Cons. Stato Sez. IV, Sent., 08-03-2011, n. 1423 commercio Edilizia e urbanistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.1. In data 12 giugno 2002, la ditta F.C.M. S.p.a. ha presentato al Comune di Seriate (Bergamo) una denuncia di inizio di attività (D.I.A.) avente ad oggetto la realizzazione sull’area posta in Via Comonte, angolo via Stella Alpina di due capannoni destinati ad attività produttiva generica.

I terreni interessati alla costruzione assommavano ad una superficie pari a complessivi mq. 17.737,64 ed erano classificati dalla strumentazione urbanistica all’epoca vigente nel seguente modo:

a) in prevalenza (mq. 13.342,55) in zona omogenea D1 "industriale di completamento e/o di sostituzione e/o ristrutturazione";

b) in parte (mq. 4.172,85) nella zona omogenea SC5 "spazi pubblici e aree per parcheggi pubblici";

c) per la parte residua (mq. 222,24) in zona omogenea E3 "verde di rispetto".

Il progetto di F. prevedeva, più esattamente, la realizzazione dei due capannoni e di un’area di parcheggio di pertinenza, per una superficie lorda di pavimento complessiva pari a mq. 6.998,58, di cui 4.243,88 mq. per il primo capannone e di 2.754,70 mq. per il secondo capannone.

Dall’esame della documentazione contestualmente prodotta all’Amministrazione Comunale, si evinceva – altresì – l’intenzione di destinare il primo capannone a centro commerciale. L’Amministrazione Comunale, con provvedimento espresso di conformità dd. 28 giugno 2002 n. 19214, ha riscontrato la D.I.A., la quale era immediatamente dopo volturata a favore della C.C. S.p.a. con nota dd. 29 giugno 2002.

Con ricorso proposto innanzi al T.A.R. per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, G.I. S.p.a. e O.P. S.p.a., entrambi operanti nel settore del commercio all’ingrosso, hanno impugnato la D.I.A. ed il parere espresso di conformità.

Giova sin d’ora evidenziare che G. esercita sul territorio nazionale attività di vendita all’ingrosso di prodotti in prevalenza alimentari ed è titolare di un esercizio commerciale di grandi dimensioni ubicato nel territorio comunale di Dalmine (Bergamo), nel mentre O.P. è titolare di un insediamento a Bergamo per la commercializzazione di prodotti ittici.

Le due ricorrenti hanno dedotto le seguenti censure:

1) Violazione e falsa applicazione degli artt. 35 e 36 delle N.T.A. del P.R.G., avendo dapprima F. e, quindi, la subentrata C.C. previsto la realizzazione di una struttura commerciale in un ambito espressamente destinato dallo strumento urbanistico ad ospitare insediamenti produttivi/industriali;

2) Violazione e mancata applicazione dell’art. 35 delle N.T.A. del P.R.G. di Seriate, dell’art. 22 della L.R. 15 aprile 1975 n. 51 e dell’art. 4 della L.R. 23 luglio 999 n. 14, in quanto nella progettazione dell’intervento difetterebbe qualsivoglia previsione in merito alla cessione di aree a standard, per le quali la disciplina vigente contemplerebbe l’obbligo di una dotazione di attrezzature pubbliche e di uso pubblico nella misura minima del 200% della superficie lorda di pavimento degli edifici previsti, di cui almeno la metà destinata a parcheggi;

3) Violazione ed omessa applicazione dell’art. 41 sexies della L. 17 agosto 1942 n. 1150, non avendo F. e C.C. individuato la necessaria dotazione di parcheggi privati pertinenziali, fissata dalla legge in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione;

4) Violazione e falsa applicazione dell’art. 15 delle N.T.A. del P.R.G. di Seriate e dell’art. 96 del R.D. 25 luglio 1904 n. 523, non essendo stato il progetto redatto nel rispetto della distanza, lungo il lato ovest del lotto, di almeno dieci metri dal corso d’acqua esistente.

Nel frattempo G.I. e O.P. venivano rese edotte delle ulteriori vicende che avevano investito la D.I.A. impugnata.

Segnatamente, in data 26 luglio 2002 il Comune ha informato C.C. dell’avvio del procedimento di caducazione della D.I.A. 8/6/2002 e della relativa nota di volturazione, in quanto gli elaborati grafici non avrebbero rappresentato l’effettiva regolamentazione riportata nel PRG vigente relativa al lotto oggetto di intervento (area individuata a spazi pubblici per parcheggi).

Malgrado la presentazione, in data 5 agosto 2002, di una D.I.A. in variante da parte della medesima C.D.S. Costruziomi con la precisazione che nel capannone n. 1 si sarebbe esercitata attività commerciale all’ingrosso e con la conseguente modifica di alcune parti del progetto originario, l’Amministrazione Comunale ha emesso in data 22 agosto 2002 una dichiarazione di improcedibiltà della D.I.A. anzidetta, diffidando C.D.S. dall’intraprendere qualsiasi opera.

Avverso tale provvedimento ha a sua volta proposto ricorso innanzi al T.A.R. Lombardia, Sezione di Brescia, la M.F. S.p.a., operante nell’ambito delle costruzioni e delle gestioni immobiliari, a tutt’oggi pendente sub R.G. 972 del 2002 innanzi al giudice di primo grado.

A seguito di trattative con M.F. e C.C., tuttavia, in data 24 ottobre 2002 il Comune ha comunicato a tali Società la propria decisione di non annullare la D.I.A. predetta, sottoscrivendo quindi con tali società in data 12 novembre 2002 un accordo a" sensi e per gli effetti dell’art. 11 della L. 7 agosto 1990 n. 241 che dava conto dell’intesa raggiunta.

Con motivi aggiunti depositati in data 27 novembre G.I. e O.P. le ricorrenti hanno impugnato a loro volta la D.I.A. in variante in tal modo assentita e tutti gli atti ad essa prodromici, deducendo al riguardo la violazione e falsa applicazione del principio di trasparenza amministrativa: e ciò in quanto il Comune avrebbe omesso di dare loro notizia dell’atto conclusivo del procedimento sanzionatorio nei confronti delle imprese contro interessate.

Per il resto le medesime ricorrenti hanno dedotto in via derivata le censure in precedenza sollevate, reputandole idonee a fa caducare anche la D.I.A. in variante assentita nei confronti delle imprese controinteressate..

1.2. Nel giudizio si sono costituiti il Comune di Seriate e le controinteressate C.C. S.p.a., F.C.M. S.p.a. e M.F. S.p.a., eccependo innanzitutto il difetto di legittimazione attiva in capo alle imprese ricorrenti, le quali, avendo sede e svolgendo l’attività in Comuni diversi da Seriate, non avrebbero alcun interesse diretto a dolersi dei provvedimenti impugnati, né sarebbero titolari di una posizione differenziata e qualificata sotto l’aspetto urbanistico.

Il Comune di Seriate ha altresì eccepito la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del ricorso e dei motivi aggiunti in quanto gli atti impugnati sarebbero stati superati e sostituiti da ulteriori atti, non tempestivamente impugnati dalle ricorrenti; e, sempre in via preliminare, ha pure eccepito l’inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti in quanto proposti avverso una D.I.A. e una variante della stessa, ossia nei riguardi di atti asseritamente privi di natura provvedimentale.

