a cura del dott. Domenico CIRASOLE
La questione giuridica in esame vede interessati la sig.ra MEVIA ed il figlio TIZIO, che chiedono all’AUSL di risarcire, i danni materiali e morali, oltre rivalutazione monetaria e interessi, conseguenti al decesso del proprio congiunto FLAVIANO, sottoposto ad intervento chirurgico di simpaticectomia lombare farmacologica.
A seguito del predetto intervento chirurgico, MEVIA ed il figlio TIZIO, ritengono sia stato perforato il tratto protesico dell’aorta del sig. FLAVIANO, a causa della assoluta inidoneità delle parti sintetiche dell’aorta, causando una emorragia sviluppatasi nell’arco di tre giorni che poi aveva condotto all’infarto e, quindi, alla morte del paziente.
Gli stessi ritengono dunque che i sanitari dipendenti dall’AUSL, erano incorsi in gravi omissioni e imperizie.
Detta responsabilità, non può essere che essere accertata, in seguito a CTU.
Certamente si conosce la situazione clinica del sig. FLAVIANO che era caratterizzata da più elementi, sintetizzabili in arteriosclerosi grave pluridistrettuale, pregresso infarto miocardio ventri colare sinistro, pregresso intervento di protesi vascolare arteriosa aortoiliaca, in soggetto con diabete mellito ed ipertensione arteriosa.
Considerato ciò, è dunque rilevante, l’attività dell’operatore, operatore nell’influire nel determinismo dell’evento mortale che derivò da un deficit coronario responsabile del secondo infarto con un difetto irrorativo da ipotensione.
Ovvero il secondo infarto è stato determinato da uno stato ipovolemico di tale gravità da indurre un deficit coronario produttivo dell’infarto del miocardio.
Si tratta pur sempre di mera ipotesi, che deve essere confermata, come detto, da CTU, ovvero da autopsia del cadavere di FLAVIANO.
Vi è sempre la possibilità che le predette lesività aortica (protesi vascolare arteriosa aortoiliaca) abbiano potuto avere efficienza concausale nel determinismo dell’infarto cardiaco causativo la morte del FLAVIANO, non escludibile in linea puramente teorica, e non dimostrabile quindi affermata con certezza.
In altri termini l’attività dell’operatore, deve confrontarsi con l’appena citata lesività aortica, e quindi non può essere indicata con assoluta certezza come quella che effettivamente determinò – o concorse a determinare – l’insorgenza della cardiopatia ischemica causativa la morte del FLAVIANO.
Premesso che il debitore che non esegue esattamente la prestazione (art. 1218 c.c.), è tenuto al risarcimento, in tema di responsabilità professionale del medico ove sia dedotta una responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero e/o del medico per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è a carico del danneggiato solo la prova del contratto (o del contatto) e la prova dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie) e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, restando a carico di questi ultimi la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile (Cass. 11 novembre 2005, n. 22894; Cass. 9 novembre 2006 n. 23918; Cass. 24 maggio 2006, n. 12362; Cass. 28 maggio 2004 n. 10297).
Il totale insuccesso di un intervento di routine e nei casi in cui dall’intervento sia derivata una menomazione più gravosa di quella che era lecito attendersi da una corretta terapia, è altamente probabile che sia conseguenza dell’inesatto adempimento della prestazione (o di colpevole omissione dell’attività sanitaria dovuta) che, prova così la relazione causale.
Quindi il creditore che agisce per il risarcimento del danno conseguente al dedotto inadempimento della obbligazione deve solo provare la fonte negoziale (o legale) del suo diritto ed allegare l’inadempimento del suo debitore (Cass., sez. un. 30 ottobre 2001, n. 13533).
Ora, l’oggetto della obbligazione di cui si discorre è quello di una attività medica professionalmente adeguata che va dimostrata con la prova della conformità del comportamento tenuto a quello esigibile.
Nel caso concreto, grava sul professionista e sulla struttura sanitaria, (cass.civi 9 novembre 2006, n. 23918, e 28 maggio 2004, n. 10297) la prova della conformità del comportamento.
