Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 24-02-2011) 08-03-2011, n. 9057

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Svolgimento del processo

Il Tribunale di Crotone, con sentenza in data 22/1/2008, dichiarava, tra gli altri, S.P., T.G., A.N., V.S., V.A., V.C., V.R. e F.C., colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti, cosi come riqualificarti in sentenza, di, estorsione aggravata, tentata estorsione aggravata e T. G. e S.P. anche di associazione per delinquere di stampo mafioso finalizzata alla consumazione di estorsione ai danni di operatori economici e di imprenditori edili, costretti a versare una somma di denaro solitamente corrispondente ad una percentuale del valore dei lavori, condizionando le imprese nell’esecuzione dei lavori in subappalto, indicando le imprese di loro fiducia cui dovevano rivolgersi per l’esecuzione dei lavori di movimento terra, fornitura di inerti, impiantistica ed altro.

I reati di estorsione e di violenza privata venivano individuati nelle diverse condotte, da parte degli imputati, finalizzate alla costrizione degli imprenditori commerciali, impegnati in attività edili in appalto, indotti a versare somme di denaro quale prezzo per la "tranquillità" dei vari cantieri, costretti ad accettare subappaltatori loro indicati, per l’esecuzione di lavori in appalto (impiantistica idraulica, riscaldamento, fornitura di materiali, etc.).

Il Tribunale condannava, riqualificate le imputazioni come in dispositivo, con la continuazione, a) S.P. alla pena di anni nove di reclusione e Euro 1880 di multa, b) T.G. (assolto per le imputazioni di cui ai capi 5 e 6), alla pena di anni otto, mesi due di reclusione e Euro 1660 di multa; c) A.N. alla pena di anni otto, mesi quattro di reclusione e Euro 1680 di multa; d) V.S. (assolto dei reati di cui ai capi 5,6,7), alla pena di anni sei di reclusione e Euro 1100 di multa; e) V.A., con le attenuanti generiche ritenute equivalenti all’aggravante, alla pena di anni cinque, mesi sei di reclusione e Euro 600 di multa; f) V.C., riconosciute le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante, alla pena di anni sei di reclusione e Euro 800 di multa; g) V.R., riconosciute le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante, alla pena di anni cinque, mesi sei di reclusione e Euro 600 di multa,h) F.C., riconosciute le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante, alla pena di anni cinque, mesi sei di reclusione e Euro 600 di multa, con le pene accessorie di legge per tutti gli imputati, applicando nei confronti di S.P. e T. G. anche la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anni uno, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile, da liquidarsi in separato giudizio.

La Corte di appello di Catanzaro, con sentenza in data 25/2/2010, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, appellata dagli imputati, assolveva S.P. e T.G. del reato loro ascritto al capo nove per non aver commesso il fatto, e, esclusa l’aggravante di cui all’art. 629 c.p., comma due in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 3, rideterminava le pene irrogate, nei confronti di S.P. in anni sei, mesi 10 di reclusione e Euro 980 di multa e nei confronti di T.G. in anni sei di reclusione e Euro 760 di multa.

Riduceva le pene nei confronti di A.N. ad anni sei, mesi 10 di reclusione e Euro 980 di multa, nei confronti di V. R., V.A., F.C. ad anni tre di reclusione e Euro 300 di multa ciascuno; ritenuta, quanto a V.S. e V.C. la continuazione con i reati di cui alla sentenza della Corte d’appello di Catanzaro in data 26/2/2008, divenuta irrevocabile, aumentava la pena irrogata a V.S. di mesi sei di reclusione e Euro 120 di multa e la pena irrogata a V.C. di anni uno di reclusione e Euro 240 di multa, revocando la pena accessoria della libertà vigilata nei confronti di S.P. e T.G., con le pene accessorie di legge per tutti gli imputati, confermando, nel resto, la sentenza impugnata.

Proponevano ricorso per cassazione il difensore degli imputati, deducendo tutti, quale motivo comune la incompetenza territoriale del Tribunale di Crotone, avendo il M., con riferimento al reato ritenuto più grave, consegnato il denaro richiesto non a (OMISSIS), come ritenuto dalla Corte di appello, ma a (OMISSIS), con conseguente competenza del tribunale di Vibo Valentia.

