Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole
Motivi della decisione
[omissis] Con i due motivi di impugnazione la Cassa di Risparmio ha denunciato violazione di legge e vizio di motivazione, rispettivamente con riferimento: a) agli artt. 56, 67, 95, 97 l.f., per il fatto che la sua domanda di insinuazione del credito al passivo era stata proposta per un importo depurato degli accrediti di lire 74.535.431 per compensazione, e pertanto la relativa ammissione nei termini richiesti, divenuta definitiva a seguito di emissione del decreto di esecutività dello stato passivo, avrebbe avuto efficacia preclusiva rispetto all’azione revocatoria avente ad oggetto gli accrediti sopra indicati.
La Corte di Appello di Perugia si era per vero espressa sul punto in senso contrario, in ragione del fatto che l’ammissione al passivo non avrebbe implicato l’accertamento della causa parzialmente estintiva del credito affermata dal creditore, e ciò in sintonia con precedente sentenza di questa Corte (C. 91/6237), che avrebbe deciso nei medesimi termini.
Tuttavia il detto richiamo sarebbe errato per la diversità della fattispecie considerata e sarebbe per di più contrastato da altre decisioni di segno opposto, che risulterebbero “perfettamente in termini” (C. 04/12548, C. 95/8964);
b) agli artt. 1241, 1242, 1243, 1269 C.C., 342 c.p.c., 67 l.f., perché la Corte di Appello avrebbe a torto interpretato il pagamento in questione come attuativo di un rapporto di delegazione tra la società X, il Comune e la Banca, nel cui ambito la prima sarebbe stata delegante, il secondo delegato, la terza delegataria. La detta ricostruzione infatti sarebbe errata, atteso che la banca avrebbe svolto il servizio di tesoreria per il Comune, circostanza da cui sarebbe disceso che il Comune sarebbe stato il soggetto delegante, la Banca il delegato, e la società X il delegatario.
– 2) Come detto questa Corte ha rilevato, in sintonia con le prospettazioni della ricorrente, che alla questione rappresentata con il primo motivo di impugnazione, già sottoposta all’esame del giudice di legittimità, non è stata fornita unanime soluzione.
Ed infatti con sentenza n. 12548 dell’8 luglio 2004 questa Corte aveva sostenuto, in un caso del tutto analogo a quello in esame in cui il creditore aveva chiesto l’ammissione di un credito in misura ridotta per effetto di una dichiarata compensazione, che si sarebbe verificata una preclusione endofallimentare rispetto ad ulteriori richieste finalizzate a rimettere in discussione l’efficacia degli atti attraverso i quali era stata attuata la compensazione, e ciò in quanto l’indagine del giudice delegato avrebbe investito non solo il titolo da cui deriva il credito compensato, ma anche la sua efficacia e validità.
Analogamente con la sentenza n. 8964 del 24 agosto 1995, sia pur emessa in relazione a diversa procedura concorsuale (liquidazione coatta amministrativa anziché fallimento), era stato richiamato il medesimo effetto preclusivo in una fattispecie in cui il creditore aveva affermato il proprio diritto di operare la compensazione ai sensi dell’art. 56 l.f. ed il commissario liquidatore aveva disposto in conformità.
In particolare nella specie la Corte ha confermato la sentenza del giudice del merito che aveva rigettato la domanda con la quale il commissario liquidatore, dopo aver ammesso al passivo il credito in misura ridotta rispetto al titolo originario per effetto della dedotta compensazione, aveva poi chiesto la condanna del creditore alla restituzione dei titoli azionari in ragione dei quali era stata eccepita (e riconosciuta) la compensazione.
L’intervenuta definitività dello stato passivo avrebbe infatti escluso la possibilità di ogni ulteriore eventuale modifica relativamente ai crediti ammessi, e ciò avrebbe quindi impedito di sollevare ogni ulteriore contestazione del titolo posto a base della pretesa creditoria rispetto alla quale era stata fatta valere la compensazione.
In dissonanza con i principi sopra richiamati si porrebbe però la sentenza n. 12823 del 2003, che nel ripercorrere l’orientamento per il quale il decreto di esecutività dello stato passivo determina un effetto preclusivo nell’ambito della procedura concorsuale, ha escluso che tale effetto possa avere una valenza extrafallimentare o che possa comunque essere omologato a giudicato sostanziale all’interno del fallimento, mentre darebbero luogo ad un vero e proprio contrasto le sentenze 18 maggio 2005 n. 10429 e quelle precedenti ivi richiamate (3 giugno 1991, n. 6237, 7 giugno 1988, n. 3848, 6 maggio 1987, n. 4194), cui poi ha anche fatto seguito quella successiva del 18 maggio 2007, n. 11647.
