Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole
RITENUTO IN FATTO
1. Il 18 settembre 2007 la Corte d’assise d’appello di Bari, prima sezione, confermava la sentenza del gup del locale Tribunale che aveva dichiarato M.A. colpevole, in concorso con S.F., del delitto di omicidio volontario pluriaggravato, commesso in (OMISSIS), in danno della piccola C.E. e, ritenute le circostanze aggravanti prevalenti sulle riconosciute circostanze attenuanti generiche, previa diminuzione di un terzo per il rito abbreviato, lo condannava alla pena di trenta anni di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e la sospensione dell’esercizio della potestà genitoriale durante la pena.
2. Da entrambe le sentenze di merito emergeva la seguente ricostruzione dei fatti.
Verso le ore 15,30 del (OMISSIS) C.E., di sedici mesi, veniva trasportata in ambulanza, presso l’ospedale (OMISSIS), dove giungeva cadavere.
Dall’autopsia immediatamente esperita risultava che la causa della morte era ascrivibile a insufficienza cardio-circolatoria secondaria ad uno stato di denutrizione evoluto ormai in cachessia; al momento del decesso la vittima aveva, infatti, un peso corporeo di appena 5,700 chilogrammi, tipico di un neonato di quattro mesi. Il corpo della bimba presentava, inoltre, sessantuno lesioni in svariate parti del corpo, tra cui una duplice frattura all’avambraccio sinistro, valgismo alle anche e ai gomiti, varismo alle ginocchia e lesioni da decubito nella regione lombare e sacrale, indicativi della pressochè totale immobilità della bimba, tenuta costantemente sedata sul passeggino in posizione semieretta in un angolo della camera da letto, con la faccia rivolta verso il muro, tanto da essere costretta a girare la testa all’indietro per potere avere una visuale diversa.
Dalle testimonianze acquisite (deposizioni di R. e M.G., rispettivamente sorella e nipote dell’imputato, nonchè di Z.M.) e dalle stesse dichiarazioni rese dagli imputati emergeva che la vittima era nata dalla relazione extraconiugale di S.F. con B.G., siciliano dimorante in (OMISSIS), conosciuto dalla donna durante un periodo di permanenza in Emilia-Romagna, regione dove la S., già madie di due figli nati dal matrimonio con C.A., si era momentaneamente trasferita per ivi svolgere attività di prostituzione. A seguito del rifiuto di B. di riconoscere la piccola, la S. era tornata a vivere con il marito e, successivamente, si era sentimentalmente legata ad M.A., posteggiatore abusivo in (OMISSIS), dal quale aveva avuto una figlia.
Durante l’ultima gravidanza della madre, la piccola E. era stata momentaneamente affidata alle cure dei coniugi S. M. e L.R., che l’avevano accudita fino a quando la S., ingelosita dall’eccessiva attaccamento mostrato loro dalla bambina, aveva deciso di riprenderla. Da quel momento la piccola, che non presentava patologie di sorta e aveva mostrato evidenti segni di crescita nell’arco di tempo in cui era stata affidata ad un diversa nucleo familiare, subiva un progressivo, grave scadimento delle condizioni fisiche generali a causa di molteplici fattori costituiti: a) dallo stato di denutrizione in cui versava, unica tra i fratelli; b) dalle continue azioni di violenza e di vessazione, consistenti nel lancio di scarpe e di altri oggetti, per far cessare il suo pianto; c) dall’immobilità cui era costretta su un passeggino, tenuto sempre appoggiato contro un muro; d) dal freddo patito, in quanto mai sufficientemente coperta nonostante le avverse condizioni atmosferiche; e) dalla sottoposizione, ad opera dei familiari, a divertimenti malvagi, quale il gioco denominato "45 giri", consistente nell’afferrare violentemente la bimba per la calotta cranica e nell’agitarla e rotearla con forza.
Nonostante le sollecitazioni a sottoporre a visita medica la bambina formulate da familiari e conoscenti, preoccupati dell’aspetto scheletrico da lei assunto, M.A. e la S. non solo non si attivavano in tal senso, reagendo con insofferenza e violenza a qualsiasi suggerimento in tal senso, ma, nell’ultimo mese di vita di E., non le somministravano cibo, come del resto ammesso dagli stessi imputati.
Dalla consulenza psichiatrica effettuata emergeva che M.A., come del resto la S., erano capaci di intendere e di volere e che la causale dei loro comportamenti era da ricercare in un perverso meccanismo di tipo punitivo alimentato da molteplici fattori: la condizione di depressione minore della S., tale da renderla più insofferente, reattiva, e ostile verso la figlia, costituente per lei il simbolo dei fallimento affettivo con B., che aveva rifiutato un’unione stabile e aveva abbandonato la donna; la gelosia nutrita da M.A. nei confronti di B., percepito come concorrente e rivale; la frustrazione per il rientro a casa di E., dopo il periodo di affidamento ad un’altra famiglia.