In subordine, il Comune e le contro interessate hanno comunque replicato puntualmente alle censure avversarie, concludendo per la loro reiezione.

1.3. Con sentenza n. 633 dd. 8 giugno 2004 la Sezione di Brescia del T.A.R. per la Lombardia ha respinto le eccezioni preliminari dedotte dal Comune di Seriate e dalle controinteressate e ha accolto il ricorso avuto esclusivamente riguardo al primo ordine di censure proposte da G. e da O.P., affermando peraltro che le funzioni integrative – tra cui quelle del commercio all’ingrosso – sono compatibili nel contesto normato dagli artt. 35 e 36 delle N.T.A. del P.R.G. con tutte le specifiche destinazioni d’uso fondamentale delle zone produttive nel limite massimo del 30% della superficie lorda di pavimento ammessa, ma con la precisazione che il limite medesimo si intende riferito non già all’intera zona territoriale omogenea, ma alle sole aree di proprietà del soggetto richiedente il titolo edilizio.

2. Tale sentenza del giudice di primo grado è stata presentata in data 18 giugno 2004 per la notifica al Comune di Seriate, a C.C., a F. e a M.F. da parte di G.I. e di O.P..

3.1. In conseguenza di ciò, con il primo dei ricorsi in epigrafe (R.G. 8670 del 2004) il Comune di Seriate chiede la riforma della sentenza medesima, deducendo nell’ordine le seguenti censure:

1) Erroneità, travisamento, contraddittorietà, carenza/insufficienza di motivazione in ordine alk riconosciuto interesse ad agire e difetto di legitimatio ad causam da parte di G.I. e di O.P..

Ad avviso della ricorrente Amministrazione Comunale la circostanza che tali società abbiano la propria sede al di fuori del territorio comunale di Seriate renderebbe le società medesime prive di legittimazione a impugnare la D.I.A. e la D.I.A. in variante assentite nei riguardi di F., di C.C. e di M.F., e ciò avendo riguardo sia agli interessi urbanistici, sia agli interessi commerciali invocati nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado.

In particolare, l’Amministrazione Comunale nega che per le particolari condizioni territoriali insistenti nell’area in questione sussista un bacino di utenza comune tra le attività economiche di G.I. e di O.P. e la struttura realizzata da C.C. e da M.F.; comunque, G.I. e O.P. avrebbero dimostrato in giudizio la coincidenza del proprio bacino di utenza con quello della struttura per cui è causa sotto il profilo dell’identità dei prodotti alimentari e dei marchi rispettivamente commercializzati.

2) Erroneità, travisamento, contraddittorietà, carenza/insufficienza di motivazione in ordine al riconosciuto interesse ad agire dotto ulteriore profilo.

La difesa del Comune evidenzia che, ove pure si reputasse che nell’area in questione non sia consentita la realizzazione di una struttura ad uso commerciale, tale realizzazione sarebbe viceversa ben possibile in altre aree del territorio comunale: il che, dunque, consentirebbe comunque la costruzione della struttura progettata da C.C. e da M.F. su di uno qualsiasi dei sedimi a ciò destinati, con la conseguenza che in tale circostanza nulla potrebbero opporre G.I. e O.P., anche in relazione alla circostanza che esse in ogni caso non potrebbero dedurre al riguardo interessi di carattere urbanistico non essendo titolari di insediamenti nel territorio comunale di Seriate.

3) Travisamento ed errata interpretazione dell’art. 35, terzo comma, delle N.T.A. del P.R.G. comunale e contraddittorietà, risultando ex se apodittico l’assunto, contenuto nella sentenza impugnata, secondo il quale il limite massimo del 30% della superficie lorda di pavimento ammessa si intende riferito non già all’intera zona territoriale omogenea, ma alle sole aree di proprietà del soggetto richiedente il titolo edilizio.

4) Errore sul fatto e travisamento, non avendo il giudice di primo grado considerato che, comunque, la superficie intera del lotto interessato alla costruzione, estesa per complessivi mq. 17.737,64, è nella specie sempre ricaduta nella proprietà di un solo soggetto, ossia dapprima F. e, successivamente, C.C., con la conseguenza che sarebbe stata materialmente ivi occupata una superficie lorda di pavimento pari a mq. 16.011,06, di cui per attività produttiva (70% minimo) pari a mq. 11.207,04, e per attività compatibili (30% massimo) pari a mq. 4.803,32.

Tale circostanza di fatto smentirebbe, pertanto, l’assunto contenuto nella sentenza impugnata secondo cui, invece, "esaminando la D.I.A. in variante del 5 agosto 2002, risulta che la superficie lorda di pavimento del capannone n. 1 – destinato a Centro commerciale – è pari a mq. 4259,29, mentre la superficie del capannone n. 2 è pari a mq. 2754,70, per un totale complessivo di mq. 7013,99. Applicando il 30% a tale ultimo valore si ottengono i mq. ammissibili per funzioni integrative, pari a mq. 2104,19. Appare evidente come la Società controinteressata, costruendo del Centro commerciale, abbia oltrepassato il limite percentuale massimo consentito di circa il doppio: pertanto la D.I.A. in variante e il parere di conformità emesso dal Comune sono illegittimi".

3.2. Si sono costituite in giudizio G.I. e O.P., replicando puntualmente alle censure avversarie e concludendo per la reiezione del ricorso.

3.3. G.I. e O.P. hanno peraltro contestualmente proposto anche un ricorso incidentale, chiedendo a loro volta la riforma della sentenza impugnata dal Comune deducendo, innanzitutto l’avvenuta violazione e falsa applicazione degli artt. 35 e 35 delle N.T.A. del P.R.G. di Seriate ed errore nella motivazione, avendo a loro avviso il giudice di primo grado mancato di rilevare che la corretta interpretazione storicosistematica di tale disciplina di piano condurrebbe inesorabilmente alla conclusione per cui nell’area in questione non potrebbero essere realizzate strutture ad uso commerciale.

Con il medesimo ricorso incidentale sono state quindi riproposte tutte le ulteriori censure già formulate dalle medesime parti in primo grado.

3.4. Si sono parimenti costituite in giudizio le intimate C.C. e M.F., concludendo – viceversa – per l’accoglimento del ricorso proposto dal Comune.

4.1. Con il secondo ricorso in epigrafe (R.G. 8754 del 2004) C.C. e M.F. chiedono a loro volta la riforma della medesima sentenza n. 633 dd. 8 giugno 2004 resa dal T.A.R. per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, deducendo:

1) Inammissibilità del ricorso proposto in primo grado, in quanto G.I. e O.P. di uno stabile collegamento con il territorio comunale di Seriate, nonché in considerazione della circostanza che non sarebbe stato nella specie evocato in giudizio un contraddittore necessario, ossia la S.C.&.C. S.p.a., soggetto societario che materialmente è il gestore dell’attività commerciale insediata nell’area in questione.

Ad avviso di G. e di O.P., inoltre, il ricorso proposto in primo grado doveva essere dichiarato inammissibile in quanto proposto avverso una D.I.A. e una sua variante, ossia avverso atti di diritto privato, nel mentre poteva essere censurabile -al caso – soltanto il susseguente comportamento dell’Amministrazione Comunale finalizzato alla verifica della legittimità dell’iniziativa edilizia intrapresa dall’impresa presentatrice della D.I.A. e della variante predetta.