I difensori di S.P., T.G., A.N., V.R. con autonomi ricorsi, deducevano il seguente ulteriore motivo comune:

a) violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza con riferimento alla ritenuta sussistenza all’aggravante speciale di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1 in luogo dell’aggravante comune di cui all’art. 112 c.p., mancando, peraltro, la condizione legittimante l’applicazione dell’aggravante speciale di "più persone riunite" prevista dall’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, emergendo dagli atti la sola presenza della vittima e dell’estortore;

Nell’interesse di A.N. venivano dedotti i seguenti ulteriori motivi:

a) erronea riqualificazione del reato originariamente contestato ai capi 2, 3 e 4 della pubblica, nella più grave fattispecie di cui all’art. 629 c.p., comma 2, non sussistendo rapporto di specialità tra agli artt. 610 e 629 c.p.;

b) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) c) ed e) con riferimento agli artt. 416 bis e 629 c.p. in relazione all’art. 628 c.p., comma 3 e artt. 125 e 192 c.p.p., avendo ritenuto non necessari i riscontri esterni alla dichiarazione del M., testimone di giustizia, sottoposto a protezione dello Stato, rilevando la genericità delle dichiarazioni dello stesso, contestando l’attendibilità del teste che non può costituire unico elemento probatorio ai fini della responsabilità del ricorrente;

c) erronea applicazione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 essendo stati i singoli reati commessi in epoca antecedente rispetto all’entrata in vigore della normativa speciale;

d) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) c) ed e) con riferimento agli artt. 416 bis e 629 c.p. in relazione all’art. 628 c.p., comma 3 e artt. 125 e 192 c.p.p. avendo posto a fondamento della responsabilità del reato associativo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Ma.To., la cui credibilità è stata messa in discussione con la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro in data 16/10/1998 e le cui dichiarazioni non sono idonei a fondare un giudizio di responsabilità penale per il reato associativo, stante l’assoluzione di S.P. e T. G., circostanza che ha evidenti riflessi anche in ordine alla responsabilità del ricorrente, non essendo stato provato il concreto coinvolgimento dell’ A. nella vicenda criminosa;

e) mancata concessione delle attenuanti generiche;

f) intervenuta prescrizione dei reati V.S., V.C., V.A. deducevano i seguenti ulteriori motivi:

a) violazione dell’art. 192 c.p.p., motivazione errata e illogica, essendo stata fondata la responsabilità dei prevenuti unicamente sulle dichiarazioni accusatorie rese della persona offesa, omettendo di considerare gli ulteriori elementi di segno contrario;

b) violazione dell’art. 629 c.p., con riferimento al capo cinque della rubrica, stante la inattendibilità del teste Z. che riferisce di vicende estorsive non poste in essere, comunque, dai ricorrenti F.C. deduceva i seguenti ulteriori motivi:

a) erronea ritenuta insussistenza della cd. desistenza volontaria, essendosi il reato consumato successivamente alla condotta ascrivibile al ricorrente, senza alcun intervento dello stesso e senza che la precedente condotta posta in essere avesse in qualche modo agevolato la determinazione della parte offesa al pagamento;

b) erronea affermazione di equivalenza, e non di prevalenza, delle attenuanti generiche rispetto alla contestata aggravante.
Motivi della decisione

Tutti i ricorsi sono infondati e vanno rigettati.

1) Deve essere preliminarmente disattesa l’eccezione di prescrizione dei reati, genericamente formulata dal difensore di A.N., essendo il termine massimo di prescrizione di anni 22, mesi sei, correttamente individuato dalla Corte territoriale (pag. 6 e 7), non ancora decorso, indipendentemente da eventuali sospensioni della prescrizione.

2) Correttamente la Corte territoriale ha statuito che la competenza per territorio per i procedimenti connessi spetta al giudice competente per il reato più grave e, in caso di pari gravità, al giudice competente a giudicare il reato anteriormente commesso, ai sensi dell’art. 16 c.p.p., individuando, tra reati di pari gravità, quello di cui al capo 1 della rubrica, commesso, in base a quanto affermato dalla Corte con una valutazione fattuale non censurabile in sede di legittimità, a (OMISSIS) e, comunque, nel circondario del Tribunale di Crotone ove è avvenuto il pagamento in due diverse frazioni, da parte della persona offesa M. G. agli A., la prima volta personalmente e la seconda volta tramite V.C., condotte estorsive poste in continuazione tra loro nella stessa enunciazione del capo di imputazione.

