Cass. civ. Sez. I, Sent., 27-12-2011, n. 28895 Notificazione nella residenza, domicilio o dimora Ufficiale giudiziario

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 19.4.2005 il Tribunale di Roma dichiarava la risoluzione del contratto di locazione stipulato da P.W. e R.A., in ragione della constatata morosità di quest’ultimo. Successivamente la Corte di Appello di Roma, adita dal R. che si era doluto dell’esito del giudizio di primo grado, dichiarava inammissibile l’appello in ragione della sua affermata tardività, derivante dal fatto che la sentenza del tribunale era stata notificata il 16.6.2005, mentre l’impugnazione era stata proposta il 28.7.2005.

In particolare la Corte territoriale rilevava l’infondatezza delle argomentazioni svolte dal R. a sostegno della tempestività dell’appello, argomentazioni essenzialmente consistenti nella pretesa irritualità della notifica della sentenza, ritenendo che, tenuto anche conto dei chiarimenti apportati nel corso dell’istruttoria dall’ufficiale giudiziario che aveva eseguito la notifica, fosse stata puntualmente accertata la legittimazione a ricevere l’atto del soggetto cui questo era stato consegnato. Avverso la decisione R.A. proponeva ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resisteva la P. con controricorso.

La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 21.11.2011, nel corso della quale veniva depositato atto di costituzione in favore di nuovo difensore di R.A., indicato nell’avv. Barbara Pirocchi, difensore che, pur presente in aula, non veniva ammesso alla discussione per l’irritualità della procura, non conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata, secondo quanto prescritto dall’art. 83 c.p.c., all’epoca vigente.

Motivi della decisione

Con i motivi di impugnazione R. ha rispettivamente denunciato:

1) violazione dell’art. 115 c.p.c., con riferimento all’art. 213 c.p.c., artt. 2699 e 2700 c.c., per aver la Corte richiesto all’UNEP "ex officio" le informazioni circa le modalità della notificazione, le generalità e le qualità del ricevente, ed aver inoltre utilizzato non documenti o informazioni provenienti dalla P.A., ma "una dichiarazione autografa del sedicente aiutante ufficiale giudiziario";

2) violazione dell’art. 116 c.p.c., con riferimento agli artt. 2699 e 2700 c.c., per aver la Corte integrato la relata di notifica, atto pubblico, con "dichiarazioni postume dell’A.U.G. irritualmente acquisite";

3) violazione degli artt. 148 e 160 c.p.c., in quanto l’ufficiale giudiziario avrebbe omesso di indicare sia le generalità complete di colui che aveva ricevuto l’atto, sia la sua qualità;

4) vizio di motivazione in ordine al giudizio relativo alla validità della notificazione in questione. La Corte infatti, nell’emettere il relativo giudizio, non avrebbe considerato: la mancata indicazione delle generalità complete del soggetto ricevente; l’assenza di ogni rilievo circa l’esistenza di un effettivo collegamento di quest’ultimo con il domiciliatario; il riferimento al soggetto domiciliatario, risultante dalla relata di notifica e dalla successiva integrazione, indicato come "Massimo" e non "Tommaso" Berardi.

I quattro motivi di impugnazione sono fra loro connessi e vanno esaminati congiuntamente riguardando tutti, sia pur sotto profili non coincidenti, la pretesa irritualità della notifica della sentenza di primo grado.

In proposito va innanzitutto osservato che il vizio di notifica della sentenza oggetto di impugnazione davanti alla Corte di Appello è stato dedotto sotto il profilo dell’avvenuta integrazione delle risultanze della relata dell’ufficiale giudiziario, che aveva dato corso all’incombenza.

