Cons. Stato Sez. IV, Sent., 16-09-2011, n. 5226 Demolizione di costruzioni abusive

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.1. Gli attuali appellanti, Signori P. M., V. M. e T. M., anche nella loro qualità di soci e legali rappresentanti della S. C. di M. P. & C. S.n.c., espongono di aver acquistato in data 9 maggio 2001 dai Signori Sernesi, Bucherelli e Mendes un edificio ad uso artigianale ubicato in Sesto Fiorentino (Fi), al n. 179 di Via Giuseppe Garibaldi.

Essi affermano che tale edificio, da tempo non occupato, era stato adibito in precedenza ad uso artigianale, ospitando quindi un’attività produttiva.

L’immobile di cui trattasi è ubicato in una zona per la quale il vigente Piano regolatore generale prevede la formazione di un Piano di recupero a destinazione residenziale e commerciale.

1.2.1. Corre a questo punto obbligo di precisare che il predetto Sig. M. S., ancor prima di alienare l’immobile, aveva chiesto un parere preventivo al Dirigente preposto al Settore Assetto del territorio del Comune di Sesto Fiorentino circa la possibilità di adibire l’immobile medesimo a palestra, ricevendo al riguardo un responso negativo con nota dd. 5 maggio 2000..

Tale atto è stato impugnato dal Sernesi sub R.G. n. 1789 del 2000 innanzi al T.A.R. per la Toscana, deducendo innanzitutto al riguardo l’avvenuta violazione dell’allora vigente L.R. 14 ottobre 1999 n. 52 come modificata dalla L.R. 22 dicembre 1999 n. 71, in quanto le opere previste non sarebbero ricadute nella categoria della ristrutturazione, ma in quella della manutenzione straordinaria.

Il Sernesi ha quindi dedotto eccesso di potere per genericità e contraddittorietà della motivazione, non avendo a suo dire l’Amministrazione comunale dimostrato l’incompatibilità tra il carico urbanistico indotto dall’intervento e la zona nel quale si trova l’immobile, nonché eccesso di potere per errata qualificazione e carenza di potere, in quanto la classificazione delle attività di impresa artigiana non competerebbe all’Amministrazione Comunale ma alla Commissione regionale per l’artigianato costituita à sensi della L. 8 agosto 1985 n. 443.

1.2.2. L’Amministrazione Comunale si è costituita in giudizio, eccependo l’inammissibilità del ricorso in quanto nella specie sarebbe stato impugnato un atto privo di valenza provvedimentale proprio in quanto chiesto e ottenuto dall’interessato quale mero "parere preventivo".

Il medesimo Comune ha – altresì – eccepito l’improcedibilità del ricorso medesimo per sopravvenuta carenza di interesse, essendo stato il parere di cui trattasi assorbito dall’ingiunzione a demolire le opere nel frattempo realizzate dagli acquirenti dell’edificio, e non essendo più il Sernesi proprietario dell’edificio medesimo.

1.3.1. A questo punto va quindi precisato che gli attuali appellanti, dopo aver acquisito la proprietà dell’immobile medesimo, allo scopo di consentirne l’uso di palestra hanno presentato in data 6 novembre 2000 al Comune di Sesto Fiorentino una dichiarazione di inizio di attività, modificata con susseguente dichiarazione di variante presentata a sua volta il 28 dicembre 2001, affermando di aver quindi "eseguito una serie di piccoli lavori interni" (cfr. pag. 2 dell’atto di appello), segnatamente consistenti nel "riassetto dei servizi igienici; formazione di un nuovo impianto di smaltimento di liquami a ciò conseguente; demolizione e ricostruzione di alcuni tramezzi interni; apertura e chiusura di talune porte interne; messa in opera di una scala interna; modeste modificazioni delle aperture carrabili; parziale spostamento degli spogliatoi; modesti interventi di modifica nella corte tergale" (cfr. ibidem, pag. 11); in particolare, la superficie dei locali destinati a bagno e servizi igienici è passata da mq. 23 a mq. 210 (cfr. ibidem, pag. 12).

I medesimi appellanti affermano, quindi, che in data 7 gennaio 2002 i tecnici comunali hanno effettuato un sopralluogo, accertando la sussistenza di talune minime difformità rispetto alle dichiarazioni di inizio di attività, ossia dettagli di realizzazione di porte interne e di aperture, realizzazione di ripostigli con misure leggermente differenti, realizzazione di muretti interni di arredamento, installazione di canne fumarie e di caldaie, ecc..

Gli stessi appellanti espongono che in data 15 gennaio 2002, a seguito di altro sopralluogo, sono state rilevate ulteriori difformità, peraltro anche queste asseritamente minimali, (esecuzione di contropareti e controssoffittature interne, modeste modifiche di aperture di ingresso, ecc.).

In esito a ciò, con ordinanza n. 834 dd. 14 ottobre 2002 il Dirigente preposto al Settore V – Assetto del Territorio del Comune di Sesto Fiorentino ha quindi ingiunto à sensi dell’allora vigente art. 33 della L.R. 14 ottobre 1999 n. 52 la demolizione di tutte le opere realizzate e il ripristino dell’originaria destinazione d’uso artigianale dell’immobile.