Risulta, nella stessa motivazione della sentenza di appello che i primi 30 milioni il M. li consegnò a S.P., recandosi a casa di quest’ultimo a (OMISSIS), posto nel circondario di (OMISSIS) insieme a V.C. (pag. 17 sentenza), mentre i rimanenti 20 milioni furono consegnati dalla parte offesa a V.C. che poi si occupò di farli recapitare agli A., senza indicazione della località ove avvenne tale consegna (pag. 18 sentenza), dovendosi ritenere che tale consegna sia avvenuta sempre nel medesimo circondario di (OMISSIS), in mancanza di elementi certi che possano far ritenere la consegna avvenuta in una località ricompresa in altro e diverso circondario, (cfr anche testimonianza M., pag. 72 – ud. 28.4.2004 Tribunale).

Anche considerando che una trance della somma estorta è stata consegnata a (OMISSIS), e non a (OMISSIS), tale circostanza non modifica la affermata competenza territoriale del tribunale di Crotone.

Va, quindi, ritenuta la competenza territoriale del Tribunale di Crotone che non può essere ribaltata in sede di legittimità se non in forza di un errore "percettivo" emergente "ictu oculi" o per travisamento documentato degli atti di causa (situazioni entrambe da escludere nella specie) e non in forza di una diversa valutazione degli stessi dovendosi disattendere la diversa ricostruzione dei fatti operata dai ricorrenti.

3) Con riferimento al motivo di ricorso relativo alla violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza in relazione alla ritenuta sussistenza all’aggravante speciale di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1 in luogo dell’aggravante comune di cui all’art. 112 c.p., questa Corte, con motivazione condivisa dal Collegio, ha ritenuto che in tema di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, il fatto di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. va definito come l’accadimento di ordine naturale dalle cui connotazioni e circostanze soggettive ed oggettive, geografiche e temporali, poste in correlazione fra loro, vengono tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica, sicchè la violazione del principio postula una modificazione – nei suoi elementi essenziali – del fatto, inteso come episodio della vita umana, originariamente contestato (Sez. 1, Sentenza n. 13408 del 14/02/2008 Ud. (dep. 28/03/2008) Rv.

239903. La giurisprudenza di legittimità si ispira, nel verificare la mancata corrispondenza tra accusa contestata e fatto ritenuto in sentenza, al principio secondo cui il parametro che consente di verificare, nel caso in cui sia accertato lo scostamento indicato, l’esistenza della violazione del principio in questione è costituito dal rispetto del diritto di difesa nel senso che l’imputato deve avere avuto, in concreto, la possibilità di difendersi dall’addebito contestatogli.

Con riferimento alla medesima contestazione formulata da V. R. è pacifico che la compiuta contestazione del fatto, come avvenuto nella fattispecie, al di là della qualificazione dello stesso, neutralizza erronee o assenti indicazioni della norma violata, dovendosi ritenere soddisfatto il diritto del ricorrente ad essere informato in modo dettagliato della natura e dei motivi dell’accusa, anche nel caso di diversa qualificazione del fatto operata dal giudice "ex officio" qualora sia stata rappresentata al difensore dell’imputato con un atto del Collegio in modo che la parte abbia potuto beneficiare e comunque richiedere un termine per apprestare la propria difesa (cfr Cass. 25.5.2009,n. 36323, Drassich).

Nella fattispecie la diversa qualificazione giuridica del fatto è stata formulata all’esito del contraddittorio del primo grado di giudizio e il diritto di difesa ha potuto esplicarsi anche nel pieno contraddittorio del giudizio di secondo grado.

Inoltre in base ai principi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) (sentenza 11.12 2007, Drassich c. Italia) è consentita la modifica peggiorativa della qualificazione giuridica del fatto allorchè, come nella specie, la nuova e più grave definizione del fatto sia stata oggetto di contraddittorio.

Questa Corte ha anche evidenziato, al riguardo, che il giudice che riconosca la diversità di una circostanza aggravante rispetto a quella originariamente contestata, non può trasmettere gli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 521 c.p.p., comma 2, atteso che le circostanze sono elementi esterni al fatto che non ne determinano la diversità (Sez. 4, Sentenza n. 31446 del 25/06/2008 Ud. (dep. 28/07/2008) Rv. 240896).

4) La circostanza che i medesimi fatti possano configurare l’aggravante speciale di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1 in luogo dell’aggravante comune di cui all’art. 112 c.p., originariamente contestata, non costituisce immutazione del fatto originariamente contestato, in quanto le imputazioni evidenziavano la condotta degli agenti.

