Parere legale motivato di diritto penale Responsabilità oggettiva della P.A., quale gestore e custode di demanio pubblico (responsabile del controllo delle acque portuale), per i danni cagionati dalle cose in custodia (insidia da basso fondale)

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessato Tizio, che partito a bordo del proprio motoscafo dal porto di Bari, si arenava a breve distanza dal porto di Trani. L’incidente si era verificato a causa di una secca non rilevata sulle carte nautiche ufficiali e comunque non visibile né segnalata.
I porti sono quei tratti di costa, naturali ed artificiali, idonei ad offrire rifugio ed agevolare l’approdo delle navi al riparo dai venti e dalle onde. Nell’impianto codicistico prevale la concezione del porto come infrastruttura, come bene pubblico soggetto alla particolare disciplina dei beni demaniali. L’art. 28 c.n., include i porti tra i beni del demanio marittimo (art. 822 c.c.) e l’art. 35 c.n. ne individua l’elemento di qualificazione nella “utilizzabilità” per i “pubblici usi del mare”(difesa nazionale, navigazione, traffico marittimo, pesca e altre attività connesse). Dal combinato disposto di tali disposizioni discende che è la stessa soggezione ad un pubblico uso che giustifica l’inclusione dei porti nella categoria dei beni demaniali.

Di fronte all’assenza di una definizione giuridica di porto, si è tentato di ricostruirne la nozione ora facendo riferimento al profilo squisitamente fisico (tratto di mare chiuso, atto al rifugio, all’ancoraggio, all’attracco delle imbarcazioni, caratterizzato dalla presenza di elementi naturali e artificiali), ora ponendo sempre più l’accento sull’aspetto funzionale e quindi sulle attività economiche che si svolgono al suo interno, volte alla prestazione di servizi.

La legislazione in materia portuale classifica i porti in due categorie, la prima per i porti militari e la seconda per quelli di rilevanza economica (internazionale,nazionale e regionale, interregionale). La normativa richiamata si limita, tuttavia, a sancire l’appartenenza dei porti al demanio necessario, senza comunque offrire una nozione legislativa di porto. Neppure la legislazione speciale in materia portuale ha contribuito a fornire una definizione giuridica del bene-porto.

Il recente D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 2036 (traducendo quasi ad litteram quella contenuta nella Direttiva del 2005/65/CE) ha introdotto una precisa definizione di porto come “specifica area terrestre e marittima, intesa ad agevolare le operazioni commerciali e di trasporto marittimo. Mentre le rade sono zone di mare normalmente prospicienti o prossime al porto, ma anche di mare aperto, che offrono la possibilità di una sosta temporanea alle navi in quanto al riparo dai venti e dai marosi.

Chiarito ciò, occorre chiedersi cosa debba allora intendersi per “ambito portuale”, e se si tratti di un concetto diverso da quello di “area portuale”. Ebbene, l’ambito portuale di cui alla legge di riforma dei porti sembrerebbe più ampio, sotto il profilo spaziale, non solo del “porto”stricto sensu, ma talvolta anche delle singole “aree portuali” propriamente dette, comprendendo al suo interno sia l’uno che le altre, ma potendo racchiudere anche altre zone più periferiche. Che il concetto di “ambito portuale” sia molto ampio e onnicomprensivo, peraltro, si evince dallo stesso tenore dell’art. 18 della legge 84 del 1994, laddove prevede che siano soggette a concessione gli specchi acquei esterni in quanto anch’esse da considerarsi a tal fine ambito portuale, purché interessate dal traffico portuale e dalla prestazione dei servizi portuali.
Perché l’ambito portuale possa ricomprendere anche queste aree esterne, è stata quindi posta questa limitazione di natura funzionale.
Ebbene, dal momento che l’art. 5 della legge n. 84/94 prevede che sia oggetto di pianificazione l’“ambito portuale”, mentre l’art. 6, comma 7, si riferisce alla “circoscrizione” quale spazio nella quale si esercita la giurisdizione dell’Autorità Portuale, non è detto che il primo coincida sempre con la seconda, potendo l’ambito comprendere porzioni del territorio esterne alla circoscrizione.

La certezza dei confini delle zone portuali è di fondamentale importanza per la legittimità di qualsivoglia provvedimento.

