e nel mondo del lavoro, ma soprattutto per favorire una sicurezza e una stima di sé e delle proprie capacità senza le quali una vita insieme agli altri può essere difficile e improbabile.
Ecco, quindi, che i genitori devono essere gentili, devono curare al massimo gli aspetti legati all’insegnamento dell’autonomia e delle buone maniere, devono fare gli opportuni complimenti se ha imparato bene qualcosa o se si è comportato bene.
In altre parole il genitore deve creare un rapporto unico, ed armonioso con il figlio affetto da sindrome down, e come già detto cosa non semplice e facile, quando questo non accade, per i casi molto gravi il legislatore ha creato una figura particolare, ovvero l’amministratore di sostegno provvisorio o definitivo.
Il ricorso per la richiesta di detta figura è frutto di una azione coordinata dei servizi sociali e sanitari, del medico psichiatra, e dell’assistente sociale.
Anche in questo caso il Giudice può non ritenere, sufficiente la documentazione fornita, richiedendo solo ove vi siano delle ombre ulteriori informazioni al medico curante, e per le informazioni patrimoniali, interpellando direttamente gli istituti di credito interessati.
L’audizione dei parenti, del PM, non è sempre necessaria, nel senso che se non compaiono dopo la convocazione il giudice provvede ugualmente, ma l’audizione dell’interessato è un passaggio non solo dovuto ex art. 407 c.c. (il giudice sente l’interessato dovunque si trovi) ma anche essenziale per l’acquisizione delle informazioni utili a elaborare il decreto di nomina.
Va sottolineato che l’audizione è diretta a conoscere il beneficiario, a raccogliere i suoi desideri e le sue aspirazioni, a verificare anche le sue relazioni con l’ambiente, con i famigliari, con i parenti, con i vicini, conoscenti, ad accertare il suo grado di abilità, la sua tensione verso l’autonomia, la sua suggestionabilità, i rischi a cui è esposto se lasciato solo, i rapporti di forza presenti nelle dinamiche famigliari, le sue preferenze elettive e affettive, la sua fragilità, le sue abitudini di vita, “i riti” a cui non può rinunciare.
In altre parole l’audizione è sempre diretta a conoscerlo, a raccogliere elementi utili per la scelta dell’amministratore di sostegno da farsi avendo unicamente riguardo all’interesse del beneficiario.
Orbene osservando questo istituto possiamo comprendere quanto importante sia l’audizione allorquando il minore si affetto da handicap, ovvero da sindrome di Down, e in un procedimento di separazione dei coniugi, che il più delle volte avviene dopo un periodo alquanto lungo di crisi famigliare, dove il minore è stato spettatore e vittima di scontri, conflitti, ma soprattutto di disattenzioni da parte dei/del genitori, vedendo modificare, crollare, scomparire, quel particolarissimo rapporto di armonia, che come abbiamo già appreso risulta imprescindibile per la (futura) vita sociale dello stesso.
La Suprema Corte (22238/09), ha cambiato le regole "del gioco" nei processi di separazione e divorzio ove vengano in rilievo provvedimenti destinati ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei figli minori, non ultimo, l’affidamento.
Le Sezioni Unite, con la sentenza 22238/09 ha introdotto uno specifico onere motivazionale che non provvede all’audizione del minore.
Il giudicante dovrà espressamente riferire per quale motivo non ha inteso sentire il minore, motivo che può attenere o alla capacità di discernimento del minore stesso o all’eventualità di pregiudizi ai suoi interessi superiori.
Con la sentenza n. 22238/09 viene inoltre asserito l’obbligatorietà dell’audizione dei figli minori nei procedimenti di separazione attinente l’affidamento.
La Cassazione sostiene che non si può ignorare l’opinione del minorenne nel caso in cui si debba decidere a quale genitore dovrà essere affidato, in quanto il minore è parte sostanziale del procedimento e portatore di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori.
Si asserisce, quindi, che il mancato ascolto dei minori costituisce una violazione dei due principi cardini dell’ordinamento italiano, precisamente il principio del contradditorio e quello del giusto processo.
L’audizione del minore è prevista e riconosciuta dall’art. 12 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, fatta a New York nel 1989, nella quale è previsto che «Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità.