Nella detta relazione, infatti, era riferito che "quanto al sig. R.A. c/o Avv. Berardi via G. Raita 10", l’atto era stato consegnato a persona qualificatasi (verosimilmente, non essendo chiaramente leggibile il nome del ricevente) per tale B., risultando comunque omesse sia le generalità complete del soggetto ricevente, sia la sua qualità. Tale lacuna era stata poi eliminata soltanto a seguito della successiva dichiarazione dell’ufficiale giudiziario (resa in evasione della richiesta di informazioni presso l’UNEP, formulata dalla Corte di Appello di Roma al fine di accertare i due profili sopra indicati, rispetto ai quali non vi sarebbe stata chiarezza) , con la quale era stato precisato che la notifica era stata effettuata con la consegna al citato B., a ciò incaricato dallo stesso studio. La detta integrazione, tuttavia, sarebbe illegittima poichè incidente su atto pubblico, la cui efficacia probatoria avrebbe potuto essere messa in discussione solo con la querela di falso, e sotto questo aspetto, la decisione della Corte di Appello sarebbe errata. Il rilievo è condivisibile poichè, se non appare precluso al giudice del merito richiedere informazioni scritte relative ad atti e documenti dell’amministrazione ai sensi dell’art. 213 c.p.c. (rilievo che comunque appare assorbito dalle successive considerazioni appresso svolte), è pur vero che, una volta ricevuta dall’UNEP una semplice dichiarazione del notificante finalizzata ad integrare il contenuto di un atto pubblico precedentemente posto in essere, la Corte territoriale non avrebbe potuto avvalersene per eliminare la lacuna riscontrata, venendosi altrimenti a determinare, sulla base di una semplice dichiarazione successiva dell’estensore dell’atto in questione, una inammissibile alterazione del suo contenuto. Tuttavia, se la Corte di Appello ha errato nel tener conto della detta integrazione (pur se valutata nell’insieme dei documenti acquisiti come desumibile, al contrario, dalla dizione "anche tenuto conto dei chiarimenti apportati dal ricordato ufficiale giudiziario", p. 3), e la motivazione della sentenza deve essere dunque modificata sul punto, non per questo le conclusioni cui la stessa è pervenuta devono essere disattese.

Ed infatti, dall’accertamento in punto di fatto compiuto dalla Corte di Appello e dalla concordi prospettazioni delle parti si evince che l’atto indirizzato ad R.A. è stato notificato presso lo studio dell’avvocato domiciliatario, con consegna a mani del "Sig. B.".

Da tale premessa discende dunque che, a fronte del certo recapito dell’atto notificando presso lo studio del legale domiciliatario a mani di addetto allo studio (non si spiegherebbero diversamente la presenza di quest’ultimo presso il locale in questione, l’avvenuta ricezione dell’atto e l’assenza di indicazioni al riguardo all’ufficiale giudiziario notificante), sarebbe stato onere del destinatario dare dimostrazione della inidoneità di quest’ultimo (per la casualità della sua presenza, per l’esistenza di un rapporto di lavoro non legato all’attività professionale ovvero, infine, per la mancanza di delega al riguardo) alla ricezione degli atti.

In tal senso è la giurisprudenza di questa Corte (C. 10/84, C. 07/239, C. 00/349, C. 99/6602, C. 98/9875), che d’altra parte è in sintonia con il medesimo principio già esplicitamente affermato dal legislatore.

Sotto questo aspetto si intende in particolare fare riferimento all’art. 650 c.p.c. e all’art. 1335 c.c., che stabiliscono rispettivamente la legittimazione dell’intimato all’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, nel caso di mancata conoscenza del provvedimento per irregolarità della notifica, e una presunzione di conoscenza delle dichiarazioni delle parti in tema di definizione dell’accordo una volta giunte all’indirizzo del destinatario, salva la facoltà di prova, per quest’ultimo, di essersi trovato senza colpa nell’impossibilità di averne avuto conoscenza. In entrambi i casi, dunque, la certezza in ordine alla raggiunta destinazione dell’atto di fattispecie identica a quella verificatasi nella specie) determina una presunzione di conoscenza del relativo contenuto da parte del destinatario, presunzione che può essere superata da quest’ultimo soltanto con l’avvenuta dimostrazione del fatto contrario.

Nel caso in esame non solo il R. non ha dato la detta dimostrazione, ma per di più dall’esame degli atti – che ben possono essere presi in considerazione da questa Corte essendo la denuncia in questione attinente a vizi processuali – si evince che il detto B. aveva ricevuto in data 6.7.2005, presso il medesimo studio in via Raita 10, copia della sentenza oggetto di impugnazione indirizzata all’avv. Riversi, quale codifensore del R., e nell’occasione l’ufficiale giudiziario lo aveva qualificato come persona incaricata della ricezione degli atti. Il ricorso, conclusivamente, deve essere dunque rigettato con condanna del ricorrente, soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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