In tale provvedimento, a conforto della disposta ingiunzione a demolire, si richiama innanzitutto l’art. 13 delle N.T.A. del P.R.G. di Sesto Fiorentino laddove assimila le attività artigianali al servizio della residenza alle attività commerciali di vendita al dettaglio; si considera quindi che l’insediamento di una palestra sarebbe in contrasto con la destinazione artigianale dell’immobile e che, in assenza di piano di recupero, sul medesimo è possibile effettuare solo interventi edilizi di consolidamento statico, di risanamento igienico e di straordinaria manutenzione; si ritiene – altresì – che l’intervento eseguito ecceda la manutenzione straordinaria ed il restauro conservativo e abbia comportato variazioni essenziali in difformità alla denuncia di inizio di attività presentata; si considera – da ultimo – che l’intervento medesimo configura un mutamento di destinazione d’uso non ammesso in assenza di piano di recupero e che, comunque, esso è configurabile quale ristrutturazione comportante un aumento di carico urbanistico subordinato ad autorizzazione edilizia onerosa ai sensi del comma 5, lett. e), dell’allora vigente art. 4 della L.R. 14 ottobre 1999 n. 52.

1.3.2. Con ricorso proposto sempre innanzi al T.A.R. per la Toscana sub R.G. 35 del 2003 i Signori P. M., V. M. e T. M., anche nella loro qualità di soci e legali rappresentanti della predetta S. C. di M. P. & C. S.n.c., hanno pertanto chiesto l’annullamento della testè descritta ordinanza n. 834 dd. 14 ottobre 2002 emessa dal Dirigente preposto al Settore Assetto del Territorio del Comune di Sesto Fiorentino.

L’impugnativa è stata pure estesa al parere favorevole Prot. n. 34409 dd. 17 – 30 settembre 2002 emesso al riguardo dalla Provincia di Firenze, nonché – per quanto occorra – all’art. 13 delle N.T.A. del P.R.G.

A supporto delle loro domande è stato dedotto dai ricorrenti in primo grado:

1) violazione dei principi generali in materia di destinazione urbanistica, atteso che non sussisterebbe nella specie, a loro avviso, alcun mutamento di destinazione, trattandosi di attività artigianale e non commerciale; inoltre la sanzione della demolizione non sarebbe consentita, non trattandosi di ristrutturazione, bensì di manutenzione straordinaria o restauro conservativo;

2) violazione dell’art. 4 della L.R. 23 maggio 1994 n. 39, non essendo consentito all’Amministrazione Comunale di trasferire un’attività artigianale da una categoria all’altra tra quelle previste dalla legge citata, con conseguente illegittimità dell’art. 13 delle N.T.A. del P.R.G. di Sesto Fiorentino nella parte in cui assimila l’attività artigianale a quelle commerciali di vendita al dettaglio;

3) violazione dell’allora vigente art. 33 della L.R. 52 del 1999, non essendo ivi ammessa la sanzione della demolizione in presenza della denuncia di inizio di attività (D.I.A.), che consente anche la ristrutturazione;

4) eccesso di potere per mancanza di motivazione e di istruttoria, contraddittorietà tra atti, travisamento dei fatti ed illogicità manifesta, attesa la comunicazione al dante causa dell’esito favorevole della pratica inerente la D.I.A.. e posto che con le opere nella specie eseguite, sempre previa D.I.A. e relativa variante, non sarebbero stati realizzati aumenti di volume o di superficie, ma solo opere interne;

5) violazione dell’art. 7 e ss. della L. 8 agosto 1990 n. 241 per omessa comunicazione di avvio del procedimento.

1.3.3. Si è costituito anche in questo giudizio il Comune di Sesto Fiorentino, eccependo l’inammissibilità del ricorso per omessa impugnativa di provvedimento lesivo, nonché la tardività dell’impugnativa della disciplina di piano richiamata nell’ingiunzione a demolire.

In subordine la medesima Amministrazione Comunale ha chiesto la reiezione del ricorso.

1.3.4. Si è parimenti costituita in giudizio la Provincia di Firenze, rassegnando analoghe conclusioni.

1.4. Con sentenza n. 5236 dd. 10 ottobre 2003 la Sezione III^ del T.A.R. per la Toscana, previa riunione dei due sopradescritti ricorsi, ha dichiarato improcedibile il ricorso proposto sub R.G. 1789 del 2000 compensando integralmente le spese di giudizio tra le parti, nel mentre ha respinto il ricorso proposto sub R.G. 35 del 2003, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio, quantificate nella misura di Euro 3.000,00.- da devolversi per due terzi a favore del Comune e per il residuo terzo a favore della Provincia.

2.1.1. Con l’appello in epigrafe i ricorrenti nel predetto procedimento proposto sub R.G. 35 del 2003 innanzi al giudice di primo grado chiedono pertanto la riforma di tale sentenza, riproponendo, nella sostanza, le medesime cencure dedotte dinanzi al TAR.

2.3. Anche nel presente procedimento si è costituito il Comune di Sesto Fiorentino, concludendo per la reiezione dell’appello.

2.4. Si è parimenti costituita nel presente procedimento la Provincia di Firenze, rassegnando identiche conclusioni.

3. Alla pubblica udienza del 10 maggio 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

Motivi della decisione

1.1. Tutto ciò premesso, l’appello va respinto.

1.2. Gli appellanti sostanzialmente ripropongono le censure da loro già svolte nel corso del giudizio di primo grado, riferendole ora alla sentenza impugnata.

Essi, innanzitutto, muovono con il primo motivo di impugnazione dal presupposto che non sussisterebbe il mutamento di destinazione d’uso rispetto alla destinazione artigianale dell’immobile in questione, in quanto l’esercizio di una palestra, proprio perché consistente nella prestazione di un servizio "sportivo" attraverso l’uso di un immobile e di una serie di attrezzature, non potrebbe che essere ricondotto alle "attività dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi" (cfr. l’allora vigente art. 24, comma 1, della L.R. 52 del 1999), ossia alle attività artigianali così come definite dalla disciplina di fonte statuale e regionale.