Peraltro la mancata correlazione tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza si verifica solo quando si manifesti una radicale difformità tra i due dati, in modo che possa derivarne assoluta incertezza sull’oggetto della imputazione, con conseguente pregiudizio dei diritti di difesa (Cass. 11.6.1999,n. 7583, Grossi) Per la configurazione dell’aggravante speciale di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, delle "più persone riunite" in tema di estorsione, non è necessaria la simultanea presenza fisica di più soggetti attivi nel luogo e nel momento di commissione del reato, essendo sufficiente che il soggetto passivo abbia acquisito la sensazione che la minaccia provenga non solo dal singolo che la profferisce, ma che costui manifesti le comuni, perverse, intenzioni di più persone, di cui si faccia portavoce, in modo da far percepire alla vittima che la relazione costrittiva proviene da più persone organizzate ai suoi danni, come nella fattispecie, avendo tale fatto, per se stesso, maggiore effetto intimidatorio. (Sez. 2, Sentenza n. 23038 del 14/05/2010 Ud. (dep. 15/06/2010) Rv. 247529; Sez. 5, Sentenza n. 35054 del 19/06/2009 Ud. (dep. 09/09/2009) Rv. 245146;

Sez. 5, Sentenza n. 35054 del 19/06/2009 Ud. (dep. 09/09/2009) Rv.

245146) Questa Corte non ignora il diverso orientamento che ritiene che occorra la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e nel momento in cui si realizza la violenza o la minaccia, non potendo dirsi sufficiente il fatto che la vittima percepisca che la minaccia o la violenza di un solo soggetto agente in realtà promanino da più persone. (Sez. 2, Sentenza n. 24367 del 11/06/2010 Ud. (dep. 25/06/2010 )Rv. 247865).

Si ritiene, tuttavia, difformemente da tale ultimo orientamento, che l’aggravante trovi giustificazione, indipendentemente dalla materiale presenza fisica di due o più persone nel luogo di esecuzione del reato, ove sussista la maggiore idoneità dell’azione a produrre gravi effetti sia fisici e psicologici in danno del soggetto passivo, tendendo ad elidere o diminuire la sua capacità di resistenza, purchè sussista la percezione, da parte del soggetto passivo, come nella fattispecie, della minaccia realizzata nei suoi confronti da più persone, anche con condotte frazionate nel tempo anche per il maggior effetto di intimidazione esercitato sulla vittima.

Peraltro, in occasione della consegna della prima trance di 30 milioni, a casa dello S. vi era anche V.C. e, ai fini della sussistenza dell’ aggravante contestata, nel caso di persone simultaneamente presenti, è sufficiente la presenza di due persone nel luogo e nel momento del fatto,.

Correttamente, inoltre, la Corte territoriale ha ritenuto che la circostanza aggravante di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, esclude l’applicazione della circostanza aggravante comune dell’art. 112 c.p., n. 1, in forza del principio di specialità sancito dall’art. 15 cod. pen. (Sez. 6, Sentenza n. 16515 del 11/03/2010 Ud.

(dep. 28/04/2010 )Rv. 247004).

5) Con riferimento al primo motivo ulteriore di ricorso proposto da A.N., anche se appare condividibile l’affermazione che il reato di violenza privata non può ritenersi sempre assorbito da quello di estorsione, nel caso in cui la minaccia profferita, sia pure contemporaneamente a quella estorsiva, tenda a costringere la parte lesa ad una ulteriore limitazione della sua libertà, (quale, ad esempio, a non denunciare il torto patito), tutelata appunto dal disposto dell’art. 610 cod. pen., tuttavia, ove la violenza sia considerata elemento costitutivo dell’estorsione, rimane assorbita nell’ultimo più grave delitto. Peraltro, nella fattispecie, la Corte ha ritenuto, valutate le modalità della condotta, la realizzazione del reato di estorsione con l’aggravante, per l’ A., del secondo comma dell’articolo 629 c.p., in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 3, nella particolare forma dell’estorsione contrattuale, fungendo da elementi specializzanti il conseguimento di un ingiusto profitto e il correlativo danno alla persona offesa,ritenendo in esso assorbito, in forza del principio di specialità, il reato di violenza privata (cfr Sez. 1, Sentenza n. 7856 del 10/06/1997 Ud.

