Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 20 ottobre 2009, ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma del 5 ottobre 2005 con la quale Y.H. era stato condannato alla pena di mesi sei di reclusione e 80 Euro di multa per il delitto tentato di falsa apposizione di impronta di una pubblica autenticazione o certificazione, con riferimento alla marcatura CE su giubbotti catarifrangenti.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, personalmente, lamentando, quale unico motivo, l’errata qualificazione del reato ascritto, non inquadrabile nell’accertata fattispecie di cui all’art. 470 c.p..
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento per quanto di ragione.
2. In fatto, per illustrare in concreto la fattispecie di cui deve rispondere l’odierno ricorrente si nota come allo stesso vennero sequestrati in un deposito all’ingrosso e nella sua effettiva disponibilità, diverse migliaia di giubbotti di emergenza catarifrangenti con falsa marcatura CE (per la precisione 13.680 capi), pronti per essere posti in vendita.
All’imputato risulta, quindi, contestato e applicato il disposto di cui agli artt. 56 e 470 c.p., che sanziona il compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in vendita cose sulle quali vi siano impronte contraffatte di una pubblica autenticazione o certificazione.
Ritiene, al contrario, questa Corte come la qualificazione giuridica del reato ascritto al ricorrente sia stata effettuata in modo errato dai Giudici di merito.
In primis, l’uso indebito del marchio CE non integra le ipotesi criminose di cui agli artt. 473 e 474 c.p., le quali fanno riferimento al marchio, inteso come elemento (segno o logo) idoneo a distinguere il singolo prodotto industriale rispetto ad altri ( art. 2569 c.c. e R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 1 e successive modifiche), non il marchio inteso come elemento che serve ad attestare la conformità del prodotto appartenente ad una determinata tipologia o a normative specifiche (Sez. 2, 19 giugno 2009 n. 36228).
In altri termini, la ragione di tutela del marchio consiste nella capacità di questo di distinguere un prodotto dall’altro che, come tale, giustifica il monopolio di un segno e l’esclusività dell’uso;
mentre la funzione del marchio "CE" è quella di tutelare interessi pubblici come la salute e la sicurezza degli utilizzatori dei prodotti, appartenenti ad una determinata tipologia, assicurando che essi siano conformi a tutte le disposizioni comunitarie che prevedono il loro utilizzo.
La marcatura CE non funge da marchio di qualità o d’origine, ma costituisce un puro marchio amministrativo, che segnala che il prodotto marcato può circolare liberamente nel mercato unico dell’UE essendo, in particolare, conforme alle Direttive applicabili al prodotto stesso.
La Corte territoriale, a tal proposito, nell’impugnata decisione ha compiuto un duplice errore in quanto, da un lato, nella motivazione della propria sentenza sembrerebbe aver fatto riferimento alle suddette ipotesi delittuose rispetto al diverso reato contestato e, d’altra parte, ha confermato le statuizioni della sentenza di primo grado con riferimento al reato di cui all’art. 470 c.p..
Ma anche tale qualificazione giuridica si appalesa non conforme al diritto in quanto la marcatura CE, nella specie, non è imposta dalla legge al fine di garantire al fruitore delle stesse la autenticità della provenienza e della correlata certificazione (come nelle ipotesi dei metalli preziosi, ex D.Lgs. 22 maggio 1999, n. 251, v.
Cass. Sez. 1, 18 novembre 2003 n. 8414).
Nè la suddetta marcatura, come nelle ipotesi di apparecchi elettronici ed elettrici (ex D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 476 e D.Lgs. 12 novembre 1996, n. 615 di attuazione della Direttiva CE 30 maggio 1989 n. 336, v. Cass. Sez. 5, 25 marzo 2010 n. 24696) ha la funzione di attestare che tali apparecchi non emettano segnali pericolosi per la salute umana.
Nella specie, sulla scorta della Direttiva 2001/95/CE del 3 dicembre 2001 in tema di sicurezza generale dei prodotti, la marcatura CE, nell’attestare la conformità del prodotto a standard minimi di qualità segnala che il prodotto può circolare liberamente nel mercato unico dell’Unione Europea (v. Cass. Sez. 2, 18 settembre 2009 n. 36228) e costituisce una garanzia della qualità della merce che viene posta in commercio (v. Cass. Sez. 3, 9 giugno 2009 n. 23819).
A giudizio di questa Corte, pertanto, integra, piuttosto, il reato di tentativo di frode in commercio il detenere, anche presso un esercizio commerciale di distribuzione e vendita all’ingrosso, prodotti privi di marcatura "CE" o con marcatura "CE" contraffatta, in quanto la fattispecie di cui all’art. 515 c.p. è posta proprio a tutela sia dei consumatori sia degli stessi commercianti ed il deposito di prodotti siffatti in magazzini nei quali non si effettua la vendita diretta ai singoli consumatori rappresenta un atto idoneo, diretto in modo non equivoco alla frode in commercio, poichè è prodromico alla immissione nel circolo distributivo di un prodotto che presenta caratteristiche diverse da quelle indicate e normativamente previste (vedi in senso analogo, Cass. Sez. 3, 21 aprile 2010 n. 27704).
3. In definitiva, riqualificato il fatto quale tentativo di frode in commercio questa Corte, avvalendosi dei poteri di cui all’art. 620 c.p.p., lett. l), determina in mesi due e giorni venti di reclusione la pena da infliggere a Y.H. (pena base mesi sei – 1/3 ex art. 56 c.p. = mesi quattro – 1/3 ex art. 62 bis c.p. = mesi due e giorni venti) e rigetta il ricorso nel resto.
P.Q.M.
La Corte qualificato il fatto ai sensi degli artt. 56 e 515 c.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata rideterminando la pena in mesi due e giorni venti di reclusione. Rigetta nel resto.
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