A tale riguardo il Collegio evidenzia che, come affermato anche nella sentenza impugnata, la Commissione regionale per l’artigianato – all’epoca operante à sensi della L.R. 23 aprile 1988 n. 29 – ha invero deliberato in conformità al parere del Consiglio nazionale dell’artigianato di cui all’art. 12 della L. 8 agosto 1985 n. 443, la possibilità di iscrizione all’Albo delle imprese artigiane per le imprese esercenti attività svolta in palestra e centri sportivi, qualora l’attività medesima sia svolta in forma imprenditoriale quale attività di servizio alla persona.

Nondimeno gli appellanti, una volta qualificata la propria attività come "artigianale", affermano che la palestra non è di per sé menzionata tra le attività elencate nell’art. 13.5, sostengono che per la palestra stessa non sarebbe configurabile un rapporto di immediata funzionalità rispetto alla residenza come invece per gli esercizi menzionati nell’articolo medesimo (lavanderie, panetterie, pasticcerie, parrucchieri, calzolai, piccole riparazioni in genere) e riconducono per la palestra la funzionalità rispetto al luogo di lavoro o di studio della sua utenza; contestano, inoltre, l’assunto contenuto nella sentenza impugnata secondo cui l’assimilazione della palestra agli esercizi predetti si fonderebbe sul dato del "flusso continuo di clientela" che la palestra medesima determinerebbe, posto che un identico flusso di clientela si riscontra pure negli insediamenti produttivi artigianali vendono al pubblico i loro prodotti, nonché in altre numerose attività, quali ad esempio i cinema o i teatri, per certo non assimilabili alle botteghe di quartiere contemplate dall’art. 13.5 anzidetto.

Il Collegio, per parte propria, evidenzia che l’art. 13.5 delle N.T.A. del P.R.G. comunale, contempla, tra le destinazioni d’uso rilevanti ai fini urbanistici, la destinazione residenziale, quella produttiva (artigianale o industriale) e quella commerciale (al dettaglio), disponendo contestualmente – altresì – che ai fini del giudizio di compatibilità con la destinazione ammessa, le attività artigianali al servizio della residenza (ossia, in via esemplificativa, le lavanderie, le panetterie, la pasticcerie, i parrucchieri, i calzolai, le piccole riparazioni, ecc.) sono assimilate alle attività commerciali di vendita al dettaglio, e rinviando al medesimo strumento di pianificazione primaria per l’indicazione delle destinazioni urbanistiche e delle destinazioni d’uso ammesse per le aree e per gli edifici.

Pertanto, nell’individuazione delle categorie urbanisticamente rilevanti in materia di destinazioni d’uso, lo strumento urbanistico primario ha introdotto quella delle "attività artigianali al servizio della residenza": categoria nella quale, per l’appunto, l’Amministrazione Comunale ha ritenuto di collocare anche l’esercizio dell’attività di palestra.

Come a ragione ha evidenziato il giudice di primo grado, il richiamo alle norme (o, meglio, alle statuizioni della competente autorità amministrativa) che qualificano l’esercizio in forma imprenditoriale di una palestra quale attività artigianale e non commerciale, di per sé non vale a configurare l’asserita violazione dei principi generali in materia di destinazione urbanistica.

Infatti, la configurazione della gestione della palestra in forma imprenditoriale quale attività artigianale concettualmente non contrasta con il mutamento di destinazione d’uso reputato nella specie sussistente dall’Amministrazione Comunale, posto che il mutamento medesimo consegue in via generale dalla collocazione di talune attività artigianali, in quanto poste al servizio della residenza, nell’ambito di un’autonoma categoria urbanisticamente rilevante in materia di destinazioni d’uso.

Detto altrimenti, l’individuazione dall’ambito delle attività produttive – tra le quali si colloca la c.d. "macrocategoria" artigianale – di particolari attività artigianali connotate dalla loro immediata funzionalizzazione alla residenza e assimilabili a quelle commerciali di vendita al dettaglio, comporta in modo del tutto naturale che l’utilizzazione di un immobile, già a destinazione artigianale come palestra, ossia come attività artigianale posta al servizio della residenza, si configuri anche come passaggio tra destinazioni d’uso urbanisticamente rilevanti.

Né può sostenersi – come fanno gli appellanti – che, a differenza delle peculiari attività artigianali richiamate dalla norma tecnica a titolo esemplificativo, quella di esercizio di una palestra non possa configurarsi come posta al servizio della residenza per il solo fatto che essa si concretizza in una prestazione di servizi e non già in un’attività di vendita al dettaglio.

Come già correttamente evidenziato dal giudice di primo grado, anche al di là della stessa configurazione strutturale dell’attività di gestione imprenditoriale di una palestra, sotto il profilo urbanistico assume rilievo dirimente la connotazione funzionale dell’attività medesima, posto che essa comporta un consistente afflusso di clientela: il che, dunque, richiede particolari esigenze in termini di traffico e di parcheggi, anche in considerazione dell’elevato numero massimo degli utenti (ben 118 unità).

In tale contesto risulta assolutamente incongrua l’affermazione degli appellanti secondo la quale non sarebbe possibile argomentare una riconduzione concettuale della palestra come struttura posta al servizio della residenza poiché, in realtà, frequentata da clientela prevalentemente a ciò indotta dal luogo di studio o di lavoro: semmai, proprio perché la clientela "residente" nel quartiere potrebbe prevalentemente recarsi nella struttura a piedi, la circostanza – valorizzata dagli appellanti – dell’afflusso di clientela "non residente" nel quartiere e che sceglie di recarsi nella palestra di cui trattasi per convenienze determinate dallo studio e dal lavoro rende ben evidente la necessità di affrontare il problema del carico urbanistico da ciò indotto.