2) Errore di fatto, proponendo in tal modo – a loro volta – la seconda e la terza censura contenute nel ricorso in appello presentato sub R.G. 8670 del 2004 dal Comune di Seriate:

3) Travisamento dei fatti. Errata interpretazione degli artt. 35 e 36 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Seriate. Contraddittorietà.

C.C. e M.F., pur reputando sufficiente alla riforma della sentenza la censura che precede, affermano l’erroneità della sentenza impugnata anche laddove ha escluso il commercio all’ingrosso dalle funzioni ammesse nella zona "D1industriale di completamento e/o di sostituzione e di ristrutturazione": zona in cui, nella specie, ricade il fabbricato n. 1 realizzato per effetto della D.I.A. in variante delk 5 agosto 2004.

C.C. e M.F. rilevano in tal senso che l’art. 35 delle N.T.A. del P.R.G. di Seriate enuncia in via generale le funzioni ammesse nella zona produttiva D, comprendendo espressis verbis tra queste le "attività industriali o artigianali o di sosta o di smistamento, distribuzione di merci e prodotti, dirette alla trasformazione dei beni ed alla prestazione di servizi, nonché destinati ad attività commerciali, direzionali, turistiche e terziarioamministrative", e che l’art. 36 delle medesime N.T.A., a sua volta, non recherebbe disposizioni in ordine alle destinazioni d’uso ammesse, nel mentre conterrebbe la sola fissazione degli indici di edificabilità ivi ammessi e la rilevazione della presenza nella relativa subzona di attività commerciali.

Ad avviso di C.C. e di M.F., se è pur vero che – di per sé – nel medesimo strumento urbanistico la zona D7 è espressamente riservata alle sole funzioni commerciali, nondimeno la disciplina di tutte le altre subzone enuncerebbe la sola funzione principale ivi presente, senza peraltro con ciò escludere l’insediamento di altre attività compatibili con la zonizzazione D, se non a pena di violazione del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444; né andrebbe sottaciuto che a" sensi dell’art. 2 della L.R. 19 del 2002 (sic a pag. 15 del ricorso in appello; recte, art. 2 della L.R. 9 maggio 1992 n. 19) "è da intendersi destinazione d’uso di un’area… il complesso di funzioni (ivi) ammesse dallo strumento urbanistico", intendendosi per principale la destinazione d’uso qualificante e complementare o accessoria la destinazione po le destinazioni che integrano o rendono possibile la destinazione d’uso principale.

Inoltre, il commercio all’ingrosso sarebbe cosa ben diversa dal commercio al minuto, essendo il primo escluso dalla disciplina di principio contenuta nel D.L.vo 31 marzo 1998 n. 114 da ogni programmazione commerciale e urbanistica, subordinandone l’attività alla sola autorizzazione commerciale.

Secondo la prospettazione di C.C. e di M.F., nell’attività del grossista rientrerebbe pure la trasformazione e il confezionamento poi collocati a disposizione del consumatore dai dettaglianti, con la conseguenza che l’art. 35 delle N.T.A. del P.R.G. di Seriate, laddove enuncia le "attività… dirette alla trasformazione dei beni e alla prestazione dei servizi" si riferirebbe non solo alle attività industriali, ma anche alle attività di commercio all’ingrosso.

4.2. Si sono costituite anche in questo procedimento G.I. e O.P., replicando puntualmente alle censure avversarie e concludendo per la reiezione del ricorso avversario.

Anche in questo procedimento, inoltre, esse hanno proposto un ricorso incidentale analogo a quello già presentato sub R.G. 8670 del 2004.

4.3. Si è inoltre costituito in giudizio il parimenti intimato Comune di Seriate, concludendo – viceversa – per l’accoglimento del ricorso.

5. Alla pubblica udienza del 28 gennaio 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

6. Il Collegio reputa innanzitutto di riunire per la trattazione comune i due ricorsi in epigrafe per connessione oggettiva, risultando gli stessi proposti avverso la medesima sentenza resa in primo grado.

7.1. Il Collegio deve in primo luogo farsi carico di disaminare congiuntamente il primo e il secondo motivo del ricorso proposto sub R.G. 8670 del 2004 dal Comune di Seriate e il primo motivo del ricorso proposto sub R.G. 8754 del 2004 da C.C. e da M.F., i quali riproducono nel loro complesso le eccezioni di inammissibilità del ricorso proposto in primo grado.

Tali motivi di impugnazione vanno respinti, in quanto tali eccezioni sono state correttamente respinte dal T.A.R.

7.2. Come detto innanzi, le parti qui ricorrenti affermano il difetto di legittimazione attiva in capo a G.I. e O.P., le quali, avendo sede e svolgendo attività in Comuni diversi da Seriate, sarebbero prive di un interesse diretto ad impugnare la D.I.A. e la susseguente variante rilasciate a F., a C.C. e a M.F., nonché gli atti ad esse presupposti, né sarebbero titolari di una posizione differenziata e qualificata sotto l’aspetto urbanistico, posto che nel caso di specie difetterebbe quello stabile collegamento fra soggetto agente e zona incisa dall’assentito titolo abilitativo che la giurisprudenza correntemente richiede come condizione per esperire la tutela giurisdizionale innanzi alla giurisdizione amministrativa.

A fondamento di ciò le medesime parti qui ricorrenti evidenziano che G.M. esercita sul territorio nazionale l’attività di vendita all’ingrosso di beni prevalentemente alimentari ed è titolare di un esercizio di grandi dimensioni nel Comune di Dalmine, nel mentre O.P. è titolare a Bergamo di una struttura per la commercializzazione all’ingrosso di prodotti ittici.

Secondo quanto evidenziato agli atti del fascicolo di primo grado, i Comuni di Dalmine e Seriate distano tra loro circa dieci chilometri e risultano collegati direttamente dall’autostrada, nel mentre l’abitato di Seriate sorge a ridosso della città di Bergamo, dalla quale è pure facilmente raggiungibile.

Il giudice di primo grado ha correttamente evidenziato che nella particolare tipologia dell’attività in esame, ossia il commercio all’ingrosso, il numero di transazioni è invero più limitato rispetto alla vendita al dettaglio, ma contempla lo spostamento di copiose quantità di merci e prodotti con l’impiego di capienti mezzi di trasporto su gomma, ove per l’economia di ciascun viaggio è del tutto indifferente percorrere dieci o venti chilometri in aggiunta, dove la differenza è – viceversa – fatta dal prezzo, nonché dalla quantità e dalla qualità dei prodotti disponibili.

