a cura del dott. Domenico CIRASOLE
Il caso in esame ci propone un caso debito ereditario di circa euro 600.000,00 dei sig. CAIO (defunto) e SEMPRONIA (coniuge).
Il debito risale a molti anni addietro, realizzatosi con diversi prestiti fatti da TIZIA a CAIO e SEMPRONIA.
CAIO E SEMPRONIA hanno tre figli.
Alla morte di CAIO, la moglie, SEMPRONIA, e due dei tre figli, MEVIA e FLAVIANO, dichiarano a TIZIA di aver ricevuto la somma di euro 600.000,00 e si impegnano personalmente e non a titolo ereditario a restituirla entro una data prefissa.
Il debito alla scadenza non viene estinto, e TIZIA, da prima, procede a richieste stragiudiziali per ottenere la restituzione della somma versata, e dopo, richiede ed ottiene ingiunzione di pagamento in danno di SEMPRONIA, MEVIA, e FLAVIANO per vedere restituita la somma asseritamente ricevuta.
MEVIA E FLAVIANO per meglio attuare un’adeguata linea difensiva dichiarano che nonostante quanto hanno asserito nella promessa di pagamento, non hanno mai chiesto e ricevuto in prestito alcuna somma dalla sig.ra TIZIA.
Per meglio comprendere la questione, a grandi linee affrontiamo gli istituti che lo regolano.
La morte della persona determina nell’ordinamento giuridico il problema della destinazione da dare ai beni e, più in generale, ai rapporti che alla persona facevano capo.
Che taluni rapporti non possano continuare al di là della vita del soggetto è agevole a comprendersi.
Alla morte è collegata la vicenda che va sotto il nome di successione a causa di morte.
Si parla di successione a causa di morte poiché è la morte il fatto che determina il trasferimento dei beni e il passaggio dei rapporti.
Con l’espressione successione a causa di morte si intende la vicenda traslativa di tutti i rapporti giuridici attivi e passivi, di una persona a seguito della sua morte, in forza della quale, il delato, a seguito dell’accettazione, subentra nella titolarità del complesso (o di una quota) dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al de Cuius, ed assume la qualità di erede (successione a titolo universale).
Il principio soffre alcune eccezioni, sia perché vi sono rapporti patrimoniali che si estinguono alla morte del titolare, e sia perché possono trasmettersi a causa di morte alcuni rapporti di natura non patrimoniale.
Il testamento non può pregiudicare «i diritti che la legge riserva ai legittimari».
La successione per legge si verifica quindi in caso di inefficienza totale o parziale della regolamentazione dei propri interessi per dopo la sua morte da parte del titolare, oppure in caso di sua disattenzione totale o parziale verso determinati soggetti (coniuge, discendenti, ascendenti) cui la legge riserva quote determinate e che definisce legittimari.
Dall’art. 457 e dagli artt. 553 e 556 si individua la successione, testamentaria e legale.
All’interno di quest’ultima, vi sono due specie quella ab intestato e l’altra necessaria.
Perché si apra la successione necessaria deve riscontrarsi 1) una lesione della quota riservata; 2) vi deve essere una dichiarazione giudiziale di inefficacia delle liberalità lesive.
Mentre per l’apertura della successione ab intestato basta che manchi in tutto o in parte il testamento.
Distinzioni e interrelazioni tra le successioni necessaria, intestata e testamentaria non sempre sono chiare.
Secondo la dottrina la necessaria si aprirebbe tutte le volte che l’acquisto ereditario risulti limitato alla quota loro riservata dalla legge quindi non soltanto quando vi sia lesione di legittima.
La successione si apre al momento della morte della persona, nel luogo del suo ultimo domicilio (art. 456). È importante fissare il momento della morte, in ragione delle disposizioni che fanno riferimento al tempo dell’apertura: in ordine alla capacità di succedere delle persone fisiche (art. 462), alla prescrizione del diritto di accettare l’eredità (art. 480, 2° co.), all’esercizio del diritto alla separazione dei beni ereditari (art. 516), alla continuazione del possesso in capo all’erede (art. 1146).
La delazione di un’eredità non è di per sé sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede perché a tale effetto è necessaria anche l’accettazione da parte del chiamato mediante aditio, oppure per effetto di pro herede gestio, oppure, per la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c.
