Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 17 marzo 2010 la Corte d’Appello di Palermo, in ciò confermando la decisione assunta dal locale Tribunale in esito al giudizio abbreviato, ha riconosciuto S.G., C. E. e C.G. responsabili del delitto di rissa aggravata da lesioni; ha inoltre affermato la responsabilità dello S. per lesioni volontarie aggravate in danno di C. G., nonchè la responsabilità di C.E. e di C.G., in concorso fra loro e con Co.Gi. giudicata separatamente, per lesioni volontarie in danno di S.G., aggravate dall’uso di un coltello a serramanico e di una spranga di ferro.
Secondo la ricostruzione dei fatti scaturita dal giudizio di merito, l’episodio di cui al processo aveva costituito il seguito di un precedente alterco tra S.G. e Co.Gi.;
era infatti accaduto che lo S., essendogli stato riferito che la Co. aveva insultato il di lui figlio, si fosse immediatamente recato presso l’abitazione della vicina; qui aveva avuto luogo un nuovo diverbio, nel corso del quale la Co. aveva ferito lo S. con un coltello e costui aveva colpito la contendente col casco del proprio motociclo; erano quindi intervenuti C.E. e C.G., armati di una spranga di ferro;
quando ancora era in corso la colluttazione vi era stato l’intervento dei carabinieri.
Hanno proposto separati ricorsi C.G., C.E. e S.G..
I ricorsi dei fratelli C., dal contenuto sovrapponile, sono affidati a tre motivi. Col primo di essi i ricorrenti contestano la configurabilità del delitto di cui all’art. 588 c.p., comma 2, sostenendo di essere intervenuti nella colluttazione al solo scopo di difendere la propria sorella Gi. dall’aggressione dello S..
Col secondo motivo ciascuno dei due ricorrenti si duole della disposta applicazione dell’aumento di pena per la recidiva, deducendo insufficiente motivazione sul punto.
Col terzo motivo entrambi lamentano il diniego delle attenuanti generiche, in base a motivazione di cui denunciano la genericità e l’apoditticità.
Per parte sua lo S. deduce sette motivi di ricorso.
Col primo motivo il ricorrente lamenta che il giudice di merito abbia erratamente negato l’applicabilità dell’esimente della legittima difesa, in una fattispecie nella quale egli non aveva inteso lanciare nè accettare una sfida, ma si era recato presso l’abitazione dei C. soltanto per discutere; trovatosi imprevedibilmente aggredito, sostiene, ha reagito difendendosi con l’unica arma a sua disposizione, cioè col casco del motociclo.
Col secondo motivo, ancora insistendo sulla configurabilità della legittima difesa, nega che la fattispecie sia sussumibile nell’ipotesi di cui all’art. 588 c.p..
Col terzo motivo sostiene doversi escludere l’aggravante di cui al citato art. 588 c.p., comma 2, in quanto la produzione delle reciproche lesioni si è verificata quando ancora i contendenti erano due soltanto; sulla questione, sollevata già nei motivi di appello, denuncia carenza di motivazione.
Col quarto motivo contrasta la qualificazione del fatto come reato di lesioni volontarie, non essendosi verificate a carico della Co. alterazioni anatomiche di apprezzabile entità, tali da dar luogo a una malattia.
Col quinto motivo contesta l’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 585 c.p., non potendosi a suo avviso equiparare il casco ad un’arma impropria.
Col sesto motivo lamenta che non sia stata applicata l’attenuante della provocazione.
Col settimo motivo impugna il giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e le contestate aggravanti, invocando la declaratoria di prevalenza delle prime. Si duole, altresì, della dosimetria dell’aumento di pena per la continuazione e, in generale, della severità del trattamento sanzionatorio adottato nei suoi confronti.
Motivi della decisione
I ricorsi proposti dagli imputati sono infondati nella loro interezza.
I giudici di primo e di secondo grado hanno, in piena assonanza, ricostruito i fatti secondo la sequenza più sopra indicata in narrativa; e dallo svolgimento di essi – così come descritti dai testi presenti all’episodio, Co.Ag. e P. I. – hanno tratto la certezza che tutti i soggetti coinvolti fossero animati dall’intento di ledersi reciprocamente. Anche l’intervento nella colluttazione di C.E. e C. G., verificatosi in rapporto di continuità con la fase iniziale che aveva interessato i soli S.G. e Co.Gi., non si era caratterizzato per il perseguimento di finalità meramente difensive in favore della sorella, ma si era svolto con modalità spiccatamente aggressive nei confronti dello S., tanto che essi avevano insistito nel tentativo di colpirlo anche dopo il sopraggiungere dei carabinieri.