La Suprema corte rileva ulteriormente che l’audizione del minore è divenuta obbligatoria con l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n. 77/2003, in quanto si dispone che «nei procedimenti che riguardano un minore, l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualunque decisione, deve: a) esaminare le informazioni che dispone, al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare da parte dei detentori delle responsabilità genitoriali; b) quando il diritto interno ritiene che il minore abbia una capacità di discernimento sufficiente (assicurandosi che il minore abbia ricevuto tutte le informazioni pertinenti) nei casi che lo richiedono, consultare il minore personalmente, se necessario in privato, direttamente o tramite altre persone od organi, con una forma adeguata alla sua maturità, a meno che ciò non sia manifestamente contrario agli interessi superiori del minore, permettendo al minore di esprimere la propria opinione; c) tenere in debito conto l’opinione da lui espressa».
Pertanto la Suprema corte deducendo la violazione della Convenzione di Strasburgo, la Convenzione ONU, l’art. 155 sexies del codice civile (che dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore ove capace di discernimento), ritiene necessaria ed obbligatoria l’audizione del minore nel procedimento di separazione.
Quindi, in presenza di una richiesta di audizione avanzata da uno dei genitori o dal Pubblico Ministero, il Giudice della separazione o del divorzio (anche nella fase presidenziale) dovrà procedere all’ascolto dei minori, a meno che, come già detto, non fornisca idonea motivazione in ordine al fatto che a)tale ascolto si ponga in contrasto con gli interessi fondamentali dei figli; b) manchi il necessario discernimento dei minori infradodicenni, che può giustificarne l’omesso ascolto.
L’audizione dei figli minori ha quindi un’indubbia valenza probatoria, quale fonte di preziose informazioni sulla vita familiare, al fine di realizzare l’affidamento più conveniente nel preminente interesse del minore.
La materia dell’affidamento è molto è cambiato rispetto al secolo scorso che stabiliva il principio dell’indissolubilità del matrimonio,e ammetteva la separazione solo in caso di colpa di uno dei coniugi, e disciplinava i provvedimenti riguardanti i figli, stabilendo che i medesimi fossero affidati al coniuge
"senza colpa".
Certamente 898/70, che ha introdotto il divorzio nel nostro ordinamento, per la prima volta ha fissato all’art. 6 un criterio guida per il giudice in tema di affidamento dei figli cioè quello della preminenza del loro interesse morale e materiale.
Detto principio viene introdotto nella successiva legge di riforma del diritto di famiglia (legge 21 maggio 1975 n.151), in materia di separazione.
La separazione non viene più pronunciata solo per colpa di uno dei coniugi, ma viene intesa come rimedio ad una situazione di fallimento della vita coniugale, e il giudice nello scegliere il genitore al quale affidare i figli deve tener presente solo ed esclusivamente la posizione dei figli, il loro interesse, le condizioni migliori per lo sviluppo della loro personalità.
In particolare, oggi il criterio unico che disciplina l’affidamento in caso di separazione è quello del superiore interesse della prole, inteso quale riorganizzazione di un modello di comunità familiare in cui il minore possa venire educato e realizzare il proprio diritto alla formazione ed alla crescita della sua personalità.
La separazione, tanto consensuale quanto giudiziale, determina lo scioglimento dell’eventuale regime di comunione legale dei beni e non solo, creando una rottura emotivo, economica, genitoriale, comunità, psichico.
In caso di separazione consensuale, i coniugi regolamentano i loro rapporti con un accordo che verrà poi omologato dall’autorità giudiziaria.
Il contenuto dell’accordo potrà avere ad oggetto la divisione di beni comuni, l’assegnazione ad uno dei coniugi di beni di proprietà comune o esclusiva dell’altro coniuge, il
riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge debole.
In ogni caso sono fatti salvi tutti i provvedimenti indispensabili all’interesse della prole, quali ad esempio l’assegnazione della casa coniugale al coniuge affidatario, l’obbligo di corrispondere un assegno di mantenimento per i figli o per il coniuge economicamente più debole.
Sempre nell’interesse della prole, vi è stato un ripetuto cambiamento di rotta nell’affidamento che ha visto concludere il percorso grazie alla Legge 8 febbraio 2006, n. 54.
In passato frequenti erano la svalutazione dell’altro genitore, manipolazione dei fatti o anche alla costruzione di false denunce di abuso, di violenza e inidoneità genitoriale con il solo scopo di allontanare un genitore escludendolo dalla funzione di genitore condizionando il minore a schierarsi a sua volta contro il genitore allontanato.