Solamente al delato sono attribuiti, oltre al diritto di accettare l’eredità, i poteri di cui all’art. 460 c.c.
Alla stregua del secondo comma dell’art. 479 c.c., se più siano gli eredi del chiamato e tutti accettino la delazione trasmessa, l’eredità sarà acquistata in proporzione alle rispettive quote di loro spettanza.
Alla vedova consegue complessivamente, metà a titolo di divisione della comunione legale, e sul rimanente, che forma l’eredità del coniuge, ancora metà o un terzo.
L’accettazione del chiamato rappresenta l’ultima fase del procedimento successorio, l’attività cioè che determina la successione.
L’accettazione può essere espressa o tacita (art. 474 c.c.).
L’eredità può essere accettata puramente e semplicemente o col beneficio d’inventario (art. 470, 1° co., c.c.).
L’accettazione con beneficio d’inventario è espressa ed è soggetta alle forme di cui all’art. 484 c.c..
La differenza tra i due tipi di accettazione sta nel fatto che, a seguito di accettazione pura e semplice, l’erede subentra nei debiti del de cuius, rispondendone illimitatamente; con quella beneficiata, l’erede risponde dei debiti e dei pesi ereditari nei limiti del valore dell’eredità, e non con il proprio patrimonio personale.
La dichiarazione deve essere preceduta o seguita dall’inventario, nelle forme prescritte dal codice di procedura civile (art. 484, 3° co., c.c.).
Dispone l’art. 490 c.c. che l’effetto del beneficio d’inventario consiste nel tener distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede.
Conseguentemente: a) l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto, tranne quelli che si sono estinti per effetto della morte; b) l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legatari oltre il valore dei beni a lui pervenuti; c) i creditori dell’eredità e i legatari hanno preferenza sul patrimonio ereditario di fronte ai creditori dell’erede.
Dal terzo comma dell’art. 480 c.c. si ricava che la prescrizione del diritto di accettare l’eredità è decennale.
L’inosservanza delle prescrizioni dell’art. 485 c.c. comporterà un’ipotesi di acquisto (puro e semplice) dell’eredità senza accettazione.
Le disposizioni di cui agli artt. 752, 754 e 1295 cod. civ. prevedono la parziarietà delle obbligazioni dei coeredi e la sostituzione, per effetto dell’apertura della successione, di una obbligazione nata unitaria con una pluralità di obbligazioni parziarie.
Ciascun erede risponde soltanto della sua quota, in quanto è titolare di una quota di beni ereditari, e l’obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione alle quote ereditarie.
Non soddisfare un obbligo del defunto è ritenuto indebito oggettivo o ex re.
Sorge in capo al creditore del defunto, il diritto alla restituzione di quanto prestato.
In materia di ripetizione di indebito oggettivo, incombe sull’attore (il solvens o il suo erede) l’onere di dimostrare i fatti costitutivi del preteso diritto alla restituzione di quanto prestato.
L’azione di ripetizione si fonda sull’inesistenza di una valida causa dell’attribuzione patrimoniale eseguita dal solvens a favore dell’accipiens.
Qualora per soddisfare quest’obbligazione ereditaria, vi sia un rafforzamento dato da una promessa di pagamento ( art. 1988 c.c.), questa dispensa il promissario dall’onere di provare il rapporto fondamentale della promessa, presumendone la sua esistenza fino a prova contraria.
La promessa di pagamento, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi, in forza dell’art. 1988 c.c. un’astrazione meramente processuale della "causa debendi", comportante una semplice "relevatio ab onere probandi" per la quale il destinatario della promessa è dispensato dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (Cass. 11 dicembre 2000, n. 15575; Cass. 9 febbraio 2001, n. 1831; Cass. 10 agosto 2002, n. 11426).
Conseguentemente, l’onere di provare la mancanza del titolo giustificativo della solutio, deriverebbe dal fatto che la presunzione determina un’inversione dell’onere della prova.
L’inversione dell’onere probatorio si limita alla sola sussistenza del rapporto causale sottostante alla promessa.
L’attore deve provare l’inesistenza di un titolo giuridico giustificativo del pagamento. L’attore deve provare che nulla era dovuto.
Deve allora provare che non concluse vendite, non concluse locazioni, non interruppe indebitamente trattative contrattuali, non diffamò, non usurpò, non molestò, non ebbe rapporti societari di fatto, non vide sorgere a suo carico obbligazione.