Deve dunque ragionevolmente concludersi che G.I. e O.P. operano all’interno della medesima area di influenza commerciale ove insiste il nuovo esercizio di vendita all’ingrosso realizzato da C.C. e da M.F., il quale, tenendo conto della distanza, delle dimensioni e delle caratteristiche della sua attività, è dunque potenzialmente idoneo ad introdurre elementi di squilibrio nel tessuto commerciale della zona nella quale le medesime G.I. e O.P. S.p.a. hanno già acquisito legittimamente una posizione di mercato (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. V, 3 gennaio 2002 n. 11): e – come sempre correttamente affermato dal giudice di primo grado – la circostanza che gli esercizi siano ubicati in Comuni diversi non fa venir meno l’interesse ad impedire lo svolgimento di un’attività economica potenzialmente concorrenziale la quale, per la natura dei prodotti offerti, è idonea a soddisfare parte della medesima domanda del pubblico, considerato che la clientela potrebbe essere attratta dal nuovo insediamento per l’oggettiva e relativa vicinanza dei punti vendita (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 30 marzo 1998 n. 378); e – a differenza di quanto affermato dalla difesa del Comune – tale circostanza è idonea ex se a legittimare l’azione di annullamento proposta da G.M. Italia e da O.P., non necessitando in proposito giudizio una comprova dell’identità del bacino di utenza delle medesime ricorrenti in primo grado con quello della struttura per cui è causa sotto il profilo dell’identità dei prodotti alimentari e dei marchi rispettivamente commercializzati.

Altrettanto correttamente il giudice di primo grado ha evidenziato che, nella specie, non può soccorrere l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in tema di impugnazione di un titolo edilizio, la legittimazione a ricorrere va individuata applicando il criterio dello "stabile collegamento" tra il ricorrente e la zona interessata dall’attività assentita dalla concessione asseritamente illegittima, ove tale relazione può derivare dalla residenza nella zona interessata, dalla proprietà, possesso o detenzione di immobili nella zona medesima, ovvero da altro titolo di radicata frequentazione di quest’ultima.

Tale indirizzo, infatti, riconosce la legittimazione a ricorrere unicamente a salvaguardia dei valori urbanistici, e quindi apprezza "l’insediamento" come stabile ubicazione delle aspirazioni di vita dei cittadini (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 30 gennaio 2003 n. 269), nel mentre nella fattispecie qui disaminata affiorano interessi di natura precipuamente commerciale, autonomamente idonei a radicare una pretesa tutelabile in sede giurisdizionale.

Del tutto irrilevante, sotto tale aspetto, è l’assunto dell’Amministrazione Comunale secondo cui, ove pur si ammettesse l’impossibilità giuridica di localizzare la struttura per cui è causa nell’area D1 già in disponibilità di F. e poi ceduta a C.C., la struttura medesima potrebbe essere comunque localizzata senza obiezioni di sorta in altre aree ricadenti nel territorio comunale di Seriate, con ciò rendendo l’impugnativa proposta in primo grado da G.I. e da O.P. destituite del necessario interesse a ricorrere.

La tesi del Comune è infatti all’evidenza infondata, posto che l’interesse di G.I. e di O.P. ad avversare i titoli edilizi di C.C. e di M.F. risulta, di per sé, sussistere proprio in relazione all’assorbente circostanza che il sedime rientrante nella loro disponibilità e da esse conseguentemente utilizzato per la costruzione della struttura non è, viceversa, ritenuta utilizzabile – nell’interpretazione delle N.T.A. del P.R.G. sostenuta dalle medesime G.M. Italia e O.P. e proposta all’esame di questo giudice – per insediamenti a destinazione commerciale: e a nulla rileva in contrario una del tutto ipotetica possibilità per C.C. e M.F. di localizzare la struttura in altra e non meglio precisata area del territorio comunale, nella quale l’incompatibilità della funzione commerciale non sussisterebbe.

7.3. Né può accogliersi la tesi di C.C. e M.F. secondo la quale il ricorso in primo grado sarebbe inammissibile in quanto nella specie non sarebbe stato evocato in giudizio un contraddittore necessario, ossia la S.C.&.C. S.p.a., soggetto societario che materialmente è il gestore dell’attività commerciale insediata nell’area in questione.

L’estensione del contraddittorio a tale soggetto non risultava, infatti, necessaria poiché esso non compare nominativamente nella D.I.A. e sua Variante, né negli atti prodromici ad esse, nel mentre il ricorso e i suoi motivi aggiunti sono stati correttamente notificati agli unici soggetti con i quali il contraddittorio processuale doveva essere costituito (ed è stato in effetti costituito), ossia nei confronti delle imprese che avevano ottenuto o comunque utilizzato i titoli edilizi, comunque inequivocabilmente finalizzati alla realizzazione di una struttura commerciale e – pertanto – intrinsecamente lesivi per gli interessi delle ricorrenti in primo a grado: e ciò, anche a prescindere dal soggetto imprenditoriale che poi avrebbe utilizzato la struttura stessa.

7.4. Va anche respinta la censura secondo la quale il ricorso e i motivi aggiunti in primo grado sarebbero inammissibili in quanto proposti avverso una D.I.A. e una sua Variante, posto che, secondo la più recente evoluzione giurisprudenziale, qui confermata, i terzi che si assumano lesi dal silenzio serbato dall’Amministrazione Comunale a fronte della presentazione della D.I.A. sono legittimati a gravarsi non avverso il silenzio stesso ma, nelle forme dell’ordinario giudizio di impugnazione, avverso il titolo che, formatosi e consolidatosi per effetto del decorso del termine, si configura in definitiva come fattispecie provvedimentale a formazione implicita (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25 novembre 2008 n. 5811, nonché Sez. V, 20 gennaio 2003 n. 172 e Sez. VI, 5 aprile 2007 n. 1550).

In particolare, la testè riferita decisione n. 5811 del 2008 resa da questa stessa Sezione ha recisamente ritenuto "non praticabile… un orientamento diverso", rilevando innanzitutto che, in relazione all’istituto della D.I.A., già previsto in via generale all’epoca dei fatti di causa dall’art. 19 della L. 7 agosto 1990 n. 241 (si badi, ad onta della tanto conclamata "semplificazione normativa", poi sostituito dall’art. 85, comma 1, del D.L.vo 26 marzo 2010, n. 59 e modificato dall’art. 4, comma 1, punto 14), dell’All. 4 al D.L.vo 2 luglio 2010 n. 104, già modificato dall’art. 9 della L. 18 giugno 2009, n. 69, modificato dall’art. 21, comma 1, lett. aa), della legge 11 febbraio 2005, n. 15 e quindi sostituito dall’art. 3, comma 1, del D.L. 14 marzo 2005 n. 35 convertito con modificazioni in L. 14 maggio 2005 n. 80; e, in precedenza, già sostituito dall’art. 2, comma 10, della L. 24 dicembre 1993, n. 537: e ciò, prima di essere da ultimo integralmente sostituito con il nuovo istituto della S.C.I.A. – Segnalazione certificata di inizio attività per effetto dell’art. 49, comma 4bis, del D.L. 31 maggio 2010 n. 78 convertito con modificazioni in L. 30 luglio 2010 n. 122) il moltiplicarsi della normativa in materia ha condotto ad una vera e propria frantumazione dell’istituto medesimo in una pluralità di forme applicative per diversi settori, ciascuno dei quali assoggettato ad un regime più o meno peculiare (cfr. sul punto la decisione n. 3916 dd. 22 luglio 2005, resa dalla Sezione) ma – nondimeno – razionalizzabile secondo una sua ricostruzione unitaria.