I danni che queste forme di comportamento arreca ai figli sono enormi creando nel minore un senso di perdita e di abbandono che potrà influenzarlo per tutta la vita. Questa sintomatologia si chiama Sindrome da alienazione genitoriale o PAS, provocando una regressione, una limitazione, un blocco delle capacità di pensiero. L’esperienza dimostra che, qualora venga meno l’influenzamento dei figli da parte del genitore alienante, i sintomi della PAS svaniscono. Consentire ai figli di maturare esperienze dirette e complete di vita con ciascun genitore separatamente dal genitore alienante è il modo migliore per prevenire la PAS, mitigando l’influenza delle azioni denigratorie.
Inoltre, la convivenza equilibrata con ciascun genitore senza la presenza dell’altro, in modo alternato, favorisce la
creazione di una relazione diretta e autentica.
Prima della legge 54/06, i figli in caso di separazione
legale dovevano essere affidati al padre e solo in casi gravi alla madre, con la L.151/75 i diritti del padre e della madre vengono parificati prevedendo l’affidamento monogenitoriale esclusivo ai sensi del disposto dell’art. 155 c.c. (il modello di affidamento più applicato sino ad oggi in caso di separazione).
Tale modello prevedeva l’affidamento dei minori ad un genitore mentre l’altro conservava un generico diritto di visita, di vigilanza sulla istruzione ed educazione. In ogni caso le decisioni di maggiore interesse dovevano essere adottate di comune accordo tra i genitori.
Mentre con l’affido congiunto come modalità alternativa di custodia dei figli minori previsto dall’art. 6 Legge 878/70 veniva superata il contrasto tra genitori, garantendo al minore, una continuità affettiva e di intervento di
entrambi i genitori.
Ne discende che tale soluzione dovesse essere esclusa laddove uno solo dei coniugi reclamasse l’affidamento per sé, sul presupposto che l’altro genitore non fosse in grado di assumersi il compito educativo con pienezza di poteri, e nei caso di conflittualità della coppia genitoriale.
Oggi con legge 8 febbraio 2006, n. 54, l’art. 155 c.c., così come riformato, prevede che <
Ecco quindi sorgere il principio della bi genitorialità.
Qualora il giudice ritenga che i genitori non siano in grado di comporre la loro conflittualità nell’interesse dei figli minori, permane l’alternativa dell’affidamento ad uno soltanto di essi. Un aspetto degno di nota della riforma in oggetto è l’introduzione all’art. 155 sexies c.c. (obbligo di ascolto del minore e l’attivazione dei percorsi di mediazione dei genitori).
L’affido condiviso è dunque oggi l’unica forma di affidamento dei figli includendo l’eccezione dell’affido a un solo genitore quando il comportamento dell’altro genitore nei confronti del figlio sia contrario all’interesse del minore stesso. Solo in tal caso potrà essere limitata la frequentazione ma non la potestà di quel genitore.
A differenza del passato non sono considerati validi motivi per l’affidamento a un solo genitore il conflitto tra i genitori.
L’affido condiviso consente l’esercizio della potestà anche in modo disgiunto (in caso di conflitto) cosicché ciascun genitore è responsabile in toto quando i figli sono con lui mantenendo inalterata la genitorialità di entrambi.
La permanenza del minore presso ciascun genitore viene ripartita in un progetto educativo genitoriale da presentare in allegato all’istanza di separazione, con la ripartizione dei compiti e dei capitoli di spesa assegnati a ciascun genitore.
L’affidamento condiviso costringe i genitori a distinguere la relazione di coppia dalla loro relazione genitoriale.
Le azioni che un genitore dovesse compiere, volte a ostacolare la frequentazione dell’altro genitore o a gettare
discredito sull’altra figura genitoriale, verranno considerate un valido motivo di esclusione.
Resta però la differenza fra amministrazione ordinaria e amministrazione straordinaria.
L’art. 155 c.c., aggiunge che limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.
Concludendo a parere dello scrivente CAIA può si proporre l’affidamento esclusivo, ma questo difficilmente potrà essere accolto, qualora non fossero presenti comportamenti di TIZIO contrari all’interesse di ANDREA.
Anzi ben può il giudice ritenere la sua richiesta volta ad ostacolare la frequentazione dell’altro genitore, escludendogli l’affido.
CAIA può, invece proporre un esercizio separato della potestà.
In merito all’ascolto di ANDREA, il giudice per quanto obbligato all’ascolto, può ritenerlo incapace di discernimento sia a causa della patologia di cui è affetto che per la sua tenera età (non avendo compiuto gli anni dodici).