L’attore, deve quindi provare l’inesistenza del titolo o causa del pagamento.
Il caso in cui accanto ad un debitore principale vi sia un ulteriore rapporto obbligatorio fa pensare ad una delegazione di pagamento.
Infatti la delegazione passiva può avere ad oggetto sia una promessa di futuro pagamento (delegatio promittendi, con funzione creditoria), sia un pagamento immediato (delegatio solvendi o dandi, con funzione solutoria); può assolvere, quindi, sia alla finalità di predisporre un futuro adempimento e di rafforzare il rapporto obbligatorio, aggiungendovi un nuovo debitore (delegato) con posizione di obbligato principale accanto al debitore originario (delegante), la cui obbligazione diventa, peraltro, sussidiaria (delegazione c.d. cumulativa), sia alla finalità di rendere possibile l’adempimento, in atto, di un’obbligazione già scaduta, ad opera di un terzo (delegato) anziché ad opera del debitore (delegante), con funzione immediatamente solutoria. Attesa la struttura unitaria della delegazione, che è composta di un rapporto unico con tre soggetti e due rapporti sottostanti, debbono sussistere, per gli effetti delegatori, due condizioni, e cioè che il delegante sia creditore del delegato e debitore del delegatario, e che il delegato abbia assunto l’obbligo di pagare a quest’ultimo il debito del delegante; la formazione del negozio giuridico di delegazione può essere anche progressiva e non contestuale, senza che ciò faccia venir meno la unicità del rapporto. (Cass. civ., 12/03/1973, n.676)
L’ipotetica astrattezza della delegazione non si traduce in alcun modo in una sua necessaria gratuità, operando i due concetti su piani affatto distinti". L’astrattezza infatti costituisce una mera qualità della delegazione che si traduce nella impossibilità per il delegato di opporre al delegatario le eccezioni attinenti ai rapporti sottostanti; mentre la gratuità attiene alla causa del contratto e ne è quindi un elemento costitutivo.
Degli artt. 1268 – 1270 C.C., si evince che la delegazione ben possa essere realizzata attraverso una pluralità di distinti negozi bilaterali e unilaterali – dotati ciascuno di una propria causa – pur se tra loro finalisticamente collegati: l’incarico delegatorio, come accordo tra delegante e delegato, non postula il consenso del delegatario; all’atto di assegnazione, come accordo tra delegante e delegatario, ben può rimanere estraneo il delegato; infine la promessa del delegato, come atto unilaterale, si perfeziona con la relativa dichiarazione di volontà ed è efficace – art. 1334 C.C. – dal momento in cui perviene a conoscenza del delegatario.
Qualora a garanzia di un’obbligazione ereditaria viene effettuata una promessa di debito, da parte degli eredi, con una della parte principale questa è da intendere come ricognizione di debito titolata, se vi sono riferimenti espliciti al rapporto sottostante tale da dare prova del prestito di denaro eseguito.
In materia di promesse unilaterali l’art. 1987 c.c. stabilisce che la promessa unilaterale di una prestazione non produce effetti obbligatori al di fuori dei casi ammessi dalla legge.
Il successivo art. 1988 c.c. prevede che la promessa di pagamento o la ricognizione di debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (Inversione dell’onere della prova in "colui a favore del quale la promessa è fatta -art. 1334 c.c.-Cass. 10253/1994; Cass. 130/1998; Cass. 9530 e 15575/2000).
La dimostrazione dell’esecuzione del contratto, deve provare la dazione del danaro e che tale consegna era stata effettuata per un titolo che ne implicava l’obbligo di restituzione da parte del de cuius. Solo tale scrittura integra una promessa di pagamento titolata.
In altre parole nonostante la promessa, e quindi l’obbligazione, bisogna sempre accertare il fondamento della pretesa, cioè si deve accertare che il credito risulti fondato a sufficienza da elementi probatori.
Nulla deve l’erede per il pagamento dei debiti del de cuius, se non è provata la qualità di erede, che non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, ma consegue solo alla accettazione della eredità, che può essere espressa o tacita.
Gli eredi del debitore rispondono del debito del de cuius in proporzione delle rispettive quote senza vincolo di solidarietà, ai sensi degli artt. 752 e 754 cod. civ..
