Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 25-05-2011) 25-08-2011, n. 32834

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il procedimento ha avuto per oggetto l’attività, fino al 2007, nella zona nord-est di Napoli, tra Pomigliano d’Arco e Marigliano, di diversi gruppi criminali dediti per lo più ad estorsioni e traffico di stupefacenti.

Le ipotesi di accusa prevedono tre distinte imputazioni di associazione per delinquere, con riguardo alle articolazioni che si sarebbero manifestate nelle attività criminali nella zona.

La prima imputazione, capo A), è quella relativa all’associazione per delinquere di tipo camorristico che avrebbe operato a Marigliano, nel quartiere denominato "L. 219", detto "Pontecitra", sotto la direzione di A.F., dedita prevalentemente ad estorsioni e traffico di stupefacenti; nell’ambito della medesima imputazione è compresa l’attività di un secondo gruppo che, anche con elementi provenienti da Marigliano, si sarebbe occupato dello spaccio di stupefacenti a Pomigliano d’Arco sotto la direzione, nell’ipotesi d’accusa, di E.U., direttamente collegato a PO.Um., referente in Pomigliano di M. V..

Con riguardo all’attività di spaccio di stupefacenti è stata formulata anche l’imputazione sub QQ) ascritta ai gruppi operanti sia in Marigliano, che a Pomigliano, specificamente dediti allo spaccio di stupefacenti.

E’ in ogni caso ipotizzato che i due gruppi avrebbero agito quali locali articolazioni del più potente clan facente capo a M. V., che li avrebbe controllati attraverso MA. R. (su Marigliano) e PO.Um. (su Pomigliano d’Arco).

Il capo di imputazione sub EEE) riguarda poi l’attività di un terzo gruppo criminale, operante a Castello di Cisterna, con a capo I.V., autonomo in quanto forte dell’alleanza e del costante appoggio del clan SARNO di Ponticelli, ma con rapporti con gli altri due.

Alle principali imputazioni si accostano quelle relative ai delitti- scopo delle varie associazioni ed in particolare numerose ipotesi di estorsione, consumata e tentata, di spaccio di stupefacenti e di usura con connessa attività estorsiva volta al recupero del denaro prestato.

Il dibattimento a carico di 24 imputati, la cui posizione non era stata altrimenti definita, si è svolto davanti al Tribunale di Nola che, a parte l’assoluzione per alcune delle posizioni e delle ipotesi di reato, ha condannato la maggior parte degli imputati, ritenendo peraltro il concorso formale fra i delitti associativi sub A) e QQ), concernenti l’operato del clan AUTORE in Marigliano e Pomigliano d’Arco.

Sull’appello dei 20 imputati ritenuti responsabili, la Corte d’appello di Napoli ha prosciolto M.V., per non doversi procedere nei suoi confronti in ordine al reato di cui al capo A) per precedente giudicato ed in ordine al reato di cui al capo QQ, non risultando concessa l’estradizione suppletiva per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

Quanto ai restanti appellanti, a parte alcune riforme relative al trattamento sanzionatorio per concessione, o diversa valutazione, delle attenuanti generiche e rideterminazione della pena, il giudice d’appello ha confermato le valutazioni di responsabilità del primo giudice, come meglio indicato più oltre in relazione alla posizione di ciascun ricorrente.

Hanno proposto ricorso per cassazione C.C., D. P., E.C., E.L., E.M., E.U., MA.Ig., M.V., MO.Ca., N.A., P.E., R. S., T.G. e Z.A..

Motivi della decisione

M.V. è stato ritenuto dal Tribunale colpevole dei reati a lui ascritti ai capi A), associazione armata di tipo camorristico, dal 23 maggio 2005, e QQ), associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74.

Come anticipato sopra, la Corte d’appello ha dichiarato non doversi procedere in relazione al capo A) per precedente giudicato, limitando i fatti a lui addebitabili alla data del 23 maggio 2005, e quanto al capo QQ), per mancanza di estradizione suppletiva.

Il M. ha proposto ricorso per cassazione con dichiarazione presentata all’Amministrazione carceraria, riservando i motivi che non sono stati poi depositati. Ne discende l’inammissibilità dell’impugnazione.