I giudici di merito qualificavano la condotta posta in essere da M.A. e dalla S. come omicidio volontario ed escludevano la configurabilità delle meno grave ipotesi previste dagli artt. 572 e 584 c.p., osservando che rientra nelle cognizioni di qualsiasi persona, pur se dotata di modeste qualità intellettive, la conoscenza e la previsione che la mancata somministrazione di cibo ad un bimbo porta inevitabilmente alla morte e che l’omessa alimentazione della piccola E. non era ascrivibile nè a specifiche patologie (peraltro non riscontrate) nè a condizioni economiche disperate del nucleo familiare, tenuto conto della regolare nutrizione degli altri figli nati dalle varie relazioni avute dalla S., del rinvenimento di cibo all’interno dell’abitazione, abusivamente occupata dall’imputato e dalla convivente, all’atto della perquisizione ad opera della polizia giudiziaria, della destinazione quotidiana di soldi all’acquisto di sigarette.
Peraltro la morte della bambina non era stata una conseguenza non voluta della condotta abituale di maltrattamenti o dei delitti di lesioni volontarie, ma era stata cagionata intenzionalmente con dolo diretto.
3. Avverso la sentenza d’appello ha proposto personalmente ricorso per cassazione M.A., il quale lamenta: a) violazione di legge, mancanza, contraddittorietà, illogicità della motivazione con riferimento al rigetto della richiesta di riapertura dell’istruttoria dibattimentale in appello per procedere a nuova perizia psichiatrica al fine di stabilire l’effettiva capacità dell’imputato di partecipare coscientemente al dibattimento; b) violazione di legge, manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla qualificazione giuridica del fatto come omicidio volontario, tenuto conto di una serie di elementi favorevoli all’imputato emersi nel corso delle indagini (contenuto dell’intercettazione ambientale intercorsa il 9 ottobre 2005 tra M.A. e la S.; dichiarazioni rese da quest’ultima in merito all’invito più volte ricevuto dal convivente di dare da mangiare alla bimba; testimonianze acquisite, evidenzianti la volontà della S. di far visitare la piccola E. dai medici dopo l’Epifania; intenzione della S. di abbandonare il convivente, una volta ottenuto il sussidio di maternità nei primi mesi del 2005; comune convinzione di M. A. e della S. che le precarie condizioni della bambina fossero ascrivibili al "malocchio" fatto dal marito della donna), nonchè dell’omesso apprezzamento di eventuali patologie preesistenti o concomitanti della vittima; c) violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo all’omessa derubricazione del fatto nelle più favorevoli ipotesi previste rispettivamente dagli artt. 572 e 584 c.p.; d) violazione di legge, illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione al giudizio di comparazione tra circostanze attenuanti e aggravanti, tenuto conto del ruolo subalterno rivestito da M.A. nella vicenda.
OSSERVA IN DIRITTO
Il ricorso non è fondato.
1. Con riferimento alla prima doglianza il Collegio osserva che, in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in sede d’appello, l’art. 603 c.p.p. reca diversità di previsione, a seconda che si tratti di prove preesistenti o concomitanti al giudizio di primo grado, emerse in un diverso contesto temporale o fenomenico, ovvero di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio.
Nel primo caso, il giudice d’appello deve disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti; nel secondo, deve rinnovare l’istruzione, osservando i soli limiti del diritto alla prova e dei requisiti della stessa.
In considerazione del principio di presunzione di completezza dell’istruttoria compiuta in primo grado, la motivazione del dibattimento in appello è istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non potere decidere allo stato degli atti. Pertanto, in caso di rigetto della richiesta avanzata dalla parte, la motivazione potrà essere implicita e desumibile dalla struttura argomentativa della sentenza d’appello, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti all’affermazione o alla negazione di responsabilità dell’imputato (Cass., Sez. 5, 1 febbraio 2000, n. 01075, Lavisia, rv. 215772; Cass., Sez. 2, 7 luglio 2000, n. 08106, Accettala, rv. 216532; Cass., Sez. 5, 5 agosto 2000, n. 08891, Callegari, rv. 217209).