Secondo la tesi degli appellanti, l’elemento connettivo e qualificante delle attività di servizi assimilate alle attività commerciali dall’art. 13.5 delle N.T.A. non dovrebbe invece identificarsi con il carico urbanistico determinato dal flusso della clientela, ma con il particolare carattere di tali attività nel loro rapporto con i quartieri residenziali, muovendosi quindi in un’evanescente logica di assimilazione nei riguardi di altri esercizi di quartiere del tutto analoghi a quelli menzionati nel medesimo art. 13.5.

Sempre nella logica degli appellanti, la palestra in quanto insediamento produttivo di servizi ma privo di collegamento con la residenza, nonché ad ogni effetto insediamento artigianale e non commerciale, non abbisognerebbe di alcun assenso per il mutamento a tale uso se la precedente destinazione era parimenti artigianale: ossia, sarebbe nella specie esercitata un’attività di produzione e di erogazione di servizi rientrante appieno nella definizione di "attività industriali o artigianali" di cui all’art. 10 della L. 28 gennaio 1977 n. 10, nel mentre la mera eventualità di un aumento del carico urbanistico non sarebbe ex se sufficiente a determinare il mutamento di destinazione.

Inoltre gli appellanti sostengono che il mutamento di destinazione potrebbe avvenire nella specie soltanto a seguito di lavori edilizi e in funzione della nuova attività svolta nell’immobile, e qualora comunque intervenga il passaggio dall’una all’altra delle categorie funzionali fondamentali contemplate dalla legislazione urbanisticoedilizia (cc.dd.: "macrocategorie": residenziale, industriale, artigianale, ecc.).

Ad avviso del Collegio è ben evidente la debolezza di tali argomenti, posto che essi si risolvono a negare la chiara rilevanza sotto il profilo del carico urbanistico determinato dalla conversione di un’attività artigianale in un’attività che invero rimane (come, per l’appunto, nel caso di specie) "artigianale" ma diviene, anche, concomitantemente e innegabilmente "commerciale" proprio per effetto della diretta erogazione ad un’ampia fascia di utenza del "servizio" sportivo; senza sottacere – poi – lo stesso travisamento di fondo che gli appellanti fanno del concetto di "residenza", da loro inteso in senso sostanzialmente anagrafico, ossia senza considerare che nel contesto organizzativo del territorio, proprio dell’urbanistica, chi studia e lavora in una data area deve essere ragionevolmente equiparato a coloro che risiedono nell’area medesima, e ciò al fine dell’individuazione dei bisogni della collettività ivi comunque insediata.

L’insieme di tali considerazioni conduce pertanto, anche al di là del dato letterale costituito dall’esplicitamente non tassativa elencazione dell’art. 13.5 delle N.T.A. del P.R.G., a ricomprendere comunque la palestra nel novero delle attività artigianali assimilate alle attività commerciali di vendita al dettaglio.

Va anche soggiunto che non sussiste la "manifesta contraddittorietà" che gli appellanti pretenderebbero di cogliere nella motivazione della sentenza impugnata, laddove a pag. 12 si afferma la natura assimilata a "commerciale" della struttura in questione in considerazione del suo carico urbanistico, nel mentre a pag. 19 si afferma che il carico urbanistico rileva soltanto a seguito del passaggio ad una diversa categoria funzionale.

L’assunto di pag. 19 non è infatti completamente riferito dagli appellanti, posto che ivi pure si legge: "Quanto alla rilevanza del carico urbanistico indotto dall’insediamento dell’attività in questione ed alla sua incidenza sotto il profilo del mutamento delle destinazioni d’uso, il tribunale condivide l’orientamento giurisprudenziale secondo cui ciò che rileva è il maggior carico urbanistico derivante dal passaggio ad una diversa categoria funzionale; nella specie, peraltro, legittimamente l’amministrazione, dopo aver qualificato l’attività artigianale in questione come assimilabile alle attività commerciali al dettaglio, ha altresì rilevato che la modifica della destinazione d’uso, indotta dal suo insediamento, ha come presupposto implicito la modifica del carico urbanistico, e cioè dei relativi standards, il cui rispetto è imposto dallo strumento urbanistico come condizione di ammissibilità delle destinazioni previste per la zona di cui trattasi (cfr. norme tecniche citate)".

Ossia, il T.A.R. ha correttamente affermato che, in linea di principio, nel passaggio da una categoria funzionale ad altra (intendendo per "categoria funzionale" le macrocategorie predette) rileva sempre il carico urbanistico; ma nell’ipotesi in cui – come, per l’appunto, nel caso di specie – un insediamento artigianale associ anche un’attività commerciale tale da divenire assimilabile ad attività commerciale al dettaglio, la relativa modifica della destinazione d’uso è sostanzialmente assimilabile all’anzidetto mutamento di macrocategoria, con ogni conseguenza per quanto attiene alla valutazione del mutato carico urbanistico dell’area.

Concludendo sul punto, va anche evidenziato che gli appellanti da ultimo si risolvono ad ammettere che il mutamento di destinazione potrebbe avvenire nella specie soltanto a seguito di lavori edilizi e in funzione della nuova attività svolta nell’immobile: essi, tuttavia – come si vedrà appresso, al Par. 1.4. – minimizzano accortamente l’entità dei lavori da essi eseguiti, tentando con ciò di sottrarli alla loro configurazione di lavori eccedenti la manutenzione straordinaria ed il restauro che l’Amministrazione Comunale ha riconosciuto nel provvedimento reso oggetto di impugnazione nel giudizio di primo grado.