In altri termini, il nesso di causalità consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio “più probabile che non”.
In tema di responsabilità civile dunque si deve accertare separatamente dapprima la sussistenza del nesso causale tra la condotta illecita e l’evento di danno, e quindi valutare cuccessivamente se quella condotta abbia avuto o meno natura colposa o dolosa.
Conseguenza – quindi – di tale principio non può escludersi la responsabilità del medico qualora il danno non potesse essere con certezza ascritto ad un errore del sanitario, posto che il suddetto nesso deve sussistere non già tra l’errore ed il danno, ma tra la condotta ed il danno, mentre la sussistenza dell’eventuale errore rileverà sul diverso piano della imputabilità del danno a titolo di colpa (Cass. 26 giugno 2007, n. 14759).
Nel caso in specie come accennato sopra, l’esistenza di una pregressa situazione patologica del paziente deceduto che, di per sè sola, potrebbe in tesi ben spiegare l’evento prodotto, ovvero concorrere con un il caso fortuito (cioè errore dei sanitari) sarà indispensabile procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all’uno (situazione patologica) o all’altra ( errore dei sanitari), eventualmente con criterio equitativo.
Come già affermato da risalente giurisprudenza, infatti, deve ritenersi legittimo il ricorso alla applicazione della norma di cui all’art. 1226 c.c., ogni qualvolta per ragioni di giustizia sostanziale, è impossibile addossare tutto il risarcimento del danno al responsabile di una sola porzione di esso (Cass. 6 dicembre 1951, n. 2732, ; Cass. 18 ottobre 1955, n. 3256; Cass. 13 marzo 1950, n. 657).
In particolare qualora la produzione dell’evento dannoso risalga, come a sua causa, alla concomitanza di una azione dell’uomo e di fattori naturali (i quali ultimi non siano legati alla prima da un nesso di dipendenza causale) non si può accogliere la soluzione della irrilevanza di tali fattori.
In tal caso, infatti, è da escludere che l’autore della condotta umana debba necessariamente sopportare nella loro integralità le conseguenze dell’evento dannoso.
Ciò è ribadito dall’art. 2055 c.c., comma 1, (secondo cui “se il fatto dannoso è imputabile a più persone tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno”); dall’art. 1294 c.c. che precisa che i condebitori sono tenuti in solido.
Al riguardo ( Cass. 25 ottobre 1974, n. 3133) si osserva che qualora la condotta imputabile a un unico soggetto abbia agito in concomitanza con forze estranee, ciò, rileva dunque, il concorso di più cause imputabili a soggetti diversi.
Ciò significa in primo luogo che nei rapporti interni fra condebitori è perfettamente legittima, ed anzi doverosa, una scissione del nesso causale nelle sue diverse componenti, secondo l’efficienza dei singoli apporti; ma significa anche che il frazionamento della responsabilità non è estraneo al sistema positivo.
Detto principio è confermato dall’art. 1227 c.c. nella quale vi è il riferimento al caso in cui l’evento letale, sia la conseguenza del concorso della condotta del sanitario con la situazione patologica del soggetto deceduto.
Conclusivamente deve ritenersi che allorchè vi è stato un inadempimento colposo e come non si può concludere con certezza che esso sia la causa dell’evento dannoso e neppure lo si può escludere, anzichè accollare l’intero peso del danno all’uno o all’altro soggetto, è possibile lasciare a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produzione ha concorso a determinare il suo stato e imputare all’altro il peso del danno la cui produzione può avere trovato causa nella condotta negligente sua (Cass. civ. 16-01-2009, n. 975).
In altri termini il medico che ha eseguito l’intervento, e la struttura sanitaria, non sono tenute a risarcire in toto un danno, derivato dalla concausa delle condizioni patologiche del paziente.
Il danno risarcibile, concludendo, deve essere frazionamento equitativamente, tra eventuale condotta negligente del medico, e la situazione patologica del soggetto deceduto.