L’accertamento in fatto così operato, siccome basato su un apprezzamento delle risultanze probatorie conforme ai canoni di legge e sorretto da motivazione immune da vizi logici, si sottrae al sindacato di legittimità e deve essere posto a fondamento delle conseguenti valutazioni sotto il profilo giuridico.
In proposito non sarà inutile ricordare che, per consolidata giurisprudenza, pur dopo la modifica legislativa dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, al giudice di legittimità resta preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass. 15 marzo 2006 n. 10951); e il riferimento ivi contenuto anche agli "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame" non vale a mutare la natura del giudizio di legittimità come dianzi delimitato, rimanendovi comunque estraneo il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass. 22 marzo 2006 n. 12634).
Nella prospettiva così adottata va subito avvertito che l’intento dei soggetti coinvolti di ledersi reciprocamente, accettando perciò il rischio di essere a loro volta lesi, costituisce il proprium del delitto di cui all’art. 588 c.p. (Cass. 11 dicembre 2007 n. 1476/08;
Cass. 13 maggio 2004 n. 43524); e rende, al contempo, incompatibile con la fattispecie l’ipotesi della legittima difesa, per la cui configurabilità si richiede che la reazione dell’aggredito sia necessitata e diretta esclusivamente a finalità difensive (salvo il caso, qui non ricorrente, in cui – in presenza delle altre condizioni di legge – taluno dei corrissanti si sia abbandonato ad un’azione assolutamente imprevedibile e sproporzionata: Cass. 9 ottobre 2008 n. 4402/09; Cass. 16 novembre 2006 n. 7635/07). Al riguardo ha appropriatamente osservato il giudice di appello che lo S., recandosi a casa dei C. dopo avere ricevuto non solo offese verbali, ma anche un primo segno di violenza rappresentato dalla rottura di alcune bottiglie davanti alla sua abitazione, non poteva certamente aspettarsi di intavolare con essi una pacifica discussione; tanto più che il recarvisi armato di un casco da motociclista era chiaramente il segno dell’accettazione di un livello di contesa basato sullo scontro fisico.
Analogamente va esclusa l’attenuante della provocazione, che può trovare applicazione soltanto nell’ipotesi eccezionale in cui l’azione offensiva di una delle fazioni contendenti sia stata preceduta e determinata da una pretesa tracotante, eticamente o giuridicamente illecita, o da una gravissima offesa proveniente esclusivamente dall’altra fazione (Cass. 17 ottobre 2005 n. 43383).
Il fatto, poi, che nell’atteggiarsi concreto della fattispecie qui accertata il solo S. esaurisse il numero dei contendenti appartenenti ad una delle fazioni in conflitto non è di ostacolo alla qualificazione del fatto come rissa. La giurisprudenza di legittimità, con una pronuncia non recente ma mai contraddetta da arresti di segno opposto, ha enunciato il principio secondo cui "per la configurazione del reato di rissa è necessario che nella contesa violenta esistano più fronti di aggressione, con volontà vicendevole di attentare all’altrui personale incolumità; il che può realizzarsi anche quando qualcuna delle "parti" protagoniste sia rappresentata da un solo soggetto, con l’unico limite che il numero dei corrissanti non sia inferiore a quello di tre (Cass. 10 marzo 1988 n. 11245).
E neppure può assumere decisiva valenza il fatto che, nella fase iniziale dell’episodio, lo scontro abbia avuto per protagonisti due soli dei soggetti coinvolti ( S.G. e C. G.); un altro principio affermato da questa Corte Suprema, anch’esso di non recente enunciazione, ma meritevole di essere qui ribadito, è quello secondo cui "ricorrono gli estremi del reato di rissa anche quando i partecipanti non siano stati coinvolti tutti contemporaneamente nella colluttazione e l’azione si sia sviluppata in varie fasi e si sia frazionata in distinti episodi, tra i quali non vi sia stata alcuna apprezzabile soluzione di continuità, essendosi tutti seguiti in rapida successione, in modo da saldarsi in una unica sequenza di eventi" (Cass. 23 gennaio 1986 n. 3866). Ciò rende ragione, altresì, della correttezza giuridica della statuizione con cui si è applicata l’aggravante di cui al capoverso dell’art. 588 c.p., indipendentemente dalla tesi secondo cui le lesioni si sarebbero verificate in quella prima fase dell’episodio, subito degenerato in rissa; a quest’ultimo riguardo corre l’obbligo di annotare che la denunciata carenza motivazionale sul punto non è causa di annullamento della sentenza di appello in considerazione del fatto che, trattandosi di questione di puro diritto, la lacuna è emendabile ad opera della Corte di Cassazione – nei termini or ora indicati – nell’esercizio del potere rimessole dall’art. 619 c.p.p..