Una pregressa interpretazione ha invero a suo tempo escluso che dalla D.I.A. potesse scaturire un atto amministrativo, perché si tratterebbe di atto soggettivamente e oggettivamente privato, il quale avrebbe soltanto il valore di una comunicazione fatta dal privato alla Pubblica Amministrazione circa la propria intenzione di realizzare un’attività direttamente conformata dalla legge e che non necessiterebbe di titoli provvedimentali (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 4 settembre 2002 n.4453; cfr. – altresì – sulla natura di mera informativa della D.I.A. anche Cass. civ., Sez. I, 24 luglio 2003 n. 11478): ma da tale tesi sono derivati rilevanti problemi sostanziali e processuali.

Si era infatti con ciò posto, in particolare, l’articolato problema dell’esatta natura giuridica del silenzio eventualmente mantenuto dall’Amministrazione Comunale nei venti giorni successivi alla presentazione di una denuncia di inizio attività (e ciò, nello specifico modulo delineato in materia edilizia dall’art. 2, comma 60, della L. 23 dicembre 1996 n. 662), dei rimedi giurisdizionali di cui il terzo disponesse per opporsi all’esecuzione dei lavori intrapresi in base alla semplice denuncia del loro inizio da parte dell’interessato (in particolare nel caso che l’Amministrazione Comunale non avesse adottato un formale provvedimento inibitorio nel termine dei venti giorni prescritti dalla norma, prima che l’attività denunciata possa essere intrapresa dall’interessato) e, dunque, se il comportamento silente in questione fosse qualificabile come "inadempimento" e come tale fosse quindi impugnabile (solo) secondo il rito speciale di cui all’art. 21bis della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 a suo tempo in vigore.

La disciplina contenuta nella L. 662 del 1996 è stata quindi sostituita da quella contenuta nell’art. 23 del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380.

Comunque sia, ad avviso della predetta decisione n. 5811 del 2008, la D.I.A. si configura, anche nei predetti termini generali di cui all’art. 19 della L. 241 del 1990 così come vigente all’epoca dei fatti di causa, quale istituto del tutto peculiare che consente al privato l’esercizio di una certa attività comunque rilevante per l’ordinamento, già subordinato a qualsivoglia forma di autorizzazione e – per l’appunto – comunque assimilabile ad un’istanza autorizzatoria, la quale, con il decorso del términe di legge, provoca la formazione di un "titolo" che rende lecito l’esercizio dell’attività, ossia di un provvedimento tacito di accoglimento dell’istanza del privato.

L’atto di comunicazione dell’avvio dell’attività, a differenza di quanto accade nel caso del c.d. "silenzio – assenso", a sua volta disciplinato dall’articolo 20 della medesima L. 241 del 1990, non è quindi una domanda, ma un’informativa, cui è subordinato l’esercizio del diritto: e il provvedimento, rispetto al quale l’Amministrazione Comunale potrà esercitare poteri di autotutela (non solo vincolati a carattere repressivo, ma anche discrezionali di secondo grado) si forma con l’esperimento di un ben delineato modulo procedimentale, all’interno del quale la D.I.A. costituisce pur sempre un’autocertificazione della sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge per la realizzazione dell’intervento, sulla quale la Pubblica Amministrazione svolge una attività eventuale di controllo, al tempo stesso prodromica e funzionale al formarsi, a seguito del mero decorso del periodo di tempo normativamente prefissato (e non, dunque, dell’effettivo svolgimento della attività medesima), del titolo necessario per il lecito dispiegarsi della attività del privato.

Il fatto che l’art. 21, comma 2, della L. 241 del 1990 stabilisca che le sanzioni già previste per le attività svolte senza la prescritta autorizzazione siano applicate quando l’attività, pur dopo la comunicazione all’Amministrazione, venga iniziata in mancanza dei requisiti richiesti o comunque in contrasto con le disposizioni di legge, l’ulteriore circostanza che lo stesso art. 21 della L. 241 del 1990, al comma 2bis, configuri l’inizio della attività "ai sensi degli articoli 19 e 20" non preclusivo dell’esercizio delle "attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti" e che la previsione espressa del potere dell’Amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela (cfr. il comma 3 dell’art. 19 della L. 241 del 1990) presupponga comunque la sussistenza di un provvedimento su cui intervenire (e ciò anche con riferimento a quanto stabilito per la D.I.A. edilizia dall’art. 38, comma 2bis, del T.U. approvato con D.P.R. 380 del 2001, laddove l’ "accertamento dell’inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo" è espressis verbis equiparata ai casi di "permesso annullato") complessivamente confortano, quindi, il riconoscimento alla D.I.A. di una valenza sicuramente provvedimentale a formazione tacita.

8.1. Vanno viceversa accolte le censure comunemente dedotte nei due ricorsi in ordine all’interpretazione del contenuto degli artt. 35 e 36 delle N.T.A. del P.R.G. resa dal giudice di primo grado.

8.2. Il T.A.R. a tale proposito ha innanzitutto evidenziato che, secondo la prospettazione delle ricorrenti in primo grado, l’art. 35 delle N.T.A. del P.R.G. di Seriate recherebbe un’articolata elencazione, corredata da una disciplina di carattere generale, di tutte le funzioni ammissibili in zona D, le quali spaziano dall’industriale all’artigianale, al terziario commerciale e direzionale, nel mentre nei successivi articoli sarebbero puntualizzate le destinazioni specifiche assentite in ogni singola subzona omogenea: si tratterebbe dunque, secondo la prospettazione di G.M. Italia e di O.P., di una disciplina pianificatoria rigida, recante una circostanziata individuazione delle funzioni insediabili nelle subzone omogenee, ciascuna delle quali – secondo le indicazioni del piano medesimo – sarebbe idonea ad ospitare unicamente l’attività esplicitamente contemplata dalla norma di riferimento: e, conseguentemente, le zone D1 e D2 sarebbero destinate agli insediamenti industriali, le zone D3 e D4 a quelli artigianali, le zone D6 e D7 alle iniziative terziariocommerciali, nel mentre soltanto nella zona D5 sarebbe ammessa la polifunzionalità, ossia tutte le destinazioni elencate in via generale all’art. 35 seppure previa indicazione "con nomenclatura nelle tavole grafiche".

L’area interessata dal ricorso, inserita nella zona omogenea "D1 – industriale di completamento e/o di sostituzione e di ristrutturazione" di cui all’art. 36 delle N.T.A., avrebbe come destinazione d’uso fondamentale l’attività lavorativa di tipo industriale, nel mentre la distribuzione all’ingrosso apparirebbe come destinazione fondamentale nelle zone D6 e D7 di cui agli artt. 41 e 42 delle N.T.A. "a destinazione terziaria prevalente, di completamento e/o sostituzione e/o ristrutturazione" ovvero "a destinazione terziaria prevalente, di espansione e/o nuovo impianto".

Il T.A.R. ha quindi evidenziato che, sempre secondo la prospettazione delle ricorrenti in primo grado, la scelta di collocare un centro commerciale in zona D1 sarebbe pertanto in palese contrasto con la disciplina dettata dal P.R.G., la quale – per l’appunto – contempla la possibilità di insediare, come funzioni prevalenti, unicamente attività di natura industriale; né potrebbe invocarsi – sempre secondo tale prospettazione – l’art. 35 comma 3 delle N.T.A., che indica le funzioni integrative compatibili con la destinazione fondamentale delle zone produttive, ove non sia specificamente richiamata nelle ulteriori indicazioni del P.R.G..

