Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
M.A. veniva citato a giudizio innanzi al Tribunale di Frosinone, Sezione Distaccata di Anagni, per rispondere del delitto di furto aggravato e continuato di energia elettrica, secondo il capo di imputazione così formulato: reato p. e p. dagli artt. 81 cpv. e 624 c.p. e art. 625 c.p., n. 2 perchè, quale rappresentante della Marocca Costruzione s.r.l. con sede di (OMISSIS), con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, al fine di trarne profitto, in tempi successivi si impossessava di energia elettrica, in quantità pari ad un valore complessivo di Euro 301.900,24, sottraendola all’Enel mediante la manomissione dell’impianto. Fatti commessi in (OMISSIS).
Costituitasi parte civile l’Enel ed espletata l’istruttoria dibattimentale, con sentenza in data 7/04/2005 il Tribunale affermava la penale responsabilità del M. e per l’effetto – con le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante – lo condannava alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 300,00 di multa, con il beneficio della sospensione condizionale della pena, nonchè al risarcimento dei danni in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede. A seguito di rituale gravame dell’imputato, la Corte d’Appello di Roma, dopo aver richiamato il percorso argomentativo seguito dal primo giudice sottolineandone il collegamento alle risultanze processuali, e dopo aver espressamente ricordato ed illustrato i singoli elementi probatori posti dal primo giudice a base della propria decisione in quanto ritenuti non scalfiti dalle deduzioni della difesa dell’imputato che aveva anche prodotto una consulenza di parte – finalizzata a dimostrare un andamento asseritamente piuttosto regolare dei consumi del M. nel periodo in contestazione – confermava l’impugnata sentenza dando conto del proprio convincimento con argomentazioni che possono così riassumersi: a) la presenza di uno spillo apposto sulla linea adduttrice della corrente all’interno dell’azienda – quale illustrata con precisione dai dipendenti Enel con riguardo anche alla univoca riferibilità di tale anomalia alla illecita sottrazione di energia (stante la radicale impossibilità di spiegazioni tecniche della cosa non strumentali al furto di energia) – costituiva una circostanza che, a nulla rilevando che fosse stata riscontrata dai verificatori Enel in epoca successiva alla scoperta dei sigilli manomessi e che fosse emersa in atti solo in sede di esame testimoniale, assumeva un pesantissimo peso indiziario a carico dell’imputato, se valutata appunto insieme al quadro fattuale attestante l’avvenuta manomissione del misuratore di energia dell’azienda del M.; b) che tale manomissione nella specie risultasse incontrovertibile – sia nella sua effettiva sussistenza che nella sua univoca strumentalità al furto di energia – lo si poteva desumere con assoluta tranquillità dal complesso delle convergenti dichiarazioni testimoniali dei dipendenti Enel, sia con riferimento alle dettagliate spiegazioni tecniche da essi fornite circa le anomalie riscontrate sui sigilli (il metodo del raffronto con i sigilli di analoghi misuratori relativi ad utenze pubbliche, per quanto tecnicamente non sofisticato, doveva ritenersi comunque pienamente affidabile in concreto, come peraltro già sottolineato anche dal primo Giudice), sia con riferimento alle viti di fissaggio slabbrate e ai graffi riscontrati quanto alla calotta (anomalie che non potevano considerarsi riconducibili a pregressi interventi dei verificatori Enel, posto che costoro rimuovono la calotta solo in caso di malfunzionamenti del misuratore, che nella specie non risultava si fossero verificati in passato); c) in presenza di siffatto quadro indiziario non potevano trovare condivisione le argomentazioni difensive, finalizzate ad inficiare l’attendibilità delle circostanze accertate e riferite dai dipendenti Enel, riguardo sia alle obiettive anomalie del misuratore installato presso l’azienda del M. che alle evidenti discrasie rilevabili nei consumi registrati nel tempo da detto misuratore; il tutto tenendo anche conto: 1) della molteplicità dei dipendenti Enel che avevano variamente proceduto alle ripetute verifiche, riferendone l’esito in modo dettagliato e concorde; 2) dell’accertamento tecnico di tali anomalie; 3) della analitica ricostruzione (presuntivamente effettuata) dei consumi effettivi rispetto a quelli registrati dal misuratore ritenuto manomesso (a quest’ultimo riguardo apparivano del tutto condivisibili le osservazioni del primo Giudice in ordine alla sostanziale inconferenza delle considerazioni svolte nella C.T. di parte depositata dalla difesa, apparendo inoltre irrilevante, ai fini del decidere, la precisa determinazione, in sede penale, dei quantitativi di energia illecitamente sottratti dal M.); d) alla luce di tali considerazioni risultavano inconferenti, ai fini del decidere, le doglianze difensive riguardanti il mancato esame testimoniale del dirigente regionale dell’Enel ing. A.M., nonchè il mancato espletamento di una perizia sulle apparecchiature elettriche oggetto delle segnalate anomalie e sui precisi consumi di energia dell’azienda in questione.