Considerato, quindi, che nel giudizio di appello la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, postulando una deroga alla presunzione di completezza della indagine istruttoria svolta in primo grado, ha caratteristica di istituto eccezionale, nel senso che ad essa può farsi ricorso quando appaia assolutamente indispensabile, cioè nel solo caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, ritiene il Collegio che nessuna censura di violazione di legge possa essere mossa al provvedimento impugnato. La sentenza ha, infatti, evidenziato l’assenza di specifiche censure agli accertamenti clinici e strumentali e all’elaborato del prof. Ca., le cui valutazioni e conclusioni circa la piena capacità di intendere e di volere di M.A. non sono state contestate neppure dai consulenti di parte, e ha sottolineato che tutti gli aspetti valorizzati nel gravame proposto dalla difesa (il contesto degradato in cui si è sviluppata la vicenda, le difficoltà sociali della S. e del M.A., il modesto patrimonio cognitivo e intellettivo di quest’ultimo) sono stati oggetto di puntuale considerazione e risposta. La richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è stata, quindi, prevalentemente giustificata sulla base di deduzioni prive del requisito di specificità previsto dall’art. 581 c.p.p., lett. c), e di non consentite presunzioni circa la mancanza di integrità delle facoltà intellettive e volitive in una persona capace di un’azione così brutale come quella oggetto del presente processo.
2. Con riferimento al secondo e al terzo motivo di ricorso il Collegio osserva quanto segue.
I giudici di merito, con motivazione logicamente argomentata, fondata sul puntuale esame delle emergenze processuali acquisite, hanno ritenuto integrati gli elementi costitutivi del delitto di omicidio volontario e hanno escluso la sussistenza, nel caso di specie, dell’ipotesi aggravata del delitto di maltrattamenti (art. 572 c.p., comma 2) e dell’omicidio preterintenzionale.
Occorre in proposito premettere che la struttura del dolo risulta normativamente caratterizzata dall’elemento di natura intellettiva della previsione/rappresentazione e dall’elemento di essenza volitiva della volizione dell’evento. La rappresentazione e la volizione debbano in realtà avere ad oggetto tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica – condotta, evento e nesso di causalità materiale, e non il solo evento causalmente dipendente dalla condotta, come si desume dalla disciplina dell’errore sul fatto costituente reato contenuta nell’art. 47 c.p., comma 1, secondo cui siffatto errore, facendo venir meno il dolo sotto il profilo della indispensabile consapevolezza degli elementi essenziali della fattispecie, esclude la responsabilità dolosa e la punibilità dell’agente. Nei reati a forma libera, quale l’omicidio volontario, l’imputazione a titolo di dolo del fatto nel suo insieme postula che la volontà dell’ultimo atto sia effettiva.
La sentenza impugnata, dopo avere premesso sulla base degli accertamenti autoptici e medico-legali che, pur in presenza delle numerosissime lesioni riscontrate sulle varie parti del corpo della bambina (ben sessantuno), nel determinismo della morte ha avuto un rilievo decisivo il grave stato di denutrizione, evoluto in cachessia, cui era da tempo sottoposta E., la cui alimentazione, nell’ultimo mese di vita, era cessata del tutto, ha osservato che il decesso della piccola era eziologicamente ricollegabile ad mia condotta omissiva dell’imputato (oltre che della S.), sostanziatasi nell’avere smesso di alimentare la vittima die, attesa la sua tenera età, dipendeva totalmente dalle cure di coloro cui era affidata, e nel non avere coscientemente e consapevolmente adottato alcuna idonea iniziativa per ovviare al suo gravissimo stato di denutrizione e per attivare, presso il servizio pubblico territoriale, tutti i necessari interventi medici. Tali circostanze non sono state contestate specificamente dal ricorrente che si è limitato a prospettare, a livello meramente congetturale, l’esistenza di preesistenti o concomitanti patologie della bambina peraltro non comprovate dagli accertamenti medico-legali e smentite anche dalle testimonianze acquisite (dichiarazioni di S. M., L.R., M.G.), dalle quali emergeva che la bambina, nei primi mesi di vita e nel periodo in cui era stata affidata alle cure dei coniugi S., era sana, vivace, aveva un regolale tasso di crescita e di sviluppo e aveva iniziato ad avere problemi di salute sempre più evidenti dal momento in cui era tornata a vivere presso il nucleo familiare dove riceveva un trattamento diverso rispetto a quello riservato agli altri fratelli che erano regolarmente nutriti e accuditi.