(dep. 09/08/1997) Rv. 208262; Sez. 2, Sentenza n. 27040 del 22/05/2003 Ud. (dep. 20/06/2003) Rv. 225161; Sez. 1, Sentenza n. 5639 del 03/11/2005 Ud. (dep. 14/02/2006) Rv. 233837).

In particolare, sussiste il reato di estorsione e non di violenza privata nel caso in cui la violenza o minaccia sia finalizzata a stipulare un contratto svantaggioso per sè e vantaggioso per altri che non avrebbe stipulato se non fosse stato minacciato di un danno ingiusto, ravvisandosi il danno patrimoniale nella differenza tra l’importo stabilito in capitolato e quello che la vittima avrebbe potuto pattuire rivolgendosi a imprese che gli offrivano un prezzo più vantaggioso, considerando, inoltre, che già aveva a disposizione alcuni mezzi (pag. 31-32 sentenza).

Peraltro, in tema di "estorsione contrattuale", il danno patrimoniale subito della persona offesa è insito nella stessa violazione della libertà contrattuale, anche senza necessità di quantificare il decremento patrimoniale, in quanto l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è stato ritenuto implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi economici nel modo da lui ritenuto più opportuno (Sez. 1, Sentenza n. 18722 del 31/03/2010 Ud. (dep. 18/05/2010) Rv. 247450;

Sez. 6, Sentenza n. 46058 del 14/11/2008 Cc. (dep. 12/12/2008) Rv.

241924; Sez. 6, Sentenza n. 10463 del 05/02/2001 Cc. (dep. 14/03/2001) Rv. 218433. 6) Contestano A.N., V.S., V. C., V.A. la valutazione di attendibilità del teste M., senza i necessari riscontri delle sue dichiarazioni, omettendo la Corte di merito di considerare che trattasi anche di testimone di giustizia. Va premesso che l’attendibilità del teste non può essere inficiata dalla circostanza che lo stesso sia sottoposto a misure di protezione a tutela della sua incolumità, potendo, anzi, tale circostanze rafforzare la veridicità delle sue dichiarazioni ove, come nella fattispecie, venga escluso l’intento calunniatorio da parte del denunciante (pag. 8 sentenza).

E’ indiscusso nella giurisprudenza di questa Corte che a base del libero convincimento del giudice possono essere poste le dichiarazioni della parte offesa (Cass., sez. 3, 5 marzo 1993, Russo, m. 193862; Cass., sez. 4, 26 giugno 1990, Falduto, m. 185349) che, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere anche da sola assunta come fonte di prova, ove venga sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva (Cass., sez. 1, 28 febbraio 1992, Simbula, m. 189916;

Cass., sez. 6, 20 gennaio 1994, Mazzaglia, m. 198250; Cass., sez. 2, 26 aprile 1994, Gesualdo, m. 198323; Cass., sez. 6, 30 novembre 1994, Numelter, m. 201251; Cass., sez. 3, 20 settembre 1995, Azingoli, m.

203155), non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni, quando non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità (Cass., sez. 6, 13 gennaio 1994, Patan, m. 197386, Cass., sez. 4, 29 gennaio 1997, Benatti, m. 206985, Cass., sez. 6, 24 febbraio 1997, Orsini, m. 208912, Cass., sez. 6, 24 febbraio 1997, Orsini, m. 208913, Cass., sez. 2, 13 maggio 1997, Di Candia, m.

208229, Cass., sez. 1, 11 luglio 1997, Bello, m. 208581, Cass., sez. 3, 26 novembre 1997, Caggiula, m. 209404). A tali dichiarazioni, invero, non si applicano le regole di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che riguardano le propalazioni dei coimputati del medesimo reato o di imputati in procedimenti connessi o di persone imputate di un reato collegato e che presuppongono l’esistenza di altri elementi di prova unitamente ai quali le dichiarazioni devono essere valutate per verificarne l’attendibilità.

Nel caso di specie i Giudici di merito, come già evidenziato, hanno sottoposto ad attento controllo le dichiarazioni della vittima, valutate nel contesto delle emergenze processuali, segnatamente evidenziando le caratteristiche peculiari di precisione, coerenza ed uniformità delle dichiarazioni accusatorie ed estendendo il vaglio anche ad altri elementi, quali, la coincidenza tra le dichiarazioni della parte offesa in ordine alle difficoltà di svolgere la propria attività imprenditoriale nella zona di (OMISSIS) e quelle del teste L. che ha affermato che, in quella zona, vige un generale clima di intimidazione al quale soggiacevano, oltre al M., anche altri imprenditori del luogo, descrivendo una lunga serie di danneggiamene e intimidazioni in danno di operatori economici.

