Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 20 aprile 1994 B.T. e C.C. evocavano, dinanzi al Tribunale di Venezia, L.M. esponendo di essere proprietari di un fabbricato in costruzione, sito in (OMISSIS), denominato Condominio "(OMISSIS)", catastalmente censito al foglio 7, sezione unica, mappali nn. 44-46-325, e di avere stipulato con il convenuto, in data 25.1.1992, contratto preliminare di vendita per unità immobiliare sita nello stabile condominiale (appartamento di civile abitazione, posto al piano 1, scala B, interno 3, composto da ingresso, soggiorno, cucina, bagno, camera, autorimessa nel piano interrato posto all’int. 7 a destra), prevedendo per la consegna "all’incirca entro la data di dicembre 1992" ed il trasferimento della proprietà a ministero del notaio Pascucci "entro 10 giorni dalla convocazione scritta che la parte promittente farà alla parte promissaria", pattuendo il prezzo di L. 110.000.000, di cui L. 15.000.000 versate a titolo di caparra e la residua somma di L. 80.000.000 da versare in successivi acconti, con il saldo al rogito notarile. Aggiungevano che versata dal promissario la caparra e gli acconti, la consegna dell’immobile avveniva – su richiesta del convenuto – agli inizi di febbraio 1993, ma lo stesso non si presentava all’appuntamento fissato avanti al notaio per la stipula del rogito in data 13.10.1993, mentre compariva al successivo appuntamento del 21.10.1993, rifiutando di saldare il prezzo.
Notificatogli diffida ad adempiere comparendo avanti al notaio il giorno 1.12.1993, prospettando in caso contrario la risoluzione del preliminare, il convenuto avviava una trattativa per un preteso risarcimento dei danni da ritardata consegna dell’immobile, rinviando per la stipulazione al 20.12.1993. Anche quest’ultima data non veniva rispettata, per cui con raccomandata del 14.1.1994 gli attori dichiaravano di avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista nel contratto preliminare, ai sensi dell’art. 1456 c.c. Tanto premesso, chiedevano che il giudice adito, previa declaratoria di risoluzione del contratto, condannasse il convenuto alla restituzione dell’immobile detenuto senza titolo, oltre al risarcimento dei danni derivanti dalla detenzione divenuta senza titolo (da commisurare quanto meno al canone di mercato di locazione del bene e agli oneri condominiali versati dai proprietari), da compensare con il debito di restituzione delle rate di prezzo versate, detratta la caparra.
Instauratosi il contraddittorio, nella resistenza del convenuto, che in via riconvenzionale chiedeva la pronuncia di sentenza di trasferimento della proprietà ex art. 2932 c.c. oltre al risarcimento del danno da inadempimento, all’esito dell’istruzione della causa, il Tribunale adito così statuiva:"rimette in termini il convenuto ai sensi dell’art. 1183 c.c. fissando il termine perentorio di mesi tre dalla comunicazione della sentenza per l’adempimento del saldo pattuito oltre interessi legali dalla domanda di adempimento 23.11.1993", e con separata ordinanza rimetteva la causa in istruttoria per le reciproche domande di risarcimento dei danni.
In virtù di rituale appello interposto dal B. e dalla C., con il quale si lamentava l’erroneità della sentenza del giudice di prime cure per avere fissato il termine ad adempiere in violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, non sussistendo peraltro i presupposti per l’applicazione dell’art. 1183 c.c. avendo ritenuto di scarsa importanza l’inadempimento del promissario acquirente, cristallizzatosi per di più al momento della proposizione della domanda di risoluzione, la Corte di appello di Venezia, nella resistenza dell’appellato, che eccepiva l’improponibilità del gravame per acquiescenza, in accoglimento di detta eccezione, dichiarava l’appello improponibile per acquiscienza, con compensazione delle spese del grado.
A sostegno dell’adottata sentenza, la Corte territoriale riconosceva la fondatezza dell’eccezione di acquiescenza totale alla sentenza avendo gli appellanti accettato, senza alcuna riserva, il pagamento del saldo del prezzo effettuato mediante assegno circolare, regolarmente incassato, in conformità a quanto statuito dal Tribunale nella sentenza impugnata, così attuando un comportamento di acquiescenza tacita alla stessa.
La Corte territoriale, inoltre, affermava che la fattiva cooperazione prestata dalla parte creditrice al debitore per rendere possibile il pieno adempimento del suo obbligo (effettuato rimettendo ai promittenti assegno circolare per il saldo, pervenuto il 9.2.2001 e dagli stessi riscosso, senza apporre la benchè minima riserva), proposto l’appello solo successivamente, nel dicembre 2001, andavano ritenute sussistenti le condizioni per ritenere che nella fattispecie la complessiva condotta dei promittenti configurasse una tacita accettazione della pronuncia non definitiva impugnata.
Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Venezia hanno proposto ricorso per cassazione il B. e la C., che risulta articolato su quattro motivi.
Non si è costituito il controricorrente.
I ricorrenti hanno depositato anche memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione di norme del procedimento, ai sensi dell’art. 329 c.p.c., nonchè la violazione di norme di diritto, di cui agli artt. 1362 – 1371 c.c., e l’insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 c.p.c.. Il giudice del gravame avrebbe attribuito ai comportamento tenuto dai ricorrenti con la riscossione dell’assegno circolare un valore che spettava esclusivamente al titolare del diritto e dell’azione proposta manifestare, esplicitamente e inequivocamente, ma che certo non poteva essere desunta dal semplice silenzio circa l’imputazione unilaterale attribuita dal solvens. Inoltre il giudice del gravame nel fondare l’acquiescenza non aveva considerato l’altro comportamento significativo, ossia la mancata stipulazione del rogito notarile, cui l’appellato li aveva, contestualmente al pagamento, invitati.