Ricorre per cassazione l’imputato, tramite i difensori, deducendo, con diffuse argomentazioni, due motivi che possono così sintetizzarsi:
PRIMO MOTIVO: Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e), in relazione all’art. 194 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. f), per avere la impugnata sentenza confermato il giudizio di penale responsabilità dell’imputato alla stregua di affermazioni viziate dalla violazione di specifici divieti probatori, apodittiche, manifestamente illogiche, caratterizzate dalla totale mancata considerazione di circostanze decisive al fine della decisione finale, pure puntualmente evidenziate nell’atto di appello. Sostiene il ricorrente che: a) la Corte distrettuale avrebbe fatto riferimento alle sole argomentazioni sviluppate nella decisione di primo grado, senza minimamente curarsi delle censure puntualmente svolte nell’atto di appello – anche con riferimento alla attendibilità ed oggettività degli accertamenti dei tecnici dell’ENEL, contestate dalla difesa dell’imputato -utilizzando una mera formula di stile quanto alla inattendibilità delle argomentazioni difensive, così venendo meno all’onere motivazionale in violazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 13 dicembre 1995, Clarke, e travisando anche la prova nel prospettare una concordanza tra le dichiarazioni rese dai dipendenti Enel; b) avrebbe errato ancora la Corte di merito nel valorizzare la deposizione del dipendente dell’ENEL avente ad oggetto il metodo del raffronto con i sigilli di analoghi misuratori relativi ad utenze pubbliche, trattandosi, tra l’altro, di "opinioni espresse da un teste incardinato nell’ente che si caratterizza in ultima analisi quale soggetto passivo del reato per cui si procede" (così testualmente a pag. 6 del ricorso); c) ancora apoditticamente la Corte distrettuale avrebbe escluso la riconducibilità dei segni e graffi, rilevati sul misuratore "de quo", a pregressi interventi di verifica ed accertamenti dei dipendenti dell’ENEL, avendo la difesa documentalmente dimostrato la pluralità di tali interventi caratterizzati dalla necessità di svitare e riavvitare le viti di serraglio e rimuovere la calotta; d) in maniera altrettanto apodittica e superficiale i giudici di seconda istanza avrebbero disatteso le specifiche censure e le deduzioni difensive circa le modalità di accertamento del consumi presunti rispetto a quelli registrati.
SECONDO MOTIVO: Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. d) ed e), in relazione all’art. 603 c.p.p., per avere la sentenza contro cui si ricorre, omesso di assumere prova decisiva, previa la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sollecitata nell’atto di appello per l’espletamento di perizia – Ad avviso del ricorrente nella concreta fattispecie appariva del tutto evidente la decisività di una perizia – sollecitata con l’appello e negata invece dalla Corte territoriale – posto che l’intervento dell’esperto avrebbe consentito di affermare la sussistenza della ipotizzata manomissione e, soprattutto, la strumentalità di tale manomissione rispetto alla altrettanto ipotizzata sottrazione di energia elettrica.
All’odierna udienza la difesa del ricorrente ha prodotto copia della sentenza di assoluzione pronunciata il 26 ottobre 2010 dalla Corte d’Appello di Roma nei confronti del M. – in riforma di quella di condanna emessa in data 19 febbraio 2009 dal Tribunale di Frosinone, Sez. Dist. di Anagni – per il medesimo reato di furto aggravato in danno dell’ENEL relativamente al periodo, secondo la contestazione, dal (OMISSIS).
Motivi della decisione
Ritiene il Collegio che preliminarmente – avuto riguardo al tempus commissi delicti (fino all'(OMISSIS)), al titolo del reato (furto) ed alla pena edittale per lo stesso prevista essendo state concesse all’imputato le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza con l’aggravante contestata – occorre verificare se, alla data della odierna udienza, sia interamente decorso il termine massimo di prescrizione (sette anni e mezzo) cui bisogna por mente in applicazione della normativa precedente alle modifiche introdotte con la L. n. 251 del 2005. Ciò posto, va rilevata l’intervenuta prescrizione; detta causa estintiva del reato deve invero ritenersi verificata pur tenendo conto del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte – con sentenza (imp. Cremonese) del 28 novembre 2001, depositata l’11 gennaio 2002 – in tema di sospensione del decorso del termine di prescrizione in conseguenza di impedimento dell’imputato o del suo difensore; ed invero dagli atti si rileva che nel corso del giudizio di primo grado vi fu un rinvio dal 1 luglio 2004 al 17 febbraio 2005 per impedimento del difensore del M.:
di tal che, il termine massimo prescrizionale è dunque già maturato in epoca precedente all’odierna udienza, pur calcolando il periodo di sospensione sopra indicato. Tanto premesso, occorre adesso verificare se, avuto riguardo ai motivi dedotti dal ricorrente in relazione alle argomentazioni svolte dalla Corte d’Appello di Roma nell’impugnata sentenza, il ricorso presenti profili di inammissibilità per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perchè basato su censure non deducibili in sede di legittimità, tali, dunque, da non consentire di rilevare l’intervenuta prescrizione (posto che si tratterebbe di causa originaria di inammissibilità).
