Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 03-12-2010) 27-01-2011, n. 3044

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Catanzaro ha confermato la sentenza in data 19 marzo 2008 del Tribunale di Paola, Sezione distaccata di Scalea, appellata da S.A., che l’aveva ritenuto responsabile del delitto di violenza privata per aver costretto le parti offese a rimettere una querela per truffa sporta nei suoi confronti, commesso il (OMISSIS). Propone ricorso per cassazione lo S. sulla base di quattro motivi. Con il primo motivo deduce difetto e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui, da un lato, ritiene insufficienti le fonti di prova di responsabilità per un’ipotesi di violenza privata, consistita in minacce verso le p.o. per indurle a non deporre ad una udienza, e dell’altro afferma la responsabilità penale per le minacce al fine di far loro rimettere la querela. Con il secondo deduce violazione di legge sulla valutazione della prova e violazione dell’art. 500 c.p.p., comma 4, con riferimento all’acquisizione delle dichiarazioni delle p.l., rese in sede di ii.pp. senza un’adeguata motivazione sul ricorrere degli estremi dell’intimidazione per impedire di testimoniare secondo verità; lamenta poi che sia stata data preminenza a dichiarazioni rese da persona ( L.S.) che non aveva avuto cognizione diretta delle cose e le aveva riportate de relato, mentre erano state sottovalutate le dichiarazioni di segno contrario provenienti proprio delle pretese parti lese.

Con il terzo motivo deduce difetto di motivazione sulla qualificazione dei fatti, che si non potrebbero considerare come integranti una violenza privata, ma, al più, un tentativo di violenza privata oppure, meglio, un delitto di minacce, improcedibile per mancanza di querela. Con il quarto motivo deduce difetto di motivazione sul trattamento sanzionatorio ed in particolare sulla richiesta di applicazione delle attenuanti generiche, nonchè sull’applicazione della misura di sicurezza e sulla mancata applicazione dell’indulto. Il ricorso deve essere rigettato.

Non sono fondate le doglianze di natura processuale del ricorrente sulla lettura ai sensi dell’art. 500 c.p.p., comma 4, delle dichiarazioni rese nel corso delle ii.pp. dalle parti lese P. E. e C.R..

Si deve immediatamente rilevare, sul denunciato difetto di motivazione, che l’appello sul punto era talmente generico, avendo addirittura omesso la specifica impugnazione dell’ordinanza del primo giudice nel corso del dibattimento con cui erano state disposte acquisizione e lettura di quelle dichiarazioni, da non rendere necessaria una specifica risposta da parte del giudice d’appello, che è tenuto a dare puntuale riscontro all’impugnazione di merito quando questa evidenzi specifiche circostanze non considerate dal primo giudice.

Nel caso, a fronte della genericità dell’impugnazione, appare sufficiente una motivazione che recepisce in tema di prova e di legittimità delle relative acquisizioni le argomentazioni della sentenza di primo grado che si combinano con quella di secondo grado a formare un unico impianto motivazionale.

L’omessa impugnazione dell’ordinanza impedisce inoltre di valutare la congruità delle acquisizioni dibattimentali da cui il giudice aveva tratto la convinzione del ricorrere degli estremi di applicabilità della norma citata, nè sufficiente in tal senso appare la generica doglianza dell’appellante, riproposta in ricorso, di una mancanza di prove in tal senso, quando poi da tutta la narrativa dei fatti di rilievo per la causa traspare l’estrema difficoltà per i due anziani testimoni – parti lese di mantenere la loro iniziale posizione dibattimentale di negativa, favorevole all’imputato, con oscillazioni tra conferme delle dichiarazioni alla polizia giudiziaria, oggetto di contestazione dibattimentale, e successive smentite, segno inequivoco di influssi esterni che ne avevano condizionato l’atteggiamento processuale.

Infondata anche la correlativa doglianza di erronea valutazione della prova, con particolare accento sull’illegittima utilizzazione di dichiarazioni de relato di un teste.