Il T.A.R., per parte propria, ha rilevato che, secondo quanto testualmente disposto dall’art. 35, primo comma, delle N.T.A. "le zone produttive devono essere riservate, secondo le indicazioni del P.R.G., alla sistemazione dei luoghi, alle attrezzature, alle costruzioni ed agli impianti, tutto ciò destinato ad attività industriali o artigianali o di sosta, smistamento, distribuzione di merci e prodotti, dirette alla trasformazione dei beni ed alla prestazione di servizi, nonché destinati ad attività commerciali, direzionali, turistiche e terziario amministrative", nel mentre a" sensi del susseguente quinto comma dello stesso articolo "per le zone produttive polifunzionali sono specificamente individuate con apposito segno grafico e nomenclatura indicante le funzioni insediabili".

Lo stesso giudice ha – altresì – evidenziato che il P.R.G. del Comune di Seriate enuclea diverse tipologie di attività produttive collocandole nell’unica zona D, le cui aree sono al contempo suddivise in sette diverse subzone omogenee, ciascuna con un proprio peculiare regime urbanistico. La generale elencazione – contenuta nell’art. 35 – delle categorie di funzioni insediabili, è pertanto – sempre ad avviso del T.A.R. – meramente esemplificativa, essendo ognuna di esse puntualmente allocata in una subzona "secondo le indicazioni del P.R.G." (cfr. art. 35 comma 1): così, ad esempio, nella subzona D1 di cui all’art. 36 sono contemplate le attività industriali di completamento, e/o di sostituzione e/o di ristrutturazione, nella subzona D3 sono previste le attività artigianali di completamento, e/o di sostituzione e/o di ristrutturazione, mentre nella zona D7 di cui all’art. 42 – a destinazione terziaria prevalente e di espansione e/o nuovo impianto – sono elencati uffici, negozi, grandi magazzini di vendita, alberghi, ristoranti, etc.

Del resto – evidenzia sempre il giudice di primo grado – l’art. 40 delle N.T.A. stabilisce che "il P.R.G. individua le zone parzialmente edificate con destinazione esistente prevalentemente produttiva, in cui è ammessa la trasformazione urbanisticoedilizia con destinazione polifunzionale, ammettendo quindi di norma tutte le destinazioni produttive di cui al precedente art. 35 e più precisamente sono ammesse le destinazioni indicate con nomenclatura nelle tavole grafiche": e se lo strumento urbanistico generale ha individuato specificamente delle aree – classificate D5 – ove sono ammesse tutte le funzioni elencate all’art. 35 previa indicazione con apposito segno distintivo nella cartografia, si evince a contrario che non è altrove consentito in zona D l’insediamento, a titolo principale, di una qualunque attività produttiva, ma si possono unicamente realizzare le destinazioni testualmente previste dalla normativa dettata per ogni singola subzona omogenea.

Pertanto in zona D1 sono ammessi in prevalenza insediamenti industriali, che si pongono in alternativa alle strutture di tipo artigianale previste in subzona D3 e D4 ed a quelle terziarie, elencate all’art. 42 riguardante la subzona D7: "uffici, negozi, grandi magazzini di vendita, alberghi, ristoranti, sale di spettacoli e di ricreazione, esercizi e servizi pubblici ed istituti di credito".

Da queste notazioni il giudice di primo grado ricava la conseguenza secondo cui il commercio all’ingrosso va sussunto entro la subzona D7, che contempla attività afferenti la distribuzione di beni e la prestazione di servizi, ossia tipicamente commerciali, direzionali, turistiche e amministrative.

Sempre in tal senso, lo stesso giudice ha reputato inconferente la disciplina contenuta nell’art. 1, comma 2, della L.R. 15 gennaio 2001 n. 1, in forza della quale "i Comuni indicano, attraverso lo strumento urbanistico generale, le destinazioni d’uso non ammissibili rispetto a quelle principali delle singole zone omogenee o di immobili; in tutti gli altri casi il mutamento di destinazione d’uso è ammesso".

Invero, ad avviso del T.A.R., il legislatore regionale avrebbe inteso diversamente consentire in ciascuna zona, mediante la disciplina medesima, ogni destinazione d’uso non espressamente vietata in sede di regolamentazione urbanistica, e il comma 6 del medesimo articolo dispone testualmente che i Comuni debbono provvedere ad adeguare i propri strumenti di pianificazione alla novella legislativa: e se il susseguente art. 8 prevede che "le disposizioni di cui agli articoli 2, 3 e 4 sono immediatamente prevalenti sulle norme e previsioni urbanistiche comunali o contenute in strumenti pianificatori", non si rintraccia nel testo della legge un’identica previsione in riferimento alla disciplina contenuta nell’articolo 1 testè riferito, con la conseguenza che la disposizione surriportata non può ritenersi immediatamente operativa ed automaticamente applicabile in deroga alla regolamentazione vigente, ma richiede l’intermediazione dei competenti organi comunali a mezzo di una specifica variante al P.R.G., che nella fattispecie non è ancora stata adottata.

Il T.A.R. – per contro – conferisce rilievo alla disposizione di cui al comma 3 dell’art. 35 delle N.T.A. del P.R.G., esplicitamente riferita alle funzioni integrative, le quali sono quindi dichiarate compatibili con tutte le specifiche destinazioni d’uso fondamentali delle zone produttive nel limite massimo del 30% della superficie lorda di pavimento ammessa.

In particolare, la lettera c) del comma 3 testè citato espressamente contempla, tra le attività consentite in ciascuna subzona, "magazzini e depositi, ristoranti, bar, locali di divertimento e svago".

Secondo il giudice di primo grado, la generica locuzione ivi contenuta, proprio perché individua i magazzini ed i depositi senza esplicitare ulteriormente la specifica destinazione, rende ben evidente la volontà del soggetto pianificatore di consentire l’insediamento di tale tipo di strutture a prescindere dall’attività in concreto esercitata, ovvero industriale, artigianale o commerciale; né si renderebbe necessaria, in questo caso, un’ulteriore indicazione del P.R.G. per ciascuna subzona, e ciò sia per l’assenza di un’esplicita disposizione in tal senso, sia per l’univocità del dettato normativo, peraltro coerente con l’intero assetto delineato dall’Ente titolare del potere di programmazione urbanistica.

Pertanto, ad avviso del T.A.R., se il P.R.G. ha rigidamente distinto le aree ad uso produttivo in sette subzone, ciascuna con una funzione prevalente incompatibile con le altre, è oltremodo logica la previsione di una serie di attività complementari o integrative (dai servizi sociali al ricovero per automezzi, dagli spazi di vendita diretta ai magazzini e depositi agli impianti pubblici ed alle urbanizzazioni) il cui insediamento è ovunque consentito, sia pur entro una determinata misura percentuale.

In tal modo verrebbe pertanto a porsi una norma di chiusura e di riequilibrio di un sistema già abbastanza articolato, il quale – diversamente opinando – sarebbe altrimenti da considerare irragionevolmente rigido, dovendosi ad esempio attendere l’adozione di una variante per l’apertura di un bar o di una palestra qualora lo strumento di piano non l’avesse espressamente indicata nella singola subzona.