In particolare in dette ultime decisioni è stato sostanzialmente affermato che la definitiva ammissione al passivo del fallimento di un credito residuo rispetto ad altro già soddisfatto non preclude la revocabilità di pagamenti parziali già definiti.
Ciò in quanto in tal caso l’ammissione del credito implica l’accertamento relativo alla sussistenza del titolo giustificativo del residuo, ma non anche quello concernente l’insussistenza di un credito di maggiore consistenza.
– 3 ) Osserva il Collegio che le diverse decisioni emesse sulla tematica in oggetto, per quanto ispirate a principi talvolta non coincidenti e comunque fra loro non coordinati, non danno luogo ad un vero e proprio contrasto.
Al riguardo occorre invero innanzitutto precisare, come considerazione preliminare di carattere generale, che circostanza sulla quale vi è convergenza interpretativa (da ultimo anche ulteriormente confortata dalla nuova formulazione dell’art. 96 l.f., quale modificato dall’art. 81 d.lgvo 5/2006) è individuabile nella forza di giudicato endofallimentare, vale a dire idoneo a determinare effetti preclusivi esclusivamente nell’ambito della procedura fallimentare, attribuibile all’accertamento giudiziale del credito (Cass. 15 settembre 2006, n. 19940, Cass. 5.3.2004, n. 4522, Cass. 3.9.2003, n. 12823, Cass. 16 marzo 2001, n. 3830).
Da ciò quindi deriva che, se non impugnato, il decreto di approvazione dello stato passivo esclude la possibilità di riproporre, all’interno della detta procedura, ogni questione concernente l’esistenza del credito, la sua entità, l’efficacia del titolo da cui deriva, l’esistenza di cause di prelazione.
A ben vedere, dunque, anche le sopra citate sentenze nn. 07/11647, 05/10429, 91/6237, 88/3848, 87/4194 si sono riportate ai medesimi principi ora delineati.
Ed infatti con le dette decisioni la proponibilità della revocatoria di pagamenti parziali avvenuti in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento è stata affermata, anche a seguito di ammissione allo stato passivo del credito residuo insoddisfatto, sulla base della considerazione che il provvedimento di ammissione implica necessariamente un accertamento circa la sussistenza del titolo giustificativo del residuo, ma non anche, al contrario, in ordine all’insussistenza di un maggior credito, e quindi relativamente all’opponibilità o meno alla massa di pagamenti antecedenti.
La “ratio” delle decisioni in tali casi è dunque incentrata sul fatto che la revocatoria è ammissibile perché la preclusione endofallimentare formatasi in relazione all’ammissione del credito insoddisfatto per pagamenti non effettuati non si estende alla parte di credito già soddisfatto, pur se dipendente da medesimo titolo, e ciò tenuto conto dell’autonomia che caratterizza i singoli pagamenti posti in essere.
– 4) Posto quindi che l’ammissibilità o meno dell’azione revocatoria rispetto ad un credito ammesso alla stato passivo va stabilita in relazione all’esistenza o meno di un giudicato endofallimentare formatosi su quest’ultimo punto, la questione che ne risulta è quella relativa all’accertamento dell’esistenza di un giudicato formatosi per effetto della dedotta compensazione.
– 4a) Il primo profilo di problematicità riscontrabile in proposito riguarda la legittimazione del creditore a dedurre l’esistenza della compensazione.
Tale questione è in via astratta prospettabile sotto un duplice verso, vale a dire: a) in ragione della inversione dei poteri di impulso alla valutazione giudiziale dei presupposti di un’azione, rimessa nel caso in esame al creditore che formula la relativa richiesta anziché, come ordinariamente e fisiologicamente previsto dalla normativa vigente, al curatore; b) per le conseguenze da ciò derivanti, essenzialmente individuabili nelle possibili lacune informative di quest’ultimo circa la situazione esistente in punto di fatto, e segnatamente in ordine alla sussistenza o meno delle condizioni per un’eventuale contestazione della validità e dell’efficacia del credito dedotto a sostegno della sollecitata compensazione.
Non pare dubbio che la richiamata problematicità della questione è configurabile esclusivamente con riferimento alla normativa preesistente sul punto, atteso che i decreti legislativi nn. 6 del 2006 e 169 del 2007 hanno delineato sia un onere processuale di deduzione a carico del creditore che formula richiesta di insinuazione al passivo della propria pretesa, che un onere di eccezione in capo al curatore (codificato dall’art. 95, primo comma, l.f.), onere il cui adempimento darebbe comunque legittimo (anzi doveroso) accesso alla delibazione della relativa richiesta.