Invero, risulta sempre dalla narrativa della sentenza di primo grado, peraltro richiamata e fatta propria dal giudice d’appello, che il teste L.S., figlio di P.E., aveva dichiarato di aver ricevuto, nell’imminenza del processo a carico dello S. – originatosi da una querela per truffa presentata dalla P. nei suoi confronti per aver quello ottenuto in suo danno nel 1999, con un raggiro come sedicente mago, la somma di L. 12.000.000 – una telefonata dalla madre dalla quale aveva appreso che aveva incontrato l’imputato il quale l’aveva minacciata anche di morte affinchè rimettesse la querela. Aveva anche avuto conferma della circostanza dal C., convivente della madre. Aveva riscontrato che i due anziani erano particolarmente spaventati e gli avevano manifestato l’intenzione di rimettere la querela in ogni caso. Si deve osservare che la testimonianza del L.S. sulla telefonata e sul contenuto del colloquio con i due anziani è frutto di diretta percezione dei fatti da parte del testimone; che in concreto al dibattimento è avvenuta l’audizione dei testi dei quali erano state riferite le dichiarazioni, non residuando così limitazioni all’utilizzabilità anche della parte di riferimento della testimonianza del L.S.;

che le dichiarazioni dei due testimoni – parti lese sono state sottoposte ad accurato vaglio dibattimentale con le contestazioni, da cui, come risulta dalla sentenza di merito, appariva in tutta la sua evidenza l’inattendibilità delle loro rimeditazioni dibattimentali della vicenda e degli aggiustamenti relativi, a cui ha poi fatto seguito l’acquisizione delle originarie dichiarazioni alla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 500 c.p.p., comma 4, sullo sviluppo dei fatti. In definitiva, il materiale sul quale i giudici del merito hanno fondato la conforme dichiarazione di responsabilità risulta acquisito legittimamente al processo.

E il giudizio di responsabilità del prevenuto, formulato su quelle corrette acquisizioni probatorie, non può essere censurato in questa sede.

Invero, i giudici del merito, con l’indicazione dei tempi dei diversi incontri fra S. ed i due anziani – contraddistinti da un crescendo di minacce – dei ripetuti tentativi dei due di rimettere la querela – inizialmente privi di successo e poi concretizzatisi con un certo ritardo per circostanze del tutto occasionali, fino all’avvenuta remissione dopo aver ricevuto un’ulteriore visita minacciosa da parte del prevenuto, avvenuta appena dopo che la donna aveva manifestato ai Carabinieri la propria intenzione di non rimettere la querela – hanno, compiutamente e con argomentazioni esenti da vizi di logica consequenzialità, ricondotto all’azione minacciosa e ripetuta del prevenuto la finale decisione di rinunciare all’istanza di punizione, nonostante il parere contrario del figlio, ed hanno correttamente qualificato, con adeguata valutazione della prova dei fatti nel loro succedersi temporale, l’azione del prevenuto quale intimidazione direttamente collegabile al successivo comportamento remissivo della p.l., azione quindi da qualificarsi non tanto come una generica minaccia volta a turbare la tranquillità morale, ma come minaccia volta ad ottenere un preciso comportamento della vittima realizzatosi in concreto, con esclusione di qualsiasi possibilità di ravvisarvi un mero tentativo.

A fronte di tale motivazione il ricorso, infondato nelle sue prospettazioni in diritto, appare poi del tutto generico, come d’altra parte era l’appello, nella censura alle valutazioni dei giudici del merito sulla validità dell’impianto probatorio.

Manifestamente infondata anche la doglianza, che seppur articolata quale primo motivo di ricorso pare corretto riscontrare a questo punto, concernente la pretesa illogicità manifesta della sentenza di primo grado che aveva condannato il prevenuto per violenza privata con riguardo alla remissione di querela avvenuta il 1 aprile 2004 ed aveva assolto l’imputato dalla contestazione di aver usato minacce per costringere la P. a non recarsi a testimoniare all’udienza del 25 febbraio 2004 nell’ambito del procedimento per truffa.