Per quanto attiene al delitto di lesione volontaria ascritto allo S., è innegabile – contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente – che il trauma cranico e la contusione all’arto superiore destro, riportate da Co.Gi. secondo quanto accertato in sede di merito, rientrino nella nozione giuridica di "malattia", di cui all’art. 582 c.p.p., così come è a dirsi per ogni altro trauma di carattere contusivo (Cass. 13 gennaio 2010 n. 10986).
Corretta è, altresì, l’applicazione data dal giudice di merito all’aggravante di cui all’art. 585 c.p., con riferimento all’uso del casco quale corpo contundente. Ed invero, alla stregua di ripetute enunciazioni giurisprudenziali, devono considerarsi armi improprie tutti quegli strumenti, ancorchè non da punta o da taglio, che in particolari circostanze di tempo e di luogo possono essere utilizzati per l’offesa alla persona (v. per tutte Cass. 21 maggio 2008 n. 28207; Cass. 10 novembre 2005 n. 170/06); nè rileva il fatto che si tratti di un uso momentaneo e occasionale dello strumento atto ad offendere, poichè per la configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 585 c.p., comma 2, n. 2 non si richiede che concorra la contravvenzione di cui alla L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 4 (v.
Cass. 9 febbraio 2006 n. 9388; la contraria Cass. 20 gennaio 1998 n. 2333, citata dal ricorrente, è rimasta isolata nel panorama giurisprudenziale). Nella fattispecie concreta l’uso di un casco da motociclista come strumento idoneo a ledere l’integrità fisica della persona offesa configura l’aggravante dell’uso di arma impropria, rendendo il reato perseguibile d’ufficio a norma dell’art. 582 c.p., comma 2.
Prive di fondamento sono, altresì, le ulteriori doglianze elevate dai ricorrenti in ordine al trattamento sanzionatorio.
I ricorrenti C. lamentano, per un verso, l’applicazione dell’aumento di pena per la recidiva e, per altro verso, il diniego delle attenuanti generiche. Tuttavia va ricordato che quelle investite dalla duplice censura sono statuizioni che l’ordinamento rimette alla discrezionalità del giudice di merito, per cui non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge e ai canoni della logica. Nel caso di specie la Corte d’Appello non ha mancato di motivare la propria decisione sui punti in questione: sia col rilevare che i precedenti specifici e reiterati degli imputati costituivano espressione di una loro peculiare pericolosità; sia con l’evidenziare la particolare aggressività connotante la loro condotta nell’episodio specifico oggetto del giudizio; e la linea argomentativa così sviluppata non presta il fianco a censura, rendendo adeguatamente conto delle ragioni della decisione adottata.
Analoghe considerazioni sono da farsi a proposito della censura mossa dal ricorrente S. al trattamento sanzionatorio applicatogli, con specifico riferimento al giudizio di comparazione fra le attenuanti generiche e le circostanze aggravanti, nonchè alla determinazione dell’aumento di pena per la continuazione; trattasi invero, anche in questo caso, dell’impugnazione di apprezzamenti che rientrano nella discrezionalità del giudice di merito. In proposito vi è da osservare che la Corte d’Appello, una volta esclusa ai fini sanzionatoli l’operatività della recidiva, ha rinnovato il computo della pena attenendosi a criteri sostanzialmente conformi a quelli che avevano ispirato la statuizione sottoposta al suo riesame. Ciò dimostra come il giudice del gravame abbia inteso aderire alle valutazioni di quello di primo grado, ritenendo congrua la pena in relazione alla gravità dei fatti accertati: e la motivazione di tale adesione si coglie per implicito nella complessiva linea motivazionale della sentenza di appello, in particolare là dove è sottolineata l’ingiustificata aggressività dimostrata nella circostanza da tutti gli imputati, compreso lo S. (trattato, comunque, complessivamente con minore severità rispetto ai suoi antagonisti).
Il rigetto dei ricorsi, che inevitabilmente consegue a quanto fin qui argomentato, comporta la condanna di ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi e condanna ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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