Il M. ha anche fornito elementi specifici in ordine alla faida in corso tra famiglie contrapposte nella quale erano coinvolti anche i V. (pag. 10-11 sentenza).

La coerenza e attendibilità delle dichiarazioni del M. si evince anche dal comportamento dello stesso nella vicenda, analiticamente descritto dalla Corte territoriale (pag. 8-22 sentenza). Certamente è credibile il M. allorchè, aggiudicatosi per la prima volta l’appalto in territorio diverso, a (OMISSIS), i V. gli dicono che per poter operare doveva corrispondere del denaro agli A., e V.C., in altra occasione (all’uscita della cassa di S.), dice al M. che avrebbe dovuto dare agli A. L. 60 milioni (successivamente ridotta a 50 milioni).

Significativo è anche il comportamento dell’ A. che, presentandosi alla parte offesa, dimostra il potere di imposizione affermando "guardateci bene in faccia … al di sopra di noi c’è solo lui", evidenziando in tono di minaccia implicita in tale espressione che, a giudizio della Corte territoriale, assume un significato maggiormente chiaro e preciso se inserita nel contesto dei metodi utilizzati per avvicinare la parte offesa al fine di estorcergli denaro. Il M., inoltre, ha specificato che i rapporti con i V. erano iniziati molto tempo prima che lui incominciasse la sua attività imprenditoriale, avendo già costruito per il defunto V.C. una cappella di circa 600 m2, per V.D. un edificio di circa 600 m2 e acquistato un’autovettura nuova per V.S., senza ricevere in cambio alcun corrispettivo. Con riferimento a V.C. è emerso, in particolare, che il M. ha consegnato allo stesso la seconda tranche di denaro, destinata agli A., dopo aver ricevuto dallo stesso una richiesta originaria di L. 60 milioni, poi ridotta a 50 milioni, sollecitando il pagamento di tale importo, accompagnandolo a casa dello S. a (OMISSIS), allorchè la parte offesa versa i primi 30 milioni. Nel momento in cui V. fanno sapere alla parte offesa che per la costruzione di 56 alloggi popolari avrebbe dovuto versare del denaro, V.S. si reca a casa del M. e gli dice che per i lavori appena iniziatici dovrà parlare con gli altri membri della sua famiglia, fissando un appuntamento in cui erano presenti, tra gli altri anche V.A., F.C., V.R.. La Corte territoriale ha evidenziato come sia emerso anche che gli A. avevano avvicinato anche un altro imprenditore, Z.R., affinchè pagasse una somma il denaro a titolo estorsivo ai V.. La Corte territoriale effettua una ricostruzione analitica delle dichiarazioni della parte offesa, alla luce di riscontri anche di carattere storico, concludendo per l’attendibilità del teste. L’utilizzazione della fonte di prova è stata condotta dai Giudici del merito nella corretta osservanza delle regole di giudizio che disciplinano la valutazione della testimonianza delle persone offese dal reato e con adeguata motivazione, che si sottrae a censura in questa sede.

E’ appena il caso di aggiungere che l’esattezza delle suddette valutazioni, non può formare oggetto di contestazione in questa sede, essendo notoriamente preclusi alla Corte di legittimità l’esame degli elementi fattuali e l’apprezzamento fattone dal giudice del merito al fine di pervenire al proprio convincimento. In conclusione si tratta di reiterazione delle difese di merito ampiamente e compiutamente disattese dai giudici di secondo grado, oltre che censura in punto di fatto della sentenza impugnata, inerendo esclusivamente alla valutazione degli elementi di prova ed alla scelta delle ragioni ritenute idonee a giustificare la decisione, cioè ad attività che rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se sorretto, come nel caso in esame, da adeguata e congrua motivazione esente da vizi logico-giuridici. Dalla ritenuta attendibilità dell’accusa discende, quindi, l’esatta affermazione della sussistenza dei contestati delitti, così come ritenuti o riqualificati dalla Corte.

Gli argomenti proposti dai ricorrenti costituiscono, in realtà, solo un diverso modo di valutazione dei fatti, ma il controllo demandato alla Corte di cassazione, è solo di legittimità e non può certo estendersi ad una valutazione di merito.