Invero, il giudice di merito ha chiaramente evidenziato la mancanza di certa prova che le pur ritenute minacce del prevenuto – sicuramente volte ad ottenere (e con successo) la remissione della querela – fossero state anche indirizzate ad impedire alla donna di recarsi a testimoniare alla sopra indicata udienza del processo per truffa, posto che di quel collegamento non v’era indicazione nelle dichiarazioni del L.S. e nelle dichiarazioni alla polizia giudiziaria di P. e C., e che non v’era prova certa che la mancata comparizione della donna all’udienza avesse trovato origine in un atteggiamento minaccioso dell’imputato a tanto finalizzato.

Nessuna manifesta illogicità è possibile riscontrare nella motivazione di una sentenza che ha invece dimostrato di fare un prudente governo della prova emersa al dibattimento, distinguendo i limiti in cui all’indubitabile comportamento minaccioso dello S. potessero essere, o meno, collegate ripercussioni sul comportamento della p.l., del tutto infondata essendo la pretesa che l’assoluzione per una parte dell’imputazione dovesse travolgere anche la parte, diversa nei suoi estremi di fatto, che risultava adeguatamente provata; nè al giudice d’appello era imposto un dovere di puntuale riscontro di una doglianza del tutto generica, diverso da quello esplicitato, di adesione alle argomentazioni del primo giudice, che l’appello non aveva neppur cercato di scalfire con l’adeguata profondità.

Inammissibile perchè risolventesi in censure su valutazioni di merito, insuscettibili, come tali, di aver seguito nel presente giudizio di legittimità, è infine il quarto motivo, concernente le non concesse attenuanti generiche, la misura della pena, l’applicazione della misura di sicurezza e la mancata applicazione dell’indulto.

Infatti la motivazione dell’impugnata sentenza, nella stessa linea di quella più diffusa del primo giudice, si sottrae ad ogni sindacato per avere adeguatamente evidenziato in senso negativo i suoi precedenti in tema di truffa, nonchè la particolare spregiudicatezza morale manifestata con l’aver agito su persona in condizioni di minorata difesa, la rilevante intensità del dolo dimostrata dall’aver commesso il fatto nel corso del procedimento penale a suo carico per truffa, che lui mirava ad orientare a proprio favore con l’uso della minaccia – elementi sicuramente rilevanti ex artt. 133 e 62-bis c.p. – nonchè per le connotazioni di complessiva coerenza dei suoi contenuti nell’apprezzamento della gravità dei fatti.

Nè il ricorrente indica elementi non valutati in positivo, decisivi ai fini di una diversa decisione, considerato che è stata valutata dai giudici del merito proprio la storia personale e giudiziaria del prevenuto, a cui si riferisce il ricorso, e proprio in relazione alla complessiva personalità dello S. ed al suo comportamento è stato formulato, e ribadito, un giudizio di pericolosità sociale, fondante l’applicazione della misura di sicurezza, solidamente giustificato dal puntuale richiamo alle manifestazioni di sostanziale disprezzo per le regole di civile convivenza che rendevano evidente quella probabilità di ulteriore violazione della norma penale in cui consiste la pericolosità criminale.

Infine, manifestamente infondata è la doglianza relativa alla mancata applicazione dell’indulto, considerato che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 3, sent. n. 25135 del 15/4/2009, Rv. 243907, rie: Renda; conf. S.U. ASN 199502333, Rv.

200262; ASN 19940659, Rv. 198065; ASN 200411851, Rv. 228634; ASN 200437518, Rv. 229716; ASN 200700536, Rv. 235775; ASN 200800179, Rv.

238604) il ricorso per cassazione per la mancata applicazione dell’indulto è ammissibile solo quando il giudice di merito l’abbia erroneamente esclusa, con espressa statuizione nel dispositivo della sentenza, diversamente dovendosi adire, come nel caso di specie, il giudice dell’esecuzione.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali del grado.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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