Orbene, il ricorso non presenta connotazioni di inammissibilità essendo basato su doglianze con le quali sono state affrontate tematiche non solo relative a prospettati vizi di asserita erronea valutazione degli elementi probatori acquisiti ma anche concernenti questioni tecnico-giuridico con il richiamo a precedenti della giurisprudenza di questa Corte.
Per altro verso, non sussistono le condizioni di legge per la sussumibilità del caso nella previsione dell’art. 129 c.p.p., comma 2, anche per quanto di seguito si dirà nell’esaminare la fattispecie ai fini civilistici.
E’ ben noto, difatti, sotto un profilo d’ordine generale e sistematico, che in presenza di una causa estintiva del reato, è precluso alla Corte di Cassazione un riesame dei fatti finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione (sia con riferimento alle valutazioni del compendio probatorio, sia con riferimento al vaglio delle altre deduzioni). Il sindacato di legittimità ai fini dell’eventuale applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2 deve essere circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata: qualora, dunque, il contenuto complessivo della sentenza non prospetta, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, prevale l’esigenza della definizione immediata del processo. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, qualora già risulti una causa di estinzione del reato, addirittura la sussistenza di una nullità (e pur se di ordine generale) non è rilevabile nel giudizio di cassazione, "in quanto l’inevitabile rinvio al giudice di merito è incompatibile con il principio dell’immediata applicabilità della causa estintiva" (in tal senso, ex plurimis:
Sez. Un. 28/11/2001, Cremonese; Sez. Un. n. 35490/2009, Tettamanti).
L’impugnata sentenza deve essere pertanto annullata senza rinvio, ai fini penali, perchè estinto il reato per prescrizione.
La declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione comporta la necessità di esaminare le doglianze del ricorrente ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili ( art. 578 c.p.p.). A tali fini civili il ricorso deve essere rigettato, per l’infondatezza delle censure addotte a suo sostegno. Per ciò che concerne il secondo, pregiudiziale, profilo di doglianza, col quale si deduce la mancata assunzione di una prova decisiva, consistente nell’espletamento di una perizia, previa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, ha ripetutamente chiarito questa Suprema Corte che la perizia, per il suo carattere neutro, sottratta alla disponibilità delle parti e rimesso, alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, e non è, perciò, sussumibile nella previsione dell’art. 606 c.p.p., lett. d), (ex multis, Sez. 4, 22 gennaio 2007, n. 14130, in CED Rv. 236191; Sez. 4, 5 dicembre 2003, n. 4981/2004, in CED Rv. 2296,65; Sez 6, 18 giugno 2003, n. 37033, in CED Rv. 228406; Sez. 6, 12 febbraio 2003, n. 17629, in CED Rv.
226809.
Quanto, al primo profilo di doglianza, col quale si censura, in sostanza, la logicità e congruenza del percorso motivazionale esplicitato dalla gravata sentenza, giova innanzitutto ricordare che, per consolidato, pacifico e risalente assunto giurisprudenziale di questa Suprema Corte, in tema di sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass., Sez. Un., 13.12.1995, n. 930/1996); id., Sez. Un., 31.5.2000, n. 12). Il vizio di motivazione, poi, deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 – da "altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame", il che vuoi dire – quanto al vizio di manifesta illogicità -, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorchè, in tesi, munite di eguale crisma di logicità (cfr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30). Nella concreta fattispecie, la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali – quali sopra riportati (nella parte relativa allo "svolgimento del processo") e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni – forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti la vicenda oggetto del processo. La trama argomentativa esibita dalla sentenza impugnata si sottrae, perciò, a rinvenibili vizi di illogicità, che, peraltro, la norma vuole dover essere manifesta, cioè rilevabile immediatamente, ictu oculi; essa da logica contezza non solo della insussistenza della prova evidente della innocenza dell’imputato (per quanto possa rilevare ai fini penali, per come sopra si è detto), ma anche della sussistenza di elementi di giudizio di evidente ed univoco segno contrario, giustificativi delle rese statuizioni civilistiche. Tale approdo delibativo ed argomentativo cui è pervenuta la sentenza impugnata non può ritenersi caducato dalla sentenza oggi prodotta dinanzi a questa Suprema Corte dalla difesa del M..