Premesso tutto ciò, il giudice di primo grado ha testualmente affermato che "resta tuttavia da affrontare la questione della base per il calcolo percentuale della superficie lorda di pavimento ammessa per le funzioni integrative, ovvero se essa sia riferibile all’intera zona oppure alle sole aree di proprietà del soggetto richiedente. La soluzione al quesito permetterà di verificare se il Centro commerciale della Società controinteressata abbia rispettato tale parametro con riferimento alla D.I.A. in variante presentata. Il Collegio ritiene che ragioni di ordine logico suggeriscano di aderire alla seconda opzione interpretativa. Riferendo l’indice del 30% all’intera subzona omogenea, si finirebbe per consentire al soggetto che lo richiede per primo lo sfruttamento dell’intero spazio disponibile per dislocare attività di tipo integrativo ai sensi dell’art. 35 comma 3 delle N.T.A.: paradossalmente, il proprietario del 30% della superficie di zona potrebbe realizzare impianti e strutture complementari fino ad esaurimento dell’indice, mentre gli altri soggetti titolari di diritti reali su aree di superficie maggiore sarebbero irragionevolmente penalizzati per la semplice circostanza di aver rassegnato il proprio progetto in un momento successivo. E’ dunque più congruo applicare l’indice del 30% alla superficie lorda di pavimento ammessa nelle singole aree di proprietà, peraltro in ossequio al principio di tutela piena del diritto dominicale espresso all’art. 832 c.c. per cui il titolare del bene può realizzare ogni facoltà consentita dall’ordinamento e, nella fattispecie, insediare attività integrative entro il limite del 30% della superficie lorda di pavimento del suo lotto. Alla luce di queste considerazioni, nel caso sottoposto all’esame del Collegio i controinteressati avevano titolo per realizzare l’insediamento commerciale nella misura massima del 30% della superficie lorda di pavimento dei lotti di proprietà. Esaminando la D.I.A. in variante del 5 agosto 2002, risulta che la superficie lorda di pavimento del capannone n. 1 – destinato a Centro commerciale – è pari a mq. 4259,29, mentre la superficie del capannone n. 2 è pari a mq. 2754,70, per un totale complessivo di mq. 7013,99. Applicando il 30% a tale ultimo valore si ottengono i mq. ammissibili per funzioni integrative, pari a 2104,19. Appare evidente come la Società controinteressata, costruendo del Centro commerciale, abbia oltrepassato il limite percentuale massimo consentito di circa il doppio: pertanto la D.I.A. in variante e il parere di conformità emesso dal Comune sono illegittimi".

Ciò posto, a ragione l’Amministrazione Comunale ha evidenziato, nel proprio atto di appello, che il criterio del riferimento del predetto limite del 30% della superficie lorda di pavimento all’estensione di ciascun lotto di proprietà esistente nelle diverse subzone e non già all’estensione di ciascuna delle subzone medesime non risulta in alcun modo prefigurato dalle disposizioni in esame; senza sottacere che il criterio della tutela domenicale è, di per sé, fisiologicamente estraneo alle discipline di pianificazione urbanistica del territorio: e ciò, in particolare, negli strumenti di carattere generale – tra i quali, per l’appunto, rientra il P.R.G. – nei quali l’unico criterio prevalente è quello del pubblico interesse ad un organico, coerente e funzionale assetto del territorio comunale.

In conseguenza di ciò, l’indice dell’edificazione compatibile fissato nello strumento di pianificazione e – più in generale – tutti gli altri indici urbanistici ivi parimenti contemplati non sono per se stanti deputati alla tutela dei diritti soggettivi di proprietà ma al conseguimento del pubblico interesse testè descritto.

L’interpretazione fornita dal giudice di primo grado, quindi, non può essere condivisa sul punto, anche perché – come esattamente rilevato dall’appellante Amministrazione Comunale – comunque omette di coniugare la tutela del diritto proprietario, discendente dall’art. 832 c.c., con il principio di prevenzione complessivamente emergente dall’art. 875 e ss. c.c. e apprestato dall’ordinamento a tutela del proprietario più solerte e a discapito di quello meno solerte.

Assorbente è comunque la circostanza – correttamente evidenziata dalle parti qui appellanti in via principale – che il lotto per cui è causa, esteso per complessivi mq. 17.737,64, si è sempre identificato con un’unica proprietà, sia al momento della presentazione della prima D.I.A. in data 8 giugno 2002 sia al momento della presentazione della seconda D.I.A. in variante in data 5 agosto 2002, ossia quella di F. prima e di C.C. poi: dimodochè, a ben vedere, neppure si pone nella materialità della fattispecie la problematica della parcellizzazione del predetto limite del 30% ipotizzato dal giudice di primo grado.

E, semmai, va preso atto che sulla predetta superficie complessiva di mq. 17.737,64, la superficie lorda di pavimento è estesa per mq. 16.011,06 dei quali destinabili ad attività produttiva nel 70% di minimo per mq. 11.207,74 e ad attività compatibili nel 30% di massimo per mq. 4.803,32; e va anche evidenziato che dalla varianti n. 1 alla D.I.A. soltanto il primo dei due capannoni ha destinazione commerciale, con la conseguenza che soltanto nei confronti di tale costruzione va applicato l’indice percentuale del 30% di superficie lorda di pavimento.

Pertanto, applicando alla predetta estensione di mq. 16.011,06 il limite percentuale del 30% la superficie lorda di pavimento assentibile corrisponde a mq. 4.803,318, superiore di ben mq. 544,038 rispetto ai mq. 4.259,29 asserviti da C.C. a destinazione commerciale: e in conseguenza di ciò, quindi, del tutto apodittico è l’assunto contenuto nella sentenza impugnata secondo il quale il 30% dovrebbe essere applicato al totale delle superfici lorde del capannone 1 e del capannone 2, ossia a mq. 7.013,99 (4.259,29+2.754,70=7.013,99), con la conseguenza che la superficie complessivamente ammissibile delle funzioni integrative sarebbe pari, nel lotto in questione, a mq. 2.104,19.

Del resto, neppure la difesa G. e di O.P. ha formulato deduzioni esplicitamente adesive rispetto alla tesi del giudice di primo grado, preferendo sostenere la tesi per cui C.C. e M.F. non potrebbero realizzare soltanto la quota di funzioni ammissibili, ma dovrebbero essere tenute a realizzare anche la corrispondente quota di superfici da destinare alla funzione principale (cfr. art. 24 e ss. delle relative memorie prodotte nei due procedimenti): tesi, anche questa, destituita di qualsivoglia fondamento proprio in quanto a sua volta in alcun modo prefigurata dal testo delle N.T.A. in esame.

I due ricorsi principali vanno pertanto, sul punto, accolti.

9.1. Rimangono, ora, da disaminare gli appelli incidentali proposti in entrambi i procedimenti da G.I. e da O.P..

9.2. Tali impugnative vanno dichiarate irricevibili.

Mediante tali ricorsi incidentali, infatti, G.I. e O.P. hanno inteso non soltanto riproporre in secondo grado i motivi di impugnazione assorbiti dal T.A.R. in dipendenza del parziale accoglimento del ricorso in primo grado, ma anche contestare la stessa statuizione di accoglimento in ordine all’interpretazione degli artt. 35 e 36 delle N.T.A. del P.R.G. resa dal T.A.R. medesimo: interpretazione, questa, che solo in parte risulta infatti conferente al loro interesse, posto che – come rilevato innanzi – per effetto della statuizione medesima la superficie destinabile a funzioni integrative sarebbe risultata pari, nel lotto in questione, a mq. 2.104,19, nel mentre nella prospettazione dell’atto introduttivo del giudizio C.C. e M.F. non avrebbero comunque avuto titolo a realizzare ivi qualsivoglia edificazione a destinazione commerciale.