T.G. è stato ritenuto dal Tribunale colpevole dei delitti associativi lui ascritti ai capi A), associazione armata di tipo camorristico, e QQ), associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, per avere, dapprima, collaborato direttamente e personalmente, con A.F. e C.L.A., svolgendo funzioni operative nel settore delle estorsioni e del commercio di stupefacenti e, dopo la cattura dei medesimi, gestito e diretto in prima persona le attività del gruppo, con compiti di coordinamento delle azioni dei singoli sodali, di pianificazione dei singoli delitti-fine, di partecipazione diretta ad alcuni di tali delitti, di gestione e redistribuzione dei relativi profitti e raccordo con la struttura centrale, nonchè di 14 ipotesi di estorsione pluriaggravata consumata e tentata, lui ascritte ai capi C), E), F), G), H), N), P), Q), R), S) T), Z) MM), PP), dei delitti di detenzione e cessione di stupefacenti sub UU) e ZZ) relativi ad hashish e cocaina.

La Corte d’appello ha confermato in toto la sentenza del Tribunale.

Ricorre per cassazione il prevenuto e deduce mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza, sia in ordine all’affermazione di responsabilità relativa alla partecipazione all’associazione camorristica, sia in relazione alla responsabilità per i reati fine.

Lamenta la conferma della condanna subita in primo grado, in assenza di prove oggettive e concrete.

I giudici del merito avrebbero ritenuto attendibili i contributi dei collaboratori di giustizia, benchè il ruolo del ricorrente venisse delineato in modo contrastante; secondo S., sarebbe stato totalmente estraneo all’organizzazione, avendo un lavoro lecito e non essendo coinvolto in alcuna delle attività criminali del gruppo facente capo ad A.F..

Gli altri collaboratori evidenzierebbero che il ricorrente svolgeva attività di imbianchino, non conciliabile con l’attività di gestione di un clan camorristico, mentre i rapporti con quell’ambiente dipendevano solo dalla sua parentela con il cognato A.F..

Neppure le intercettazioni telefoniche dimostrerebbero un suo ruolo attivo; al più un ruolo passivo che aveva determinato le lamentele che A., in un colloquio con la moglie, aveva avuto sul suo comportamento.

Osserva il Collegio che il ricorso è inammissibile in quanto del tutto generico, essendo per buona parte ripetitivo delle doglianze proposte in sede di appello, alle quali la Corte territoriale ha dato articolate, diffuse ed esaurienti risposte, esaminando i contributi dei collaboratori di giustizia (secondo cui il prevenuto accompagnava i capi della consorteria ai colloqui con il vertice dell’associazione camorristica di riferimento) e dando conto dell’irrilevanza delle pretese contraddizioni fra le diverse dichiarazioni; ha evidenziato il giudice d’appello come quelle di S., riferite alla conoscenza diretta con il T. nel breve periodo di comune permanenza a Marigliano, dovessero essere valutate in correlazione alle altre, riferite al periodo di detenzione in cui aveva appreso particolari ben più concreti sull’attività di quello, dichiarazioni confermate da intercettazioni di cui la Corte ha dato ampio conto.

La Corte d’appello ha affrontato tutte le accuse rivolte al prevenuto, evidenziando le fonti di prova della responsabilità, sia per i reati associativi, individuando le diverse intercettazioni da cui emergeva il ruolo che nel tempo costui aveva assunto all’interno della consorteria, sia per quel che concerne le estorsioni, sia in relazione al traffico di stupefacenti, riportando i numerosi passaggi delle conversazioni fra terzi, ma anche fra costui ed A. in tema di estorsioni, e rilevando gli elementi che ne inquadravano la responsabilità per ciascuno degli episodi estorsi vi e di cessione di stupefacenti.

A fronte della meticolosità con cui la Corte territoriale ha esplicitato gli elementi di prova a carico e li ha esaminati nel loro valore dimostrativo, il ricorso si limita ad una prospettazione generica, le censure essendo formulate in modo stereotipato, senza alcuna considerazione degli elementi evidenziati e degli argomenti spesi nella sentenza impugnata. Sicchè l’assenza di un collegamento concreto con la motivazione di questa impedisce di ritenere rispettati i requisiti di forma e di contenuto minimo voluti per l’impugnazione di legittimità, che deve rivolgersi al provvedimento e non può invocare una mera rilettura dei fatti.

