Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 13 settembre – 9 novembre 2017, n. 26517 Presidente Travaglino – Relatore Rossetti Fatti di causa 1. Ma. Lu. Sp., Ra. Za. e Fr. Za. nel 1994 convennero dinanzi al Tribunale di Viterbo Gi. La., esponendo – per quanto in questa sede ancora rileva – che: (-) a novembre del 1990 Gi. Za. era affetto – come si sarebbe accertato in seguito – da un epitelioma alle mucose buccali; (-) il 14.11.1990 si fece visitare da Gi. La., dermatologo; (-) Gi. La. non solo non si avvide della natura maligna della malattia, ma consegnò al paziente un referto istopatologico nel quale si escludeva la presenza di neoplasie; (-) la malattia, non tempestivamente curata, progredì e condusse a morte Gi. Za., che decedette il 23.8.1991. Dedussero che tale condotta del sanitario fu imperita e negligente, in quanto se egli avesse saputo tempestivamente diagnosticare la malattia, essa si sarebbe potuta curare più prontamente, e più efficacemente. Chiesero la condanna del convenuto al risarcimento dei danni rispettivamente patiti in conseguenza della morte del loro congiunto. 2. Gi. La. si costituì eccependo che: (-) quando il paziente fu da lui visitato non presentava alcuno dei sintomi tipici dell’epitelioma, ma solo una escoriazione della mucosa dovuta alla protesi dentaria; (-) l’unica prestazione medica da lui eseguita fu la sutura della suddetta escoriazione; (-) non aveva mai né disposto, né eseguito, alcun esame istopatologico sui tessuti del paziente; (-) dopo il suddetto intervento non ebbe più occasione di visitare il paziente. 3. Il Tribunale di Viterbo con sentenza 14 gennaio 2003 n. 42 accolse la domanda. La Corte d’appello di Roma, adita dal soccombente, con sentenza 21 maggio 2013 n. 2917 rigettò il gravame. Ritenne la corte d’appello che: (a) la storia clinica del paziente e i sintomi da questi presentati, al momento della prima visita eseguita da Gi. La., avrebbero dovuto indurre quest’ultimo almeno a sospettare la possibilità dell’esistenza d’un epitelioma, ed a disporre quindi esami più approfonditi; (b) era onere del convenuto, in applicazione dei principi sul riparto dell’onere della prova, dimostrare di avere eseguito quell’esame, ovvero di averlo consigliato al paziente, prova che invece mancò. 4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da Gi. La., con ricorso fondato su due motivi; resistono con controricorso Ra. e Fr. Za., anche nella veste di eredi di Ma. Lu. Sp., deceduta nelle more del giudizio. Ragioni della decisione 1. Questioni preliminari. 1.1. Va preliminarmente disattesa la richiesta, compiuta dal Procuratore Generale nella pubblica udienza del 13 settembre 2017, di improcedibilità del ricorso, sul presupposto che ad esso fosse allegata una copia incompleta del provvedimento impugnato. Dall’esame degli atti, infatti, si rinviene allegata al fascicolo del ricorrente una copia integrale del provvedimento impugnato. 1.2. I controricorrenti hanno eccepito l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, sul presupposto che nel caso di cd. “doppia conforme” non è prospettabile in sede di legittimità il vizio di omesso esame del fatto decisivo, ai sensi dell’articolo 348 ter, quinto comma, c.p.c. L’eccezione è infondata. Questa Corte ha già stabilito che le regole sulla cd. “doppia conforme”, di cui all’art. 348 ter c.p.c. si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto che le ha introdotte, ossia ai giudizi introdotti in grado di appello dal giorno 11 settembre 2012 in poi (Sez. 5, Sentenza n. 26860 del 18/12/2014). Il giudizio di appello deciso dalla sentenza oggi in esame, invece, venne introdotto nell’anno 2003, sebbene si sia poi concluso soltanto un decennio appresso. 2. Il primo motivo di ricorso. 2.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 54 D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134). Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare il “fatto decisivo” rappresentato dalla circostanza che causa del decesso del paziente fu il ritardo diagnostico e terapeutico in cui incorsero gli altri medici che, dopo di lui, si occuparono del caso. 2.2. Il motivo è infondato. La Corte d’appello ha esaminato il problema del nesso di causa tra la condotta ascritta al convenuto, e la morte del paziente, a p. 8 della sentenza impugnata, affermando che: “l’esecuzione di un esame istologico [se fosse stato disposto dal convenuto] avrebbe permesso di accertare l’esistenza della malattia molto prima di quanto effettivamente avvenuto”, e soggiungendo che “l’eventuale concorso anche maggioritario dei medici successivamente intervenuti non potrebbe comportare alcuna riduzione dell’obbligo risarcitorio dell’appellante”, in puntuale applicazione dell’articolo 2055 c.c.. La circostanza di fatto costituita dall’esistenza del rapporto di causalità tra la condotta del convenuto, quella degli altri medici che si occuparono del causa, e la morte del paziente, è stata dunque esaminata dalla Corte d’appello, ed il vizio di omesso esame non sussiste. Né, ovviamente, è consentito in questa sede tornare ad esaminare se davvero il convenuto abbia o non abbia fornito un contributo concausale alla produzione dell’evento, trattandosi di questione squisitamente di merito, istituzionalmente sottratta all’esame di questa Corte. 3. Il secondo motivo di ricorso. 3.1. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 2697 c.c.. Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe violato le regole sul riparto dell’onere della prova, poiché: (-) gli attori avrebbero dovuto dimostrare che, al momento in cui il paziente si fece visitare da Gi. La., vi fosse una lesione “ragionevolmente interpretabile come anticamera di una situazione patologica” tumorale, e tale prova era mancata; (-) la Corte d’appello non ha “preso posizione” sul referto datato 10 gennaio 1991, prodotto e poi sottratto dagli atti di causa, il quale era stato da lui disconosciuto, e non era a lui riferibile. 3.2. Il motivo è infondato. Stabilire se determinati sintomi, ad una determinata epoca, siano stati correttamente o scorrettamente interpretati, significa accertare se il medico abbia tenuto una condotta negligente o diligente. Ma l’accertamento della diligenza della condotta del medico forma oggetto dell’accertamento della colpa, ed in tema di responsabilità medica non è onere dell’attore provare la colpa del medico, ma è onere di quest’ultimo provare di avere tenuto una condotta diligente (come questa Corte viene ripetendo da molti anni: per tutti, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 589 del 22/01/1999). 3.3. La corretta applicazione, compiuta dalla Corte d’appello, dei principi sul riparto dell’onere della prova, rende inconsistente anche il secondo profilo di censura. Il ricorrente si ostina a ripetere che gli attori avevano depositato un referto istopatologico a lui attribuito, dal quale risultava una diagnosi benigna, ma che lui non aveva mai sottoscritto quel documento, poi sparito dagli atti. Tuttavia che un referto istopatologico negli atti vi fosse o non vi fosse; ovvero che fosse o non fosse riferibile al convenuto, sono questioni che non toccano la posizione degli attori: gli attori avevano il solo onere di allegare la colpa del convenuto; questi aveva l’onere di provare la propria assenza di colpa. E il convenuto non poteva certo provare l’assenza di colpa limitandosi a disconoscere la sottoscrizione di quel referto istopatologico. Delle due, infatti, l’una: – se il referto esisteva e lui lo firmò, il convenuto è in colpa per avere sbagliato la diagnosi; – se il referto non esisteva, il convenuto è in colpa per non aver suggerito od ordinato esami più approfonditi, ovvero per non avere fornito la prova (per quanto detto, gravante su di lui), che alla data in cui visitò il paziente, questi non presentava alcun sintomo tale da suscitare nemmeno il più piccolo sospetto che fosse affetto da una patologia tumorale. Correttamente, pertanto, la Corte d’appello ha trascurato di esaminare il problema della esistenza dell’autenticità del suddetto referto. 4. Le spese. 4.1. Le spese del presente grado di giudizio vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c, e sono liquidate nel dispositivo. 4.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228). P.Q.M. la Corte di cassazione: (-) rigetta il ricorso; (-) condanna Gi. La. alla rifusione in favore di Ra. Za. e Fr. Za., in solido, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 7.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, D.M. 10.3.2014 n. 55; (-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dall’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30.5.2002 n. 115, per il versamento da parte di Gi. La. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.