1.3. Con il secondo motivo gli appellanti hanno in buona sostanza riproposto la tesi della difformità dell’art. 13.5 delle N.T.A. del P.R.G. di Sesto Fiorentino rispetto alla disciplina contenuta nell’art. 4 della L.R. 39 del 1994, laddove – per l’appunto – assoggetterebbe, a differenza del sovrastante disposto legislativo, a procedimento di mutamento di destinazione d’uso fattispecie non rientranti nell’ambito delle "macrocategorie" predette.

In particolare, secondo la prospettazione degli appellanti, mentre la disciplina legislativa di fonte regionale consentirebbe ai Comuni di definire, nell’ambito delle categorie indicate, ulteriori articolazioni, sarebbero ad essi vietati trasferimenti arbitrari di categorie di insediamenti di servizi, ossia artigianali, nella diversa categoria degli insediamenti commerciali.

Anche tale motivo va respinto.

A ragione il T.A.R. ha evidenziato che l’art. 4 della L.R. 39 del 1994, all’epoca vigente, dopo aver previsto che sono comunque considerati mutamenti della destinazione d’uso i passaggi dall’una all’altra delle categorie fondamentali (residenziale, industriale o artigianale, commerciale…..), dispone che il Comune potrà definire, nell’ambito delle categorie sopra indicate, ulteriori articolazioni, "il passaggio all’una o all’altra delle quali viene considerato mutamento della destinazione d’uso".

Nella specie, pertanto, l’Amministrazione Comunale altro non ha fatto che disarticolare la categoria commerciale in due subcategorie e, quindi, disciplinare distintamente dalle altre talune particolari categorie artigianali in considerazione della loro immediata funzionalizzazione alla residenza.

Tale disciplina particolare si fonda essenzialmente sulla loro assimilazione alle attività commerciali di vendita al dettaglio ai soli fini del giudizio di compatibilità con la destinazione ammessa.

La scelta con ciò operata dal Comune risponde allo scopo evidente di armonizzare, sotto il profilo delle destinazioni d’uso, una serie di attività tutte immediatamente funzionali alla residenza e, potenzialmente, assimilabili dal punto di vista del carico urbanistico indotto dal loro insediamento, e consente alla medesima Amministrazione di esprimere un puntuale giudizio di compatibilità tra attività artigianali al servizio della residenza e attività di commercio al dettaglio.

La scelta tessa non contrasta – altresì – con la norma primaria all’epoca introdotta dal legislatore regionale, il quale con ciò aveva inteso evitare che i Comuni, nell’esercizio della discrezionalità loro riconosciuta nella materia di cui trattasi, potessero istituire nell’ambito dei propri "sistemi" altre categorie generali, oltre a quelle elencate dalla legge.

Fermo questo divieto, quindi, il legislatore regionale non aveva per certo impedito alle Amministrazioni Comunali di autonomamente identificare e qualificare talune attività – già presupposte nell’ordinamento statuale e regionale e coerentemente normate nel medesimo "sistema" comunale – al limitato fine del giudizio di compatibilità tra destinazioni d’uso urbanisticamente rilevanti, assimilandole a quelle di una diversa categoria.

Si deduce da tutto ciò, quindi, che l’enucleazione dalla categoria produttiva artigianale di determinate attività artigianali in ragione della loro diretta connesione con la residenza, al fine di apprezzarne la compatibilità con le attività comprese nella destinazione urbanistica del commercio al dettaglio, non comportava la violazione dell’anzidetto art. 4 della L.R. 39 del 1994.

Semmai, ove si aderisse alla tesi degli appellanti, si dovrebbe paradossalmente ritenere che tutte le attività artigianali, comprese quelle espressamente indicate nella norma tecnica, rientrino nella categoria urbanistica produttivaartigianale, con la conseguenza che negli immobili posti nel centro abitato e che abbiano destinazione commerciale, non possano essere ammessi esercizi del tipo considerato, configurandosi un mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.

1.4. Con un terzo e alquanto articolato ordine di motivi gli appellanti hanno dedotto l’avvenuta violazione delle regole di qualificazione degli interventi edilizi e dell’art. 33 della L.R. 52 del 1999, affermando altresì che il giudice di primo grado avrebbe al riguardo omesso di pronunciarsi su di un punto essenziale della controversia.

Come visto innanzi, gli appellanti in tal senso contestano l’affermazione del Comune, fatta propria dal giudice di primo grado, secondo cui gli interventi realizzati nell’edificio adibito a palestra costituirebbero una ristrutturazione di quest’ultimo, vietata in tale zona del P.R.G.

Ad avviso degli appellanti non si tratterebbe, nella specie, di ristrutturazione avuto riguardo, in primo luogo, all’asserita modestia delle opere eseguite.

Risulterebbero inoltre decisivi, sempre ad avviso degli appellanti, l’esito favorevole della denuncia di inizio di attività, esplicitamente affermato dalla medesima Amministrazione Comunale con la nota del 2/1612001, in atti, e – soprattutto – le valutazioni espresse dalla Polizia Municipale, e da questa riferite al magistrato penale (rapporto n. 33/02, in atti), secondo le quali la modificazione rilevante dell’immobile per destinarlo all’uso di palestra sarebbe avvenuta con i lavori costituenti oggetto della denuncia di inizio di attività favorevolmente archiviata dal Comune.