E.L. è stata ritenuta dal Tribunale colpevole del reato a lei ascritto al capo A), associazione armata di tipo camorristico, per avere collaborato personalmente e direttamente, prima con il cognato A.F. e, dopo la cattura del medesimo, con il marito T.G., curando in particolar modo la gestione del commercio di stupefacenti.

La Corte d’appello ha ritenuto le attenuanti generiche e rideterminato la pena.

Ricorre per cassazione la prevenuta deducendo violazione di legge e difetto di motivazione sulla sua partecipazione al clan AUTORE. La Corte d’appello non avrebbe dato adeguatamente conto degli elementi a suo carico ed in particolare avrebbe trascurato le doglianze difensive sul possibile configurarsi di un mero concorso esterno all’associazione.

Sarebbero state male interpretate le intercettazioni ambientali, dalle quali non risulterebbe la pretesa posizione di affiliata alla consorteria, ed il ricorso le evidenzia, sottolineandone l’equivocità in senso accusatorio.

La Corte territoriale avrebbe indicato in modo difforme il contenuto delle captazioni ed in ogni caso ne avrebbe travisato il risultato, non avendo valutato che non v’erano collaboratori di giustizia che si fossero riferiti a lei come a persona intranea al clan, e non avendo considerato gli elementi addotti dalla difesa riguardo alla possibilità di configurare solo una sua partecipazione esterna al clan capeggiato da A..

Ad avviso del Collegio il ricorso è inammissibile in quanto del tutto generico e consistente in una serie di citazioni giurisprudenziali in tema di intercettazioni e di travisamento della prova, a fronte delle sentenze dei giudici del merito che hanno chiaramente individuato le captazioni ritenute tali da evidenziare il ruolo della ricorrente all’interno del clan, quale distributrice delle c.d. settimane e del vestiario e responsabile degli interventi di nomina di difensori agli affiliati arrestati – nel periodo in cui era affidata a suo marito T.G. la gestione dei fondi, prima che A., scontento per il comportamento di quello, la affidasse alla propria moglie An. – e le avevano diffusamente riportate, consentendo un adeguato controllo della loro valenza probatoria.

Nè la ricorrente riesce a segnalare in che parti il contenuto delle captazioni sia stato erroneamente riportato; in che termini il giudice di merito abbia indicato un contenuto diverso da quello reale.

Sostiene che la Corte d’appello avrebbe travisato il senso della conversazione captata, dalla quale aveva dedotto che lei avesse funzioni di distributrice delle settimane, mentre sarebbe risultato chiaramente che quel ruolo era affidato ad ES.An.; tuttavia non indica quale passaggio non esattamente riportato avrebbe indotto il giudice di merito a commettere un tale errore.

In definitiva, la doglianza si risolve in un’inammissibile critica all’interpretazione e valutazione del significato della captazione, dalla quale i giudici del merito avevano tratto la conclusione che a lei era affidato quell’incarico, fino a che, a causa del comportamento di suo marito, non era stata sostituita dalla moglie di A.; interpretazione che, in quanto non illogica, si sottrae a censure in questa sede, in cui non è prospettabile un’interpretazione del significato di intercettazioni diversa da quella proposta dal giudice di merito, salvo che ricorra l’ipotesi del travisamento della prova, cioè si versi nel caso in cui il giudice di merito indichi il contenuto di un atto in modo difforme da quello reale (cfr. Sez. 2^, sent. n. 38915 del 17/10/2007, Rv. 237994 rie: Donno e altro).

Nel caso, invece, non si controverte sulle parole pronunziate, ma sul loro significato nel contesto complessivo delle risultanze del procedimento.

P.E., è stato ritenuto dal Tribunale colpevole dei reati al lui ascritti ai capi A), associazione annata di tipo camorristico, per avere, in qualità di partecipe, prestato assistenza e ausilio ai vertici dell’organizzazione e svolto per loro conto funzioni operative, soprattutto nel settore delle attività estorsive, nonchè di due delitti di tentata estorsione pluriaggravata, rubricati ai capi BB) e CC).