Rientra, del resto, nella cognizione e nell’esperienza di qualsiasi individuo, pur se dotato di modeste facoltà cognitive e intellettive, che la mancata somministrazione di cibo ad un bambino è destinata a provocarne sicuramente la morie. Correttamente, quindi, i giudici di merito hanno ravvisato, nella concreta fattispecie sottoposta al loro esame, un’ipotesi di dolo diretto omicidiario, in quanto l’evento letale, prospettandosi come conseguenze pressochè certa di una condotta omissiva consapevolmente e volontariamente posta in essere, in concorso fra loro, dall’imputato e dalla S., che avevano la responsabilità della cura e dell’educazione della piccola, era stato da essi previsto ed accettato. In questo contesto non possono assumere rilievo le censure mosse da M.A. e fondate su un complesso di circostanze di fatto che, non solo in quanto tali sono insindacabili in sede di legittimità, ma hanno già formato oggetto dell’articolato iter logico – argomentativo della sentenza impugnata.
Priva di pregio è la doglianza concernente l’erronea qualificazione giuridica del fatto e l’omesso inquadramento nelle più favorevoli ipotesi previste dagli artt. 572 e 584 c.p..
Sotto un profilo concettuale, la nozione di "maltrattamenti" presuppone una condotta abituale che si estrinseca in più atti lesivi realizzati in tempi successivi. Il legislatore ravvisa il disvalore penale nella reiterata aggressione all’altrui personalità, che subisce gli effetti negativi di un regime di vita contraddistinto da sofferenze, tribolazioni, lesioni dell’integrità fisica o psichica, tali da vanificare i valori fondamentali insiti nella condizione umana. Il dolo del reato di maltrattamenti è unitario e programmatico, nel senso che funge da elemento unificatore della pluralità dei vari atti lesivi della personalità della vittima e si concretizza nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si realizza o conferma, sicchè il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in un’attività illecita, posta in essere già altre volte (Cass., Sez. 6, 11 dicembre 2003, n. 6541 rv. 228276).
Attesa la diversa obiettività giuridica del debito previsto dall’art. 572 c.p. e di quello di omicidio volontario, qualora dai maltrattamenti derivi, come nel caso in esame, la morte della persona offesa non è configurabile l’ipotesi aggravata di cui al capoverso dell’art. 572 c.p. ed è da escludere l’assorbimento, nell’ambito della citata fattispecie, del delitto di omicidio volontario, quando la morte, lungi dal costituire una conseguenza non voluta della condotta abituale di maltrattamenti, è stata oggetto della sfera rappresentativa e e volitiva dell’agente, oltre ad essere causalmente collegata alla condotta da questi posta in essere (Cass. Sez. 1, 30 aprile 1987, n. 8957, P.M. in proc. Simon, Cass., Sez. 1, 21 febbraio 2003, n. 16578, rv. 224797; Cass., Sez. Un. 14 aprile 1999, D’Apolito; Cass., Sez. Un. 22 ottobre 1999, Ciardi).
Alla luce di questi principi e delle considerazioni in precedenza svolte in merito al dolo diretto omicidiario che ha sonetto la condotta del ricorrente, correttamente i giudici di merito hanno escluso la qualificazione giuridica del fatto a mente dell’art. 572 c.p., comma 2.
Priva di pregio è anche la doglianza riguardante l’esclusione del delitto di omicidio preterintenzionale.
Secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, nell’omicidio preterintenzionale, sotto il profilo soggettivo, concorrono un dato positivo ed uno negativo: la volontà di offendere con percosse o lesioni e la mancanza dell’intenzione di uccidere. Al contrario, l’elemento psicologico che connota l’omicidio volontario è proprio l’intenzione di cagionare la morte della vittima.
Il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale risiede, quindi, nell’elemento psicologico:
nell’ipotesi della preterintenzione la volontà dell’agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima, con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte, mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’animus nefandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta (cfr. da ultimo, Cass., Sez. 1, 4 luglio 2007, n. 35369, rv. 237685).
Nel caso di specie, la configurabilità dell’omicidio volontario è stata correttamente argomentata sulla base degli elementi in precedenza richiamati, ossia la volontaria omessa somministrazione di cibo ad una bambina in tenerissima età, il cui stato di denutrizione si evolveva in cachessia, come comprovato dal peso corporeo di appena, kg. 3,700, tipico di un neonato di quattro mesi e non di una bambina di sedici mesi.
3. Priva di fondamento è, infine, la doglianza concernente la dosimetria della pena, avendo la sentenza impugnata correttamente valorizzato, in conformità ai principi costantemente enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini del giudizio di prevalenza delle aggravanti la estrema gravità del fatto, caratterizzato da incredibile brutalità, dalla negazione dei più elementari principi di umanità e da un dolo particolarmente intenso, avuto riguardo al lungo lasso di tempo nel quale si è protratta l’omessa alimentazione della piccola, oltre che ai perversi maltrattamenti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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