A seguito del nuovo quadro normativo il Comune è oggi titolare delle funzioni amministrative sul demanio marittimo, incluso quello portuale, che il Codice della Navigazione affidava alle Capitanerie di Porto e che consentono all’Ente Locale, l’amministrazione diretta dei beni demaniali marittimi. Diverse Regioni, con diverse leggi regionali, hanno conferito ai propri Comuni costieri l’esercizio di tutte le funzioni amministrative relative al demanio marittimo, intendendosi per beni demaniali quelli elencati nell’art. 822 del c.c. e 28 del codice della navigazione e cioè il lido del mare, la spiaggia, i porti, le rade, le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare.

Ciò altro non è che il risultato del nuovo assetto costituzionale che, introduce una profonda ridislocazione di poteri dal centro alla periferia, e che hanno aperto la strada al potenziamento delle autonomie.

Quindi nelle Regioni a Statuto ordinario, a seguito del conferimento dei poteri amministrativi in capo alle Regioni, avvenuto ad opera dell’art. 105 del D.lgs. n. 112/98, la gestione amministrativa del demanio marittimo è ormai di competenza Regionale o, per subdelega ex art. 42 del D.lgs n. 96/1999, Comunale, salve rare ipotesi di competenza statale.

Le Regioni e i Comuni destinatari della riforma sono oggi chiamati a svolgere funzioni nuove. Molti Enti locali, nell’esercizio concreto delle funzioni concessorie, oltre ad essersi autolimitati, nel senso di aver adottato mediante apposite delibere comunali propri criteri direttivi si sono, altresì, legittimamente dotati di strumenti urbanistici demaniali.

Tra le varie funzioni nuove della Regione e dei Comuni vi è la funzione propria degli Enti Nazionali addetti al coordinamento della carta nautica, che è redatta non dalla regione, ma dalla Marina Militare, e dal’Ente cartografico di Stato.

La cartografia ufficiale proviene dalla Marina militare" (per il fatto stesso di dover essere unitaria ed aggiornata) alla quale va il compito di "redigere le carte nautiche ufficiali" sia marine, sia lacustri e fluviali. La Legge quadro 68/60 che detta “norme sulla cartografia ufficiale dello Stato e sulla disciplina della produzione e dei rilevamenti terrestri e idrografici” prevede che gli organi cartografici dello Stato siano l’Istituto geografico militare, l’Istituto idrografico della Marina, la Sezione fotocartografica dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, l’Amministrazione del catasto e dei servizi tecnici erariali, il Servizio geologico.
La cartografia ufficiale dello Stato è costituita dalle carte geografiche, topografiche, corografiche, nautiche, aeronautiche, catastali e geologiche pubblicate da un ente cartografico dello Stato e dall’ente stesso ente ufficiale dichiarate.

Ma la Regione e i Comuni quali enti pubblici dovrebbero conoscere la discrasia tra i dati reali e quelli indicati nella carta, e comunque dovrebbero segnalare nelle carte nautiche, il punto in cui un fondale è meno profondo.

L’assenza di detta indicazione, crea i presupposti di un’insidia a cui nessuno può sfuggire.
L’inerzia colposa delle Regioni o dei Comuni, consiste nell’omessa segnalazione del pericolo, ed a nulla rileva l’impossibilità nel caso concreto di una vigilanza continua sul bene, date le sue dimensioni e caratteristiche.

Sorge così una responsabilità per danni da beni di proprietà della Pubblica amministrazione, a cui consegue una presunzione di responsabilità per i danni cagionati dalle cose che si hanno in custodia vedendo applicata la disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ..

Qualora invece sia accertata in concreto l’impossibilità dell’effettiva custodia del bene, a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di uso da parte di terzi, l’ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall’utente, secondo la regola generale dell’art. 2043 cod. civ., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un’insidia o di un trabocchetto. Conseguentemente, secondo i principi che governano l’illecito aquiliano, graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene, che va considerata fatto di per sé idoneo – in linea di principio – a configurare il comportamento colposo della P.A., mentre incomberà a questa dimostrare i fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo (Cass. 6 luglio 2006, n. 15383).

Non è superfluo aggiungere che siffatto ordine di idee ha, a suo tempo ricevuto il significativo avallo della Corte costituzionale la quale, chiamata a scrutinare la conformità con gli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione degli artt. 2051, 2043 e 1227 cod. civ., ha ritenuto infondato il dubbio proprio in ragione della aderenza ai principi della Carta fondamentale del nostro Stato all’interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità ( Corte cost. n. 156 del 1999). Questa sentenza si pone sulla scia di precedenti interventi della Corte di Cassazione, tendenti a eliminare i privilegi tuttora concessi alla Pubblica Amministrazione nei rapporti con i privati, in vista di un progressivo innalzamento del grado di responsabilizzazione degli Enti Pubblici. Da quel momento la regola generale contenuta nell’art. 2043 c.c. ha svolto una funzione residuale nei casi di responsabilità della P.A. per danni causati da beni demaniali, in quanto richiamata solo in via subordinata rispetto all’art. 2051 c.c.