Gli appellanti reputano del tutto condivisibile la conclusione della Polizia Municipale, contenuta nel predetto rapporto, secondo cui "appare pertanto sorprendente che solo in questa fase, con i lavori già conclusi, si ritenga che la stessa tipologia di opere ecceda la manutenzione straordinaria ovvero il restauro e risanamento conservativo", quando – per contro – "la denuncia di inizio di attività era stata archiviata con esito favorevole": conclusione che evidenzierebbe, oltre a tutto, la contraddittorietà della qui impugnata ingiunzione a demolire sia rispetto al testè descritto orientamento assunto nella medesima fattispecie dalla Polizia Municipale, sia rispetto al precedente provvedimento di archiviazione con esito favorevole della denuncia di inizio di attività riguardante proprio i lavori interni rivolti univocamente alla destinazione di palestra.

Gli appellanti affermano che in relazione a tali profili di contraddittorietà nulla si direbbe nella motivazione della sentenza impugnata, e reputano che allo stesso giudice di primo grado sarebbe pure sfuggita la circostanza dell’effettiva inesistenza dell’elemento oggettivo della ristrutturazione, e cioè dell’insieme sistematico di opere che avrebbe dato vita ad un organismo edilizio "in tutto o in parte diverso".

Sempre secondo gli appellanti, inoltre, nella specie sarebbero sati eseguiti lavori rientranti nella categoria del "restauro e risanamento conservativo", coincidente a loro avviso con la categoria denominata "consolidamento statico e risanamento igienico" nelle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Sesto Fiorentino.

Tale tipologia di lavori, sempre ad avviso degli appellanti, sarebbe assentibile à sensi dell’art. 12 delle N.T.A. del P.R.G. anche nell’edificio di loro proprietà e, comunque, anche al di fuori del Piano di recupero in cui esso ricade.

Gli appellanti evidenziano, inoltre, che nella categoria del "restauro e del risanamento conservativo" non è prescritta la conservazione dell’identica destinazione originaria, nel mentre è consentita l’introduzione di destinazioni d’uso diverse, purchè "compatibili" con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio (cfr. sul punto l’art. 4, comma 2, lett. c) della L.R. 52 del 1999) e che, pertanto, ove pur si ammettesse che i lavori eseguiti e la destinazione a palestra hanno mutato la destinazione artigianale originaria, sarebbe anche vero che, stante la conservazione della struttura originaria dell’edificio la destinazione impressa risulterebbe comunque compatibile con quella originaria e con gli elementi strutturali, tipologici e formali dell’edificio.

Inoltre, dalla configurazione dei lavori medesimi come "restauro e risanamento conservativo" discenderebbe ad avviso degli appellanti medesimi l’illegittimità dell’ingiunzione a demolire, posto che l’art. 33 della L.R. 52 del 1999 limiterebbe la sua adozione al caso di lavori abusivi di ristrutturazione edilizia; senza sottacere che non sussisterebbe un aumento di carico urbanistico, rilevante ai fini della qualificazione giuridica dell’intervento, proprio in ragione della conservazione dell’edificio nel rispetto dei suoi caratteri essenziali e della destinazione impressa, compresa nella macrocategoria produttiva ed artigianale.

Gli appellanti – da ultimo – ritengono inoltre che il giudice di primo grado avrebbe ignorato anche la decisiva circostanza per cui le opere sono state eseguite sulla base della denuncia di inizio di attività e della successiva variante (salve modeste difformità introdotte in sede esecutiva, che non toccano gli aspetti rilevanti dell’intervento), rispetto alle quali il Comune mai si sarebbe avvalso del potere di vietare e di sospendere i lavori intrapresi: dal che, dunque, discenderebbe un ulteriore profilo di contraddittorietà.

Il Collegio, per parte propria, evidenzia che, à sensi dell’art. 4, comma 2, lett. b), della L.R. 52 del 1999, già vigente all’epoca dei fatti di causa e ad oggi sostituita dalla L.R. 3 gennaio 2005 n. 1, gli interventi di manutenzione straordinaria, comprendenti le opere necessarie a realizzare o a integrare i servizi igienicosanitari, non potevano comportare modifiche della destinazione d’uso.

Ciò – come puntualmente rimarcato dallo stesso giudice di primo grado – trovava rispondenza nel principio generale per cui tali interventi, proprio per tale ragione, erano esonerati, a differenza di quelli di ristrutturazione, dal contributo di urbanizzazione (art. 9, lett. c, legge 28 gennaio 1977 n. 10; cfr. ora, peraltro, la differente formulazione dell’art. 17, comma 3, lett. b, del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), e posto che lo stesso art. 19 della L.R. 52 del 1999 riconnetteva gli oneri di urbanizzazione agli interventi, anche assoggettati a mera denuncia di inizio di attività, comportanti nuova edificazione ovvero un incremento dei carichi urbanistici in funzione del mutamento delle destinazioni d’uso degli immobili.

A questo punto vanno quindi decisamente rettificate in linea di fatto talune affermazione degli appellanti

Già nella nota del 2 gennaio 2001, richiamata peraltro dagli appellanti come atto di assenso alla denuncia di inizio di attività, l’Amministrazione Comunale ha comunicato ai presentatori della denuncia medesima che, non essendo stato precisato il tipo di attività che si intendeva insediare, "quella inerente ad un eventuale esercizio di palestra non sarebbe ammessa in quanto integrante un mutamento di destinazione d’uso".