Premesso che essa afferisce a fatti cronologicamente diversi, ancorchè riconducibili ad analoghe premesse fattuali – sicchè non appare proponibile il tema del ne bis in idem ( art. 649 c.p.p.), per vero non difensivamente prospettato in questa sede – tale sentenza non reca annotazione o attestazione del suo passaggio in giudicato.
Tale circostanza, tuttavia, non appare dirimente. Ove, difatti, tale sentenza non sia passata in giudicato, v’è da considerare che "le sentenze pronunciate in procedimenti penali diversi e non ancora divenute irrevocabili possono essere utilizzate come prova limitatamente all’esistenza della decisione e alle vicende processuali in esse rappresentate, ma non ai fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti" (Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748, in CED Rv.
231677).
Ove, invece, tale sentenza sia passata in giudicato, sarebbe evocabile il disposto dell’art. 238-bis c.p.p., norma "sicuramente eccezionale nell’impianto codicistico ispirato ai principi di oralità e immediatezza" (Sez. Un., n. 33748/2005, cit.), a termini della quale le sentenze divenute irrevocabili "possono essere acquisite ai fini della prova di fatto in esse accertato e sono valutate a norma dell’art. 187 e art. 192, comma 3". Ma "l’acquisizione agli atti del procedimento, giusto quanto previsto dall’art. 238-bis c.p.p. di sentenze divenute irrevocabili non comporta, per il giudice di detto procedimento, alcun automatismo nel recepimento e nell’utilizzazione ai fini decisori dei fatti, nè tanto meno, dei giudizi di fatto contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al contrario ritenere che quel giudice conservi integra l’autonomia e la libertà delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a lui istituzionalmente riservate" (Sez. 1, 16 novembre 1998, n. 12595, in CED Rv. 211768, ripresa da Sez. Un., n. 33748/2005, cit.; v. anche Sez. 6, 12 novembre 2009, n. 47314, in CED Rv. 245483; Sez. 3, 13 gennaio 2009, n. 8823, in CED Rv. 242767; Sez. 2, 28 febbraio 2007, n. 16626, in CED Rv. 236650).
Nella specie, dunque, il giudice della sentenza impugnata ha già esaminato la "prova di fatto" evidenziata nell’altro procedimento, ma nell’autonomia e libertà della valutazione a lui istituzionalmente riservata, l’ha diversamente delibata ed apprezzata, nell’unitario contesto di tutte le rappresentate emergenze procedimentali, con percorso argomentativo che – si è già detto – è immune da rinvenibili vizi di illogicità. E ciò vale innanzitutto per la circostanza – sulla quale si è particolarmente soffermata la difesa nell’odierna discussione orale – relativa alla rilevata presenza di uno spillo apposto sulla linea adduttrice della energia elettrica all’interno dell’azienda: e la ipotesi prospettata dalla difesa nella stessa discussione orale – secondo cui la presenza di tale spillo potrebbe essere stata conseguenza di uno degli interventi eseguiti dai tecnici dell’ENEL – non trova, per vero, appiglio o riscontro alcuno dalla ricostruzione dei fatti operata dalle sentenze di merito.
Ma la sentenza impugnata ha richiamato, oltre questa, altre circostanze pur esse logicamente ritenute inducenti al divisamento espresso: le dichiarazioni testimoniali dei dipendenti ENEL in ordine alle anomalie riscontrate sui sigilli, anche con riferimento alle viti di fissaggio slabbrate ed ai graffi riscontrati alla calotta, non riconducibili a pregressi interventi dei verificatori ENEL; la notevole discrasia tra la analitica ricostruzione presuntiva dei consumi effettivi rispetto a quelli registrati; il Tribunale, come ricordato dalla Corte d’Appello (cfr. pag 4 della sentenza impugnata), aveva tra l’altro ulteriormente e specificamente sottolineato: a) il raddoppio, sia dei prelievi di corrente che del numero di ore di utilizzazione della fornitura, riscontrato dopo l’apposizione dei nuovi sigilli presso l’azienda del M.; b) l’esame comparato dei prelievi effettuati in periodi analoghi (anche mediante raffronto con i consumi di aziende similari) che "aveva fornito un risultato notevolmente superiore rispetto a quello del periodo precedente la sostituzione di sigilli, in una misura del 50/60%".
Al rigetto del ricorso agli effetti civili consegue la condanna del ricorrente alla rifusione in favore della costituita parte civile delle spese relative a questo giudizio che si liquidano in complessivi Euro 3.000,00 (tremila), oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata ai fini penali, perchè estinto il reato per prescrizione. Rigetta il ricorso i fini civili e condanna il ricorrente alla rifusione in favore della costituita parte civile delle spese di questo giudizio, che liquida in Euro 3.000,00, oltre accessori come per legge.
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