Ma ad identiche conclusioni deve anche pervenirsi, nonostante il diverso ruolo rivestito dal curatore ed il carattere inquisitorio del procedimento, con riferimento alla disciplina vigente prima della riforma, applicabile nella specie.
Ed infatti questa Corte ha costantemente affermato (quanto meno implicitamente) il principio per il quale il creditore che sia anche debitore del fallito per somma inferiore al proprio credito è legittimato a sollevare l’eccezione di compensazione ai sensi dell’art. 56 l.f. in sede di verifica dello stato passivo, ed a richiedere l’ammissione al passivo per la somma corrispondente al conguaglio tra le rispettive posizioni di credito – debito (Cass. 21 ottobre 1998, n. 10408, Cass. 20 marzo 1991, n. 3006, Cass. 13 marzo 1982, n. 1634), sia in ragione della natura legale e non giudiziale della compensazione prevista dall’art. 56 l.f., che per evidenti motivi di economia processuale.
La legittimazione del creditore a far valere la compensazione in sede di richiesta di ammissione al passivo del credito comporta poi, inevitabilmente, che il giudice delegato possa alternativamente accoglierla o respingerla, non essendovi peraltro univocità di indirizzi in quest’ultimo caso in ordine all’ammissibilità dell’intero importo originario (Cass. 20 marzo 1991, n. 3006, C. 75/882 cit.) ovvero soltanto di quello residuo, in conformità della somma indicata nell’istanza di ammissione (C. 79/2910 cit.).
In ogni modo la posizione del creditore risulta adeguatamente tutelata potendo egli proporre, nel caso di rigetto, opposizione allo stato passivo ex art. 98 l.f., non essendo preclusiva a tale scopo la formulazione di detto articolo che attribuisce la legittimazione ai creditori esclusi ovvero a quelli ammessi con riserva, dovendosi intendere per tali pure quelli che abbiano subito il mancato accoglimento anche di una sola pretesa relativa alla sollecitata partecipazione al concorso (Cass. 21 ottobre 1998, n. 10408).
– 4b) Ritualmente dunque introdotta la domanda di compensazione, sulla scorta delle considerazioni sopra svolte, il secondo profilo da esaminare è quello relativo alla identificazione del contenuto della decisione, al fine di individuarne gli effetti preclusivi nell’ambito fallimentare conseguenti alla declaratoria di esecutività dello stato passivo.
Orbene in punto di fatto va rilevato che la Cassa di Risparmio di Spoleto, con l’istanza di ammissione al passivo, ha dichiarato di essere creditrice di lire 852.764.942 per saldo passivo di conto corrente, somma residuata dopo la detrazione di accrediti per lire 74.535.431, per effetto della intervenuta compensazione.
Il successivo provvedimento di ammissione del giudice delegato nella misura della somma di lire 852.764.942 implicitamente presuppone, dunque, un giudizio positivo circa l’intervenuta compensazione parziale per l’importo di lire 74.535.431, giudizio che incide direttamente sul titolo fatto valere con l’istanza di ammissione.
Ed infatti occorre considerare che la compensazione costituisce un modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento, che opera con decorrenza dal giorno della coesistenza dei crediti (artt. 1241, 1242 c.c.), e rispetto al quale l’effetto estintivo ad esso connesso prescinde dalla pronuncia giudiziaria, costituendo la compensazione prevista dall’art. 56 l.f., come detto, una speciale ipotesi di compensazione legale (Cass. 21 ottobre 1998, n. 10408, Cass. 29 maggio 1992, n. 6512).
Ciò quindi comporta che da tale data, o comunque da quella della dichiarazione di fallimento in cui i debiti pecuniari del fallito si considerano scaduti, il credito di minore consistenza non esiste più, mentre quello di maggior peso viene automaticamente ridotto nella misura corrispondente.
Pertanto il riconoscimento in sede giudiziaria di una compensazione parziale di crediti derivanti da differenti rapporti giuridici è espressione di un accertamento con decorrenza retroattiva, che comporta l’inesistenza originaria del credito di minore importo ed incide pertanto direttamente sul titolo azionato.
Del tutto diverso, viceversa, risulta il caso in cui venga ammesso al passivo del fallimento un credito residuo, rispetto ad altro già soddisfatto in attuazione di un medesimo contratto di somministrazione o ad esecuzione continuata, cui si riferiscono le citate sentenza 05/10429, 91/6237, 88/3848, 87/4194.