E’inoltre opportuno precisare che tale nota trova il proprio presupposto in un carteggio intercorso tra il Sig. M. S., dante causa dei ricorrenti, ed il responsabile del procedimento, circa il parere preventivo che lo stesso Sernesi aveva chiesto al Comune, nel quale già era stato affermato che "gli interventi prospettati non si configurano come manutenzione straordinaria. L’intervento di trasformazione di locali magazzini/laboratorio artigianale in locali adibiti a palestra, non può ricondursi ad un intervento di tipo manutentivo, in quanto va ad incidere sul carico urbanistico che la nuova funzione determina. Completamente diverso è il rapporto di funzionalità che si determina tra l’immobile e gli spazi urbani che entrano con questo in relazione. Diverso è il fabbisogno di parcheggi pubblici o di uso pubblico….come diversi sono i requisiti di mobilità pedonale e carrabile che si correlano alle due funzioni.".

In relazione a ciò, quindi, l’Amministrazione Comunale aveva ribadito anche nei riguardi degli attuali appellanti la correttezza della classificazione dell’intervento quale ristrutturazione edilizia, posto che il progetto sostanzia la trasformazione dell’organismo edilizio mediante un insieme sistematico di opere che manifestamente – come si vedrà appresso – eccedono i limiti della manutenzione straordinaria.

Va anche evidenziato che la successiva comunicazione dell’esito favorevole della denuncia di inizio di attività sul presupposto della dichiarazione del progettista di mantenimento della destinazione artigianale reca comunque – a sua volta – l’inciso riferito alle precisazioni della predetta nota dd. 2 gennaio 2001, ossia la notazione dell’illegittimità del mutamento della destinazione d’uso in palestra.

Ma, soprattutto, è dirimente la constatazione che gli appellanti significativamente omettono di richiamare la susseguente nota dd. 31 dicembre 2001, a loro inviata dal responsabile del procedimento e con la quale la denuncia di inizio di attività presentata in variante è dichiarata irricevibile a motivo del rilevato incremento di superficie e di volume e, soprattutto, del "rilevante incremento degli spazi destinati ad uso spogliatoio e docce…..che poco rassicura sulla permanenza dell’uso artigianale, in specie per la mancata precisazione del tipo di uso artigianale e del numero di addetti".

Tale nota – che, oltre a tutto, non risulta di per sé impugnata – smentisce quindi la tesi degli appellanti medesimi sull’avvenuto perfezionamento delle denunce di inizio di attività, ancorchè apparentemente (e, comunque, in via eclatantemente erronea) condivisa dalla Polizia Municipale.

La rilevanza di tale nota nell’economia di causa è stata, altresì, correttamente evidenziata anche dal giudice di primo grado, per cui non può davvero sostenersi che il giudice, per questa via, non si sia fatto comunque carico di valutare la fattispecie in una dimensione complessiva.

Deve dunque concludersi nel senso che non sussiste alcuna contraddittorietà nell’operato dell’Amministrazione Comunale per quanto segnatamente attiene alla compatibilità tra l’ingiunzione a demolire e gli atti dei procedimenti relativi alle denunce di inizio di attività presentate dagli attuali appellanti.

Inoltre, l’intervento complessivamente posto in essere dagli attuali appellanti non può che configurarsi come ristrutturazione, conseguendo da esso un mutamento della destinazione d’uso dell’immobile eccedente i limiti della manutenzione ordinaria.

Non è contestato in linea di fatto – ed, anzi, è ammesso dagli stessi appellanti – che l’intervento in questione complessivamente contempla il riassetto dei servizi igienici con una superficie che quasi decuplica quella originaria (da mq. 23 a mq. 210), la realizzazione di un nuovo impianto di smaltimento di liquami a ciò conseguente, la demolizione e la ricostruzione di alcuni tramezzi interni, l’apertura e la chiusura di alcune porte interne, la messa in opera di una scala interna, modificazioni (asseritamente modeste) delle aperture carrabili, un parziale spostamento degli spogliatoi, nonché e interventi (altrettanto asseritamente modesti) di modifica nella corte tergale.

Orbene, poiché – come rimarcato innanzi – l’insieme di tali ben rilevanti opere non era configurabile à sensi dell’allora vigente art. 4, comma 2, lett. b), della L.R. 52 del 1999 come "interventi di manutenzione straordinaria" in quanto tale tipologia di opere non potevano "comportare modifiche della destinazione d’uso" (cfr. ivi), gli appellanti affermano che le opere da loro realizzate sarebbero riconducibili alla tipologia degli "interventi di restauro e di risanamento conservativo" contemplati dalla susseguente lett. c) del medesimo articolo di legge regionale, in quanto asseritamente "rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurare la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essa compatibili; tali interventi comprendono il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio; tali interventi comprendono altresì gli interventi sistematici, eseguiti mantenendo gli elementi tipologici formali e strutturali dell’organismo edilizio, volti a conseguire l’adeguamento funzionale degli edifici, ancorchè recenti" (cfr. ivi).

Sempre ad avviso degli appellanti, tale categoria di interventi corrisponderebbe alla nozione di "opere di consolidamento statico o di risanamento igienico" contenuta nell’art. 12 delle N.T.A. del P.R.G. di Sesto Fiorentino.

Il Collegio, per parte propria, evidenzia che la testè descritta categoria del "restauro e del risanamento conservativo", sebbene di per sé letteralmente si riferisce a più "destinazioni d’uso" dell’immobile e, quindi, consente anche un mutamento della destinazione d’uso dello stesso, presuppone comunque la realizzazione di nuove opere nel "rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo": ossia, le pur ammesse opere di "rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio", di "inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso", nonché di "eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio", ovvero "gli interventi sistematici… volti a conseguire l’adeguamento funzionale" dell’edificio, devono comunque essere "eseguiti mantenendo gli elementi tipologici formali e strutturali dell’organismo edilizio": e se così è, risulta ben evidente che, se non altro, l’anzidetto ampliamento della superfici destinata a bagni e a servizi igienici da 23 a 210 metri quadri non consente per certo di affermare che nella specie gli "elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo edilizio" sono conservati.