Tuttavia se il creditore del de cuius, o gli eredi del de cuius facciano esplicito riferimento alla qualità di eredi, con l’indicazione del titolo ereditario, come causa della obbligazione dedotta, è idonea ad escludere che il creditore abbia voluto esporre i coeredi alla responsabilità solidale ultra vires per l’intero debito.
Nella fattispecie concreta in esame si rileva che la promessa di debito fatta da MEVIA e FLAVIANO mancano di un rapporto sottostante.
Quindi essi devono provare che nulla loro devono a TIZIA (art. 1988 c.c.), in quanto mai e già mai, essi percepirono alcuna somma da essa, ne a titolo di prestito, ne a titolo di donazione, ne a titolo di pagamento.
In altre parole sorge a carico di MEVIA e FLAVIANO l’onere della prova.
Essi devono dimostrare che non vi fosse alcun rapporto giustificativo dell’attribuzione patrimoniale in quanto inesistente nei loro confronti.
Infatti se pure volessimo considerare il debito cosi come dichiarato nella promessa, l’unica vera debitrice, era, e rimane, SEMPRONIA, coniuge di CAIO.
Essa era obbligata in solido con CAIO.
La solidarietà passiva scaturisce dalla contestuale presenza di comunanza del debito tra più dei debitori e l’identica causa dell’obbligazione.
Quindi TIZIA, può rivolgere le proprie pretese di ripetizione di quanto prestato, solo nei confronti di SEMPRONIA.
Infatti il riconoscimento del debito fatto da uno dei debitori in solido non ha effetto riguardo agli altri (art.1309 c.c.).
Tale è da considerarsi la promessa di debito fratta da SEMPRONIA.
Infatti con essa, SEMPRONIA ha riconosciuto il suo debito verso TIZIA.
Non cosi è accaduto per MAEVIA e FLAVIANO che hanno riconosciuto un prestito che iure proprio non è mai avvenuto.
Ritornando a MEVIA e FLAVIANO, dimostrata l’inesistenza del rapporto sottostante alla promessa, non sono più responsabili solidalmente con SEMPRONIA ex art. 1292 c.c..
Su di loro sorge solo una contribuzione alle obbligazioni del de cuius in proporzione delle rispettive quote ereditarie, solo se accettate con beneficio d’inventario.
Gli eredi del condebitore solidale rispondano dei debiti del defunto in proporzione alle rispettive quote (C. 4155/89).
Peraltro, osserva la giurisprudenza, con la morte del debitore in solido non cessa il vincolo di solidarietà, ma si determina un frazionamento pro quota dell’originario debito del de cuius fra gli aventi causa, nel senso che ciascun erede rimane obbligato solidalmente con i debitori originari fino a concorrenza della propria quota ereditaria (è C. 13291/99; C. 785/98; C. 771/83).
Il coerede che ha pagato oltre la parte a lui incombente può ripetere dagli altri coeredi soltanto la parte per cui essi devono contribuire a norma dell’articolo 752, quantunque si sia fatto surrogare nei diritti dei creditori ( art. 754 c.c.).
Quindi alla sig. SEMPRONIA, estinto il debito nei confronti di TIZIA, può in seguito esercitare il regresso verso gli altri coeredi ex art. 752 c.c.
A parere dello scrivente SEMPRONIA, MEVIA, e FLAVIANO devono proporre opposizione al decreto ingiuntivo di pagamento, avanzato da TIZIA, adducendo come motivo la mancanza della sussistenza del rapporto sottostante, delle promesse fatte da MEVIA e FLAVIANO.
Il decreto ingiuntivo dovrà considerarsi affetto da nullità avendo condannato ciascuno degli eredi al pagamento della intera somma non specificando nel modo più assoluto le quote imputabili a ciascun erede proporzionalmente alla propria quota come richiamato dall’art. 752 c.p.c..
Infatti con l’opposizione al decreto ingiuntivo, si intende permettere il riconoscimento del debito da parte, a titolo successorio da parte di SEMPRONIA, e non a titolo personale.
Il vantaggio e che gli eredi risponderanno solo in proporzione della propria quota.
Ma possiamo ipotizzare anche che gli eredi possano anche decidere di non accettare l’eredità qualora il debito fosse maggiore del lascito.
Inoltre, qualora il terzo figlio avesse accettato l’eredità, anch’egli è costretto con la propria quota a contribuire all’obbligazione del de cuius.
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