Cass. pen., sez. VI 28-12-2007 (10-12-2007), n. 47585 Rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale – Condotta realizzata per opporre resistenza a pubblico ufficiale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

FATTO E DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Roma confermava quella in data 4 novembre 2005 del Tribunale della città, appellata da C.G., con la quale il medesimo veniva condannato alla pena di mesi sette di reclusione in ordine ai reati, unificati dal vincolo della continuazione, di cui agli artt. 651 e 337 c.p. (in Roma, il 19 dicembre 2002). L’imputato non solo aveva preso energicamente a spinte gli agenti che, all’interno della stazione Termini di Roma, gli avevano chiesto i documenti per l’identificazione, ma si era divincolato alla presa degli operanti i quali, per tenerlo e condurlo negli uffici della Polfer, avevano dovuto ricorrere all’ausilio degli appartenenti a detto ufficio.
Propone ricorso per cassazione l’imputato che si duole della inosservanza o erronea applicazione della legge penale: costui non contesta il reato di resistenza, ma precisa che aveva finito col fornire le sue generalità dopo essere stato condotto presso gli uffici di p.s., onde il reato non era configurabile. Assume che, comunque l’ipotesi di reato di cui all’art. 651 c.p. "è ontologicamente correlata alla fattispecie del reato più grave, atteso che la perpetrazione del reato di resistenza è scaturita proprio dal rifiuto di esibire i documenti". Si duole altresì della carenza di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è manifestamente infondato, in quanto il reato di cui all’art. 651 c.p. è istantaneo e non ha alcuna rilevanza che l’imputato abbia fornito le generalità solo dopo essere stato condotto negli uffici di p.s. quando l’illecito si era già consumato. Nè la violazione dell’art. 651 c.p. può confondersi con quella di resistenza e restare assorbita in questa, essendo le due condotte completamente diverse se raffrontate in astratto (la prima si realizza con l’uso della violenza o minaccia per opporsi a un atto di ufficio; la seconda con il semplice comportamento omissivo consistente nel rifiuto di dare indicazioni sulla propria identità personale), e separate l’una dall’altra se considerate in concreto.
Esse sono pertanto tali da porsi tra loro in successione temporale e quindi in concorso materiale.
Il secondo mezzo introduce nel giudizio di legittimità censure non consentite in quanto concernenti il trattamento sanzionatorio la cui valutazione è riservata al giudice di merito. La sentenza è adeguatamente motivata ed è immune da censure logiche, poichè afferma correttamente la impossibilità di concedere le attenuanti generiche per i numerosi precedenti penali (ben sette specifici). Gli elementi considerati dal giudice di merito, che non deve motivare su ciascuna delle circostanze di cui all’art. 133 c.p., hanno avuto implicitamente, nella valutazione, un peso maggiore rispetto a quelli indicati dal ricorrente (asserito tenue disvalore sociale del fatto).
Alla inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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