La Corte d’appello ha ritenuto le attenuanti generiche, valutandole equivalenti ed ha rideterminato la pena, confermando nel resto la sentenza del primo giudice.

Ricorre per cassazione il prevenuto sulla base di due motivi.

Con il primo deduce violazione di legge e difetto di motivazione sulla prova della sua partecipazione all’associazione sub A), in quanto nella motivazione della sentenza impugnata la prova della partecipazione all’associazione si risolverebbe nella prova del concorso nei due reati fine sicuramente ascrivibili al clan. In ogni caso le dichiarazioni del collaboratore S., che il ricorso riporta in parte qua, potrebbero costituire riscontro alla partecipazione ai tentativi di estorsione, ma non certamente all’associazione contestata al capo A).

Mancherebbe quindi la valutazione della presenza o meno di elementi significativi, ed ulteriori, atti a dimostrare la sua affectio societatis, al di là della sola prova della partecipazione ai reati- fine.

L’unico episodio ascrittogli non autorizzerebbe a desumere l’esistenza di un suo continuo e stabile apporto alla vita dell’associazione.

Sostiene il ricorrente che si tratterebbe di un’ipotesi di concorso formale tra l’imputazione di cui al capo A) e quelle di cui ai capi BB) e CC), o meglio di un’ipotesi di concorso di persone ex art. 110 C.P. nelle due tentate estorsioni, in luogo della fattispecie associativa.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione sul motivo di appello concernente la non applicabilità a P. del più grave trattamento sanzionatorio previsto per l’associazione per delinquere di stampo mafioso dalle norme della L. n. 251 del 2005.

I giudici del merito non avrebbero considerato che il ricorrente era stato arrestato, per l’esecuzione di un ordine di carcerazione, già dall’8 febbraio 2005, tanto che nel luglio 2006 l’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare emessa nel presente procedimento era avvenuta con notifica nel luogo di detenzione.

La Corte di merito non avrebbe motivato sulla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per acquisire la prova di quanto sopra.

Mancherebbe inoltre la motivazione sulle doglianze difensive circa la cessazione della sua appartenenza all’associazione in epoca antecedente alla notifica dell’ordinanza di custodia cautelare e, in ogni caso, precedente all’entrata in vigore della norma di maggior rigore.

Nulla verrebbe rilevato in relazione alla sua specifica posizione e neppure si sarebbero evidenziati eventuali elementi tali da dimostrare che il P., anche se detenuto, avesse continuato a commettere ulteriori atti di univoca valenza associativa.

Mancherebbero, nè i giudici del merito ne avrebbero dato conto, contatti, frequentazioni, collegamenti anche epistolari idonei a sostenere che, nonostante la detenzione, vi fosse una continua adesione di P. al sodalizio operante all’esterno.

Il ricorso non è fondato.

La Corte territoriale, prima di affrontare il problema della prova dei due tentativi di estorsione, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, ha esaminato la questione della sua partecipazione al sodalizio criminoso, ritenendola sulla base del contributo del collaboratore di giustizia S., che aveva riferito che il P., il quale già conosceva A., ed era da quello conosciuto, aveva chiesto espressamente di entrare nel gruppo organizzato facente capo proprio a lui, che ne costituiva il vertice indiscusso.

Dalla motivazione della sentenza appare evidente che la volontà del P., poi realizzatasi, era quella di divenire parte, ad un livello di collaborazione subordinata, della struttura criminale.

Nulla toglie alla partecipazione del P. al sodalizio il fatto che A., nell’accogliere la sua richiesta, avesse pensato di utilizzarlo in quella particolare attività estorsiva riferibile ai cestini di Natale.

Quella della vendita dei cestini di Natale (il cui acquisto per cifre di molto superiori al loro scarso valore veniva imposto ai negozianti, ai quali gli incaricati facevano sapere che altrimenti il capo clan si sarebbe arrabbiato) era uno dei tanti settori in cui si manifestava l’attività criminale del clan, nella sua articolazione che faceva capo ad A.; risulta chiaramente quindi che la partecipazione a tali attività da parte di P. altro non era (anche perchè svolta minacciando ritorsioni da parte del potente vertice associativo e con finalizzazione al soccorso dei detenuti, tipica attività di supporto interno di un clan criminale organizzato) che la concreta realizzazione della sua collaborazione alla consorteria, alla quale era stato ammesso su sua specifica richiesta.