In concreto e allo stato attuale del diritto e della giurisprudenza, nonostante l’art. 2043 c.c. dovesse rappresentare una sorta di “rete di sicurezza” per tutti quei casi che non rientravano nella fattispecie dell’art. 2051 c.c., l’utilizzo della norma è stata molto limitata.

I giudici di legittimità hanno negli anni affermato che l’art. 2043 c.c. non limita ai soli casi di insidia e trabocchetto la responsabilità della pubblica amministrazione; inoltre hanno affermato il principio di diritto al quale il giudice di prime cure dovrà attenersi. Infatti graverà sul danneggiato il solo onere di provare l’anomalia del bene demaniale, che costituisce fatto di per sé idoneo a configurare un comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade conseguentemente l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità.

E’ evidente che l’introduzione dell’elemento dell’insidia o trabocchetto restringeva notevolmente l’ambito di operatività del principio contenuto nell’art. 2043 c.c., in quanto si poneva a carico del privato cittadino il dovere di evitare, per quanto possibile, ogni situazione di pericolo che possa eventualmente presentarsi durante la fruizione degli spazi di demanio pubblico. Infatti il danneggiato doveva dimostrare che il danno non era visibile o prevedibile, prova non facile da raggiungere e che spettava alla difesa della P.A. di puntare sulla negligenza o disattenzione del danneggiato per sottrarsi completamente alla richiesta di risarcimento o per concludere il contenzioso con la dichiarazione di un concorso di colpa ex art. 1227 c.c.

In seguito alle fondamentali sentenze 20 Febbraio 2006 n. 3651 e 14 Marzo 2006 n. 5445 della Cassazione civile, sezione III, il soggetto che lamenti un danno, e ne chieda il risarcimento ai sensi dell’art.2043 c.c. (e non ai sensi dell’art.2051 c.c.), sarà tenuto a provare i consueti elementi strutturali dell’illecito e in particolare l’esistenza di un’anomalia del bene demaniale idonea a configurare il comportamento colposo della P.A..
Non sarà, invece, tenuto alla prova della sussistenza dell’insidia o trabocchetto, restando in capo alla P.A. l’onere della prova dei fatti cd. impeditivi (ossia la prova dell’inesistenza della predetta anomalia, della visibilità e prevedibilità di essa etc.) con la conseguenza che la P.A. sarebbe responsabile di ogni danno causato dal bene di cui è custode, in quanto esercente su di esse un diritto di proprietà, a meno che tali danni non possano essere effettivamente ricondotti ad eventi fortuiti.

Con la sentenza n. 8692/2009 viene ribadito il concetto che la responsabilità della Pubblica Amministrazione non è limitata ai soli casi di insidia e trabocchetto, e che nell’ottica di una effettiva parità in ambito giurisdizionale tra Enti pubblici e soggetti privati, la circostanza che soggetto responsabile sia la pubblica amministrazione non modifica gli oneri probatori propri della regola generale ex art. 2043 c.c..

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 8692/2009 si pronuncia in tema di onere della prova nel caso di danno cagionato da un’insidia costituita da rocce semi-affioranti in un lago e non indicate nella carta nautica ufficiale.

Il ricorrente, chiedeva il risarcimento dei danni subiti al motoscafo di sua proprietà a causa della collisione con un basso fondale non segnalato. La Cassazione ha stabilito che l’ente nel cui territorio ricade il lago (Regione), garante della sicurezza della navigazione, risponde, in via di principio, verso i terzi della discrasia tra dato reale e risultanze cartografiche.

Concludendo alla luce di questa ultima sentenza, Tizio a parere di chi scrive, è legittimato a chiedere all’ ente pubblico territoriale (in via principale alla Regione Puglia, ed in via subordinata al Comune di Trani) su cui ricade la gestione, e la custodia, il risarcimento degli ingenti danni riportati dal proprio motoscafo, non essendo la secca nè visibile, nè segnalata, e ciò tanto più che la carta nautica ufficiale indicava in quel punto un fondale profondo, laddove questo si era rivelato molto più basso, dovendo provare l’esistenza della secca, quale causa dei danni riportati alla propria imbarcazione.

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