7) La censura relativa alla mancata considerazione dello spaziotemporale della presunta commissione di reati ai fini dell’applicazione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 è generica, non supportata da alcun concreto elemento valutativo.

Peraltro l’aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, art. 7 convertito nella L. n. 203 del 1991, risulta contestata, con riferimento al reato di cui al capo sei, per reati commessi fino al (OMISSIS), in epoca, quindi, successiva all’entrata in vigore del D.L. citato. Anche se la Corte territoriale ha escluso la sussistenza del reato associativo a carico degli imputati S. e T., tuttavia l’organizzazione criminale di stampo mafioso facente capo alla famiglia Arena è stata accertata, con sentenza passata in giudicato dalla Corte di appello di Catanzaro in data 27/9/1997 e l’assoluzione dei predetti imputati non ha incidenza alcuna in ordine alle vicende criminose e ai fatti storici che riguardano l’attuale ricorrente che si limita ad una generica richiesta di rilettura delle circostanze emerse, in forza di una diversa qualificazione dei fatti, inammissibile in sede di legittimità. 8) Le doglianze relative al diniego di concessione di attenuanti generiche sono manifestamente infondate in quanto il giudizio sulle circostanze e sulla quantificazione della sanzione deve ritenersi esaurientemente compiuto con il porre in risalto anche una sola delle circostanze suscettibili di valutazione. Nel caso specifico la Corte territoriale ha ritenuto di non concederle con riguardo ai numerosi precedenti specifici, non essendo il giudice comunque tenuto a considerare in maniera analitica i singoli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. esponendo per ciascuno di questi le rispettive ragioni che lo hanno indotto a formulare il proprio conclusivo giudizio (Cass. 2 2.9.00 n. 9387, ud. 15.6.00, rv. 216924).

9) F.C. lamenta la erronea ritenuta insussistenza della cd. desistenza volontaria, essendosi il reato consumato successivamente alla condotta ascrivibile al ricorrente, a seguito di ulteriori pressioni sulla parte offesa e senza che la precedente condotta posta in essere avesse in qualche modo agevolato la condotta altrui o determinato la parte offesa al pagamento.

Tale motivo è infondato; F.C., genero di V. G. si era recato, a bordo di una golf di colore scuro blindata all’appuntamento con la parte offesa al bivio dell'(OMISSIS) ed era a conoscenza delle richieste di denaro fatte al M. (cfr motivazione pag. 24 sentenza).

Anche a un secondo appuntamento per andare a (OMISSIS) a casa di S.P., è presente F.C. insieme a V.C., V.A., V.G. il ricorrente, quindi, era presente e ascoltò la richiesta estorsiva fatta al M. da V.D., che ripetè tale richiesta alla presenza di altri coimputati, tra cui il F., rafforzando con la forza intimidatrice della loro presenza la richiesta di denaro, facilitando l’esecuzione del reato in quanto la parte offesa potè in tal modo percepire la richiesta come proveniente da parte della famiglia Vallelunga alla quale in passato aveva dovuto sottostare. Appare, quindi evidente, che trattasi di condotta significativa, come ritenuto dalla Corte territoriale, avendo fornito il ricorrente, con la condotta posta in essere, un contributo causale agevolando, con la forza intimidatrice della sua presenza, le richieste estorsive indipendentemente dalla circostanza che lo stesso non fosse presente allorchè il M. ha pagato le somme estorte.

10) La Corte ha confermato il giudizio di equivalenza, operato dal Tribunale, tra attenuanti generiche e aggravante contestata, valutando gli elementi di cui all’articolo 133 del codice penale. Le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico, essendo sufficiente a giustificare la equivalenza tra attenuanti e aggravanti, aver ritenuto detta soluzione la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto. (Sez. 4, Sentenza n. 25532 del 23/05/2007 Ud. (dep. 04/07/2007) Rv. 236992, Sez. 3, Sentenza n. 26908 del 22/04/2004 Ud. (dep. 16/06/2004) Rv. 229298).

Conclusivamente tutti i ricorsi devono essere rigettati. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, le parti private che lo hanno proposto devono essere condannate al pagamento delle spese del procedimento, nonchè, in via tra loro solidale, al rimborso delle spese della parte civile costituita liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè, in solido, alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile M.G. che liquida in complessivi Euro 2.500,00, oltre spese generali, Iva e CPA. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 febbraio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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