Con il secondo motivo i ricorrenti deducono il difetto di motivazione della sentenza impugnata su singoli passaggi fondanti la dichiarazione di improponibilità dell’appello per acquiscienza tacita. In particolare, il giudice distrettuale non avrebbe tenuto conto che i ricorrenti proprio con l’atto di appello avrebbero censurato l’efficacia del pagamento del prezzo eseguito dal L. nel termine assegnatogli dalla sentenza, precisando di avere ricevuto il pagamento in conto del risarcimento dei danni richiesti nel giudizio. Con il terzo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per contraddittorietà della motivazione per avere definito la decisione del giudice di prime cure, priva di efficacia esecutiva, quale pronuncia di natura meramente integrativa o sostitutiva della pattuizione negoziale di pagamento del prezzo, per cui la spontanea esecuzione data dagli appellanti comprovava ulteriormente l’acquiscienza prestata alla sentenza. Del resto se anche i ricorrenti avessero rifiutato l’adempimento eseguito dal L., non avrebbero comunque impedito che questi risultasse adempiente, eseguendo l’offerta del pagamento. Con il quarto ed ultimo motivo i ricorrenti denunciano l’incongruenza e la contraddittorietà della motivazione rispetto al principio affermato dalla Suprema Corte secondo cui l’accettazione del pagamento di una somma liquidata da sentenza non costituisce acquiescenza tacita, perchè il mancato rifiuto del pagamento può essere determinato dall’intento della parte di sottrarsi agli effetti della mora credendi. La corte distrettuale, infatti, ha disatteso tale principio pur invocato dagli appellanti.
Le quattro censure vanno esaminate congiuntamente attenendo tutte alla pregiudiziale questione del valore da attribuire all’accettazione del pagamento da parte dei ricorrenti dell’importo corrisposto dal resistente in attuazione di quanto stabilito dal giudice di prime cure.
I motivi non sono fondati nei limiti di seguito indicati.
Dall’esame della vicenda emerge – come la stessa sentenza impugnata riferisce – che i ricorrenti dopo avere inizialmente manifestato la propria intenzione di sciogliersi dal vincolo contrattuale, a seguito della statuizione del giudice di prime cure di "rimette in termini il convenuto ai sensi dell’art. 1183 c.c. fissando il termine perentorio di mesi tre dalla comunicazione della sentenza per l’adempimento del saldo pattuito oltre interessi legali dalla domanda di adempimento 23.11.1993", hanno incassato – senza dichiarazione alcuna – l’assegno circolare emesso dal promissorio acquirente in esecuzione della pronuncia Solo successivamente hanno presentato appello alla decisione giustificando la condotta antecedentemente tenuta con la volontà di non incorrere nella mora credendi. Tutto ciò appare, sul piano logico, poco compatibile con il permanere della precedente volontà di scioglimento del contratto e con l’assunto secondo cui si sarebbe prodotta la definitiva risoluzione del contratto medesimo.
Costituisce, infatti, rinuncia all’effetto risolutivo il comportamento del contraente che, dopo essersi avvalso della facoltà di risolvere il contratto, manifesti in modo inequivoco l’interesse alla tardiva esecuzione del contratto (v. Cass., 11 luglio 2003, n. 10935; Cass., 5 gennaio 2005, n. 167). In tale senso dovendosi interpretare anche qualunque manifestazione della volontà, sia in forma espressa sia in forma tacita, da cui desumere il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia (v, Cass., S.U., n. 8453/1998).
Ciò spiega perchè la dichiarazione dei ricorrenti, successiva all’adempimento del debitore alla propria obbligazione, contenuta solo nell’atto di appello, di non accettare la somma versata a titolo di esecuzione del contratto in contesa, ma ai soli fini risarcitori, stante peraltro il tenore dell’art. 1193 c.c. in tema di imputazione del pagamento, appaia priva di qualunque rilevanza.
La Corte territoriale ha, infatti, rilevato che B.T. e C.C. avevano manifestato con il proprio comportamento concludente una volontà contraria all’intendimento di avvalersi della risoluzione e quindi del gravame, accettando, senza alcuna riserva, la consegna del denaro pacificamente rimesso in esecuzione di quanto previsto nella decisione del Tribunale adito (v. pagg. 7 e 8 della sentenza impugnata). Con la conseguenza che l’accertamento del primo giudice doveva ormai considerarsi definitivo. Del resto costituisce orientamento consolidato di questa corte che il contraente non inadempiente, così come può rinunziare ad eccepire l’inadempimento, può allo stesso modo, rinunciare ad avvalersi della risoluzione già avveratasi per effetto o della clausola risolutiva espressa o dello spirare del termine essenziale o della diffida ad adempiere, come può anche rinunciare ad avvalersi della risoluzione già dichiarata giudizialmente, ripristinando contestualmente l’obbligazione contrattuale, accettandone l’adempimento (v. Cass, 28 giugno 2004, n. 11967; Cass., 1 agosto 2007, n. 16993; Cass., 24 novembre 2010, n. 23824).
Per tutte le considerazioni sopra svolte, deve ritenersi che ci sia carenza di interesse ad impugnare la sentenza di appello e per l’effetto il ricorso va dichiarato inammissibile. Nulla va disposto sulle spese del giudizio di cassazione non essendo parte resistente costituita.
P.Q.M.
LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso.
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