In tali ipotesi, infatti, l’accertamento dell’esistenza di una posizione creditoria da parte del giudice determina un effetto preclusivo esclusivamente per quanto concerne l’avvenuta quantificazione del credito ammesso, senza tuttavia che tale effetto possa essere esteso anche agli adempimenti precedentemente intervenuti e per i quali, conseguentemente, non era stata formulata alcuna richiesta di ammissione.
L’identità del titolo posto a base di quest’ultima istanza con quello in ragione del quale erano stati in precedenza effettuati i versamenti dovuti non è sufficiente per configurare una preclusione rispetto all’esercizio di un’azione finalizzata alla declaratoria di inefficacia dei detti versamenti, e ciò in quanto in sede di ammissione l’indagine del giudice delegato è limitata all’esame dell’esistenza delle condizioni necessarie per l’accoglimento della relativa richiesta e non si estende dunque, al contrario, ad una verifica relativa alla opponibilità alla massa dei pagamenti parziali antecedenti, pagamenti che fra l’altro costituiscono atti giuridici del tutto autonomi fra loro e pertanto potenzialmente oggetto, di per sé, di azione revocatoria (art. 67, comma 2, l.f.).
– 4c) Resta infine un terzo profilo da esaminare, che riguarda la compatibilità con il sistema nel suo complesso di un modulo procedimentale che si pone in contrasto con il monopolio delle iniziative altrimenti riconosciute al curatore, in ossequio alle funzioni pubblicistiche allo stesso attribuite.
In proposito va innanzitutto osservato che la recente modifica della disciplina delle procedure concorsuali ha certamente comportato un ridimensionamento degli aspetti problematici astrattamente apprezzabili, considerato che l’art. 104 ter, comma 2, lett. c) l.f. impone la redazione di un programma di liquidazione, in cui si impone un’anticipazione valutativa delle condizioni attinenti all’efficacia e all’opponibilità della pretesa del creditore.
Peraltro, se l’inconveniente legato alla passività del curatore rispetto alle iniziative del creditore è sostanzialmente rilevante esclusivamente sul piano istruttorio, occorre anche considerare che la detta ricaduta negativa appare bilanciata da una funzione di stimolo ad un sollecito esame delle questioni astrattamente prospettabili, certamente utile al fine del contenimento dei tempi di durata della procedura.
Per di più la possibile iniziativa della parte nella individuazione del tema di indagine da sottoporre all’attenzione dell’organo giudicante non incide negativamente sul corretto adempimento dei compiti demandati al curatore, ben potendo questi richiedere la concessione dei termini necessari per l’esauriente esame delle questioni rappresentate.
– 4c1) Al contrario l’accertamento anticipato delle dette questioni presenta diversi aspetti di positività, che possono essere così sintetizzati.
Innanzitutto non sembra dubbio che l’accertamento anticipato delle pretese creditorie del curatore da far valere nei confronti dei creditori istanti svolto nella fase di verifica del passivo sia in maggiore sintonia con i principi di concorsualità di quanto non sia l’esercizio autonomo delle relative azioni, con iniziative successive; ciò per il fatto che al procedimento di verifica, diversamente dagli altri casi, partecipano tutti i creditori, nell’interesse dei quali il credito opposto in compensazione non viene (o viene) ammesso allo stato passivo.
Inoltre considerazioni identiche devono essere svolte con riferimento ad una soluzione che privilegi la concentrazione in un unico procedimento delle diverse questioni che possono sorgere nella delibazione circa la sussistenza del credito azionato.
L’esame congiunto di ogni vicenda costitutiva di detto credito, oltre che degli eventuali fatti impeditivi e modificativi del diritto e delle possibili ragioni di inefficacia, consente infatti un esame completo ed esaustivo della posizione creditoria, per di più espletato con un medesimo rito, nel più assoluto rispetto della rilevanza concorsuale del rapporto e con soluzione spiegante effetti all’interno della stessa procedura ammissiva.
Ed invero le eventuali contestazioni del creditore devono articolarsi secondo i mezzi di impugnazione ordinariamente previsti (art. 98 l.f.), circostanza da cui discende che l’eventuale variazione dello stato passivo si determinerebbe soltanto per effetto di una espansione quantitativa di una precedente ammissione, e non anche quindi quale risultante di un coordinamento con altri processi, da cui inevitabilmente deriverebbero rischi di conflitto di giudicati o comunque di pronunce disarmoniche sulle eccezioni ed azioni proposte.