La satisfattività solamente parziale, sul punto, della sentenza resa in primo grado (ossia l’esito per cui la struttura commerciale poteva essere realizzata in loco su di una superficie ridotta rispetto a quanto previsto dalla D.I.A. e dalla D.I.A. in variante) rendeva dunque G.I. e O.P. soccombenti laddove il giudice di prime cure non aveva, per l’appunto, accolto la loro tesi sull’assoluta incompatibilità del progetto di F. e di C.C. rispetto alla strumentazione urbanistica vigente.

Ciò posto – e come è ben noto – nel processo amministrativo l’appello incidentale c.d. "proprio" o "subordinato", conformemente al combinato disposto di cui all’art. 37 del T.U. approvato con R.D. 26 giugno 1924 n. 1054 e all’art. 29 della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 in vigore all’epoca della proposizione dei ricorsi in epigrafe, costituiva (e costituisce a tutt’oggi) il rimedio incidentale di carattere subordinato volto ad eliminare la soccombenza dell’appellato nei confronti dell’appellante, e si poneva (e si pone) quale strumento geneticamente subordinato rispetto alla proposizione del ricorso principale ed allo scopo principale di paralizzare l’azione ex adverso proposta, per l’ipotesi della sua ritenuta fondatezza in sede di gravame, secondo la logica della c.d. impugnazione condizionata. Invece, l’appello incidentale c.d. "improprio" si caratterizzava soprattutto per una marcata autonomia tanto nei presupposti (autonomia dell’interesse alla proposizione dell’appello), tanto sotto il profilo funzionale, configurandosi in tal senso quale conseguenza dell’introduzione nell’ordinamento processuale amministrativo della previsione di cui all’art. 333 c.p.c., nella logica del simultaneus processus (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 17 ottobre 2008, n. 5042).

A logica conclusione di ciò, nel processo amministrativo l’appello incidentale autonomo o improprio, proprio in quanto sostenuto da un interesse non dipendente dall’impugnativa principale, assumeva di per sé la mera veste formale del gravame incidentale al solo fine di realizzare il simultaneus processus, con la conseguenza che esso andava proposto nei termini stabiliti per quello principale: e ciò, per l’appunto, in quanto non assoggettato alla disciplina prevista dall’art. 37 del T.U. approvato con R.D. 1054 del 1924, né a quella sancita dall’art. 334 c.p.c., ma a quella generale divisata dall’art. 28 della L. 1034 del 1971 e dall’art. 327 c.p.c. (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 24 aprile 2009 n. 2588).

Giova pure evidenziare che, al riguardo, la giurisprudenza di questo Consiglio risultava assolutamente prevalente laddove affermava che, proprio perché l’interesse alla proposizione del gravame sorgeva non già con la notifica dell’appello principale, bensì direttamente dalle sfavorevoli (ovvero non pienamente favorevoli) statuizioni delle sentenza oggetto di impugnazione, ne conseguiva che il termine per esperire il rimedio era quello previsto in via generale per la proposizione dell’appello principale, a" sensi del secondo comma dell’art. 28 della L. 6 dicembre 1971 n. 1034, reputando in tal senso inapplicabile nel processo amministrativo l’istituto di cui all’art. 334 c.p.c. (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 12 novembre 2008 n. 5649; in senso contrario vanno citate decisioni più risalenti nel tempo e rimaste comunque isolate: in particolare, Cons. Stato, Sez. V, 9 dicembre 2002 n. 6736; 10 marzo 1997 n. 242; Sez. VI, 31 ottobre 1992 n. 842).

Orbene, nel caso di specie la tardività dell’impugnazione da parte di G. e di O.P. sussiste in quanto:

a) la sentenza di primo grado è stata depositata l’8 giugno 2004, ed è stata quindi notificata alle controparti a cura delle stesse G.I. e O.P. in data 18 giugno 2004;

b) i due appelli principali sono stati notificati rispettivamente il 23 – 24 settembre 2004 e il 29 settembre 2004;

c) gli appelli incidentali sono stati notificati il 17 novembre 2004, ma – come detto innanzi – il relativo termine per la proposizione non poteva aver riguardo alla notificazione del ricorso principale, ma era assoggettato al termine ordinario di impugnazione, peraltro non più identificabile in quello ordinario annuale "lungo" di cui all’art. 327 c.p.c. con aggiunta del termine dei quarantasei giorni feriali di cui all’art. 1 della L. 7 ottobre 1969 n. 742 (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 29 maggio 2008 n. 2538), ma nel termine di sessanta giorni sancito all’epoca dall’art. 28 della L. 1034 del 1971: termine, quest’ultimo, che decorre comunque anch’esso dalla notificazione della sentenza di primo grado, ancorchè notificata dallo stesso ricorrente incidentale.

A tale conclusione infatti è pervenuta, in fattispecie processualmente speculare, la giurisprudenza secondo la qual – per l’appunto – se l’appellante incidentale autonomo ha notificato la sentenza alla controparte, in virtù del principio dell’effetto bilaterale della notificazione della sentenza di primo grado, il termine di sessanta giorni sancito dall’art. 28 della L. 1034 del 1971 per la notificazione del gravame incidentale decorre dalla notificazione della sentenza medesima (cfr., puntualmente, Cons. Stato, Sez. VI, 29 maggio 2008 n. 2358).

Venendo al caso di specie, il termine in questione è stato ampiamente eluso dalle ricorrenti incidentali, anche considerando la sospensione feriale di cui all’art. 1 della L. 742 del 1969.

Va soggiunto, per mera completezza espositiva, che con l’entrata in vigore del nuovo processo amministrativo, susseguente ai fatti di causa, l’art. 96 del codice medesimo ammette ora, mediante un espresso richiamo all’art. 334 c.p.c., la proposizione del ricorso incidentale improprio: ma, all’evidenza, si tratta di disciplina non retroattiva e, conseguentemente, non applicabile al caso di specie; senza sottacere, poi, che lo stesso e a tutt’oggi consolidato principio dell’effetto bilaterale della notificazione della sentenza di primo grado refluirebbe, comunque, anche in tale nuovo assetto della disciplina processuale amministrativa al fine della dichiarazione della tardività dell’impugnativa nella specie proposta.

10. Le spese e gli onorari del giudizio possono essere integralmente compensati, nel mentre G.I. e Orobica Pesa sono comunque tenute in solido a rifondere alle parti appellanti principali il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.L.vo 30 maggio 1992 n. 115.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sugli appelli in epigrafe, previa loro riunione li accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.

Dichiara irricevibili gli appelli incidentali.

Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio.

Pone a carico delle appellanti incidentali l’obbligo di rifusione in solido alle parti appellanti principali del contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.L.vo 30 maggio 1992 n. 115.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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