Pertanto, con altrettanta evidenza le opere realizzate dagli appellanti non possono che essere ricondotte alla nozione di "ristrutturazione edilizia" contemplata dalla susseguente lett. d) dell’art. 4, comma 2, della L.R. 52 del 1999, trattandosi di intervento indubitabilmente rivolto "a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente; tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, la eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti".

Nella specie, infatti, proprio il consistente ampliamento dei servizi igienici, caratterizzante la palestra e indiscutibilmente necessario per la sua funzionalità, determina quel mutamento dei caratteri costruttivi dell’organismo edilizio che induce a identificare la ricorrenza dell’ipotesi della "ristrutturazione edilizia" anche con le conseguenze di carico urbanistico dianzi evidenziate.

Del resto, anche lo stesso strumento urbanistico, dopo aver classificato la zona in cui si trova l’immobile in questione come zona omogenea A, sottozona Ac, assoggettandola alla redazione di un piano di recupero di iniziativa privata per l’attuazione di un intervento di ristrutturazione, limita gli interventi sul patrimonio esistente, in assenza di piano di recupero, al consolidamento statico e risanamento igienico, ovvero alla straordinaria manutenzione (cfr. art. 12 delle N.T.A. del P.R.G.), nel caso di specie per certo non configurabile.

Inoltre, quanto alle destinazioni d’uso nella sottozona Ac, il medesimo P.R.G. ammette destinazioni commerciali, limitatamente ad esercizi di vicinato, nonché produttive, ma limitatamente a negozi, laboratori artigiani e piccole industrie e purché siano rispettati gli standards di parcheggio pubblico e privato (cfr. ibidem, art. 14)

In conseguenza di tutto ciò i lavori eseguiti dagli appellanti, avendo comportato la realizzazione di un intervento di ristrutturazione con mutamento della destinazione d’uso non consentito dallo strumento urbanistico, non potevano ritenersi conforme alla denuncia di inizio di attività presentata – viceversa – al dichiarato fine di eseguire un mero intervento di manutenzione straordinaria (e, quindi, neppure di restauro e di risanamento conservativo, categoria che gli appellanti si sono risolti ad invocare soltanto in appello).

Da ciò discende pure anche l’insussistenza della dedotta violazione dell’allora vigente art. 33 della L.R. 52 del 1999, posto che a ragione è stata quindi prefigurata, in caso di inadempimento, l’applicazione della ivi contemplata sanzione della demolizione di opere di ristrutturazione edilizia eseguite in totale difformità dalla dichiarazione di inizio di attività.

1.5. Infondato è pure l’ultimo motivo di appello, con il quale è stata dedotta l’omessa comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 e ss. della L. 7 agosto 1990 n. 241 e successive modifiche.

Anche a prescindere dalla circostanza che l’emanazione dell’ingiunzione a demolire è scaturita, nella specie, dall’esplicita (e, giova ribadire, non impugnata) statuizione di irricevibilità della denuncia di inizio di attività in variante presentata a suo tempo dagli attuali appellanti ed è stata, quindi emessa in dipendenza di un procedimento ad istanza di parte per il quale la previa comunicazione di cui all’art. 7 e ss. non è richiesta (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 8 giugno 2010 n. 3624), va comunque evidenziato che i pregressi orientamenti in senso favorevole alla tesi dei ricorrenti da parte di questo consesso (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 26 febbraio 2003 n. 1095; cfr. pure Sez. IV, 27 gennaio 2006 n. 399 che esonerava dall’obbligo della previa comunicazione dell’avvio del procedimento nella sola ipotesi in cui fosse stata precedentemente disposta la sospensione cautelare dei lavori da parte dell’Amministrazione Comunale) sono stati in epoca più recente riconsiderati.

Infatti, dapprima con decisione n. 2733 dd. 6 giugno 2008 la Sezione VI di questo Consiglio ha statuito nel senso che l’ingiunzione a demolire opere abusivamente realizzate costituisce un atto palesemente dovuto, con la conseguenza che l’omessa comunicazione dell’avvio del relativo procedimento risulta irrilevante, anche in considerazione di quanto disposto dall’art. 21octies della L. 7 agosto 1990 n. 241, introdotto dall’art. 14 della l. 11 febbraio 2005 n. 15, il quale esclude possa essere annullato il provvedimento qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non può essere diverso da quello in concreto adottato.

Questa stessa Sezione – a sua volta – ha susseguentemente affermato, in via più generale, che gli atti sanzionatori in materia edilizia, attesa la loro natura rigidamente vincolata, non risultano viziati ove non siano stati preceduti dalla comunicazione d’avvio del procedimento (cfr. in tal senso la decisione n. 4659 dd. 26 settembre 2008; cfr., altresì, negli stessi termini il il parere n.3433 dd. 16 gennaio 2008 reso dalla Sezione II): e anche questo Collegio per la presente fattispecie non trova ragioni per discostarsi da tale interpretazione.

2. Stante la particolarità degli argomenti trattati, il Collegio reputa di compensare integralmente tra tutte le parti le spese e gli onorari per entrambi i gradi di giudizio, ferma restando peraltro l’irripetibilità del contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e successive modifiche.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,lo respinge.

Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari per entrambi i gradi del giudizio.

Dichiara irripetibile il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e successive modifiche.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 maggio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Gaetano Trotta, Presidente

Sandro Aureli, Consigliere

Raffaele Greco, Consigliere

Guido Romano, Consigliere

Fulvio Rocco, Consigliere, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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