Da ultimo è poi utile evidenziare come l’esame congiunto dei fatti costitutivi e di quelli modificativi ed estintivi del credito, nell’ambito della medesima sede deputata alla verificazione della loro esistenza ed entità, costituisce una più puntuale realizzazione del giusto processo, poiché consente una effettiva partecipazione ad esso di tutte le parti interessate ed incide in termini positivi sulla sua durata.
L’instaurazione di parentesi di cognizione esterne rispetto al modulo procedimentale concorsuale costituisce infatti uno dei fattori più significativi delle violazioni normative derivanti dall’eccessiva durata del processo (l. 2001/89).
– 5) Conclusivamente deve dunque ritenersi che la presente controversia debba essere decisa sulla base del seguente principio di diritto: “quando il creditore richiede l’ammissione al passivo per un importo inferiore a quello originario deducendo la compensazione, l’esame del giudice delegato investe il titolo posto a fondamento della pretesa, la sua validità, la sua efficacia e la sua consistenza. Ne consegue che il provvedimento di ammissione del credito residuo nei termini richiesti comporta implicitamente il riconoscimento della compensazione quale causa parzialmente estintiva della pretesa, riconoscimento che determina una preclusione endofallimentare, che opera in ogni ulteriore eventuale giudizio promosso per impugnare, sotto i sopra indicati profili dell’esistenza, validità, efficacia, consistenza, il titolo dal quale deriva il credito opposto in compensazione”.
Né, come detto, tale principio si pone in contrasto con l’altro sopra richiamato, stabilito nella vigenza della preesistente normativa con riferimento a credito residuo rispetto ad altro precedentemente soddisfatto, di cui anzi costituisce una ulteriore esplicitazione.
Ed infatti, come sopra anticipato, nelle fattispecie oggetto di giudizio si trattava di contratti di somministrazione o ad esecuzione continuata, per le cui prestazioni l’imprenditore fallito aveva corrisposto solo parte del dovuto. Il provvedimento di ammissione del credito per la parte insoddisfatta, in conformità della richiesta, non presupponeva neppure implicitamente alcuna valutazione sulla validità ed efficacia della parte soddisfatta sicché, non essendosi formato alcuna preclusione endofallimentare su tale ultima parte, è stata coerentemente e correttamente affermata l’esperibilità dell’azione revocatoria, con riguardo agli atti estintivi delle maggiori ragioni del creditore.
– 6) Venendo dunque al merito del ricorso della Cassa di Risparmio di Spoleto, si rileva che con il primo motivo l’istituto di credito ha per l’appunto denunciato violazione di legge e vizio di motivazione, per il fatto che la Corte di Appello di Perugia aveva escluso che l’ammissione allo stato passivo di un credito (lire 852.764.942) depurato dell’importo oggetto di compensazione (lire 74.535.431) potesse avere efficacia preclusiva rispetto all’azione revocatoria proposta con riferimento ai due accrediti per complessive lire 74.535.431, per i quali era stata dedotta – ed accertata – l’avvenuta compensazione.
La censura appare fondata alla luce delle considerazioni sinora svolte, e gli effetti pregiudizievoli per il fallimento, individuabili nella riscontrata preclusione alla proponibilità dell’azione revocatoria per la declaratoria di inefficacia dei due mandati di pagamento del Comune di Giano per la complessiva somma di lire 74.535.431 incassati dalla banca, saranno eventualmente addebitabili al curatore, ove ne ricorrano le condizioni ed i presupposti, per la mancata formulazione delle eccezioni idonee a contrastare l’assunto (relativo all’esistenza della compensazione) del ricorrente.
A tal fine va disposto l’invio di copia della presente decisione alla Corte dei Conti per notizia e per le eventuali determinazioni che ritenesse di adottare al riguardo.
Conclusivamente il ricorso deve essere accolto, restando assorbito il secondo motivo di impugnazione con il quale era stata denunciata l’erroneità della configurazione del rapporto intercorso tra la società fallita, il Comune di Giano e la banca, in relazione alla trasmissione e successiva acquisizione dei due mandati di pagamento per complessive lire 74.535.431.
Ne consegue che la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, atteso che la causa non poteva essere proposta (art. 382 c.p.c.).
L’apparente discordanza delle diverse e le numerose decisioni adottate sul punto inducono alla compensazione delle spese processuali del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, cassa senza rinvio la sentenza impugnata, compensa le spese del giudizio di legittimità e manda alla Cancelleria per la trasmissione alla Corte dei Conti di copia della presente decisione.
Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.