La motivazione della sentenza impugnata, che è basata sulla chiara e completa esposizione di tali elementi di prova, derivanti sia dalle propalazioni del S., che dai successivi accertamenti sul concreto svolgersi dell’attività criminale del P., appare adeguata, priva di vizi logici e si sottrae alle critiche del ricorrente.

Non paiono fondate neppure le critiche del ricorrente sul trattamento sanzionatorio.

Con l’entrata in vigore in data 8 dicembre 2005 della L. n. 251 del 2005, la partecipazione ad associazione armata di tipo mafioso, di cui all’art. 416 bis c.p., commi 1 e 4, veniva sanzionata con la pena della reclusione da sette a quindici anni al posto di quella da quattro a dieci anni prevista dalla medesima norma nel testo previgente.

I giudici del merito hanno espressamente applicato al P. la pena prevista dalla norma nel nuovo testo (seppur fissando la pena base, anni otto di reclusione, in misura compresa nelle previsioni della norma anche nella sua precedente formulazione) osservando correttamente come l’organizzazione criminale insediata a Marigliano e capeggiata da A. fosse rimasta integra e pienamente operativa anche oltre il dicembre 2005, così che la permanenza del delitto associativo si era protratta essendo già vigente la normativa più sfavorevole e si rendeva applicabile il trattamento sanzionatorio sopravvenuto. E tali conclusioni dei giudici del merito paiono al Collegio giustificate dall’accertata insensibilità della struttura associativa alle carcerazioni dei suoi vari aderenti, risultante dai riferimenti delle sentenze di merito alle significative emergenze dei colloqui intercettati in carcere anche nel periodo successivo agli arresti, vissuti come episodi normali di partecipazione all’associazione, in vista dei quali si sviluppava una parte dell’attività dei consociati, proprio quella a cui era stato adibito il P..

Nè appare dal ricorso che quella carcerazione, da alcuni mesi per esecuzione di pena, avesse connotazioni tali da impedire al prevenuto i normali contatti e da doversi considerare alla stregua di una non altrimenti dimostrata dissociazione della consorteria, che dovesse escludere la disponibilità del prevenuto a riassumere un ruolo attivo alla cessazione dell’impedimento, dell’incidente detentivo.

R.S. è stato ritenuto dal Tribunale colpevole del reato a lui ascritto al capo A), associazione armata di tipo camorristico, per avere, in qualità di partecipe, prestato assistenza e ausilio ai vertici dell’organizzazione e svolto per loro conto funzioni operative soprattutto nel settore delle attività estorsive.

La Corte d’appello ha ridotto la pena confermando nel resto.

Ricorre il prevenuto per cassazione deducendo violazione di legge e difetto di motivazione.

Lamenta che il Giudice di appello avrebbe desunto la sua appartenenza al gruppo criminale facente capo ad A. ritenendo rilevanti elementi indiziari privi dei connotati tipici della gravità, precisione e concordanza, in quanto lacunosi e non verificati, ed avrebbe omesso di considerarne altri di segno opposto. Enumera poi le circostanze che avrebbero reso meno significativi gli elementi di prova evidenziati dalla Corte di merito.

Il ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato.

La Corte, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, ha fatto adeguato riferimento a situazioni accertate con sentenze passate in giudicato, circa la sua partecipazione, come intraneo al clan di riferimento, al pestaggio di certo p. ed all’estorsione avvenuta in danno dell’impresa edile di certo GA.Gu., evidenziando come i fatti accertati dalle sentenze in questione fossero chiare manifestazioni della sua partecipazione alla consorteria criminale e fossero stati realizzati proprio avvalendosi della forza intimidatrice derivante da tale appartenenza.

Il giudice d’appello ha poi indicato gli elementi che comprovavano la frequentazione del R. con gli altri esponenti del clan, quali un controllo di polizia che l’aveva trovato assieme al PE., la disponibilità da parte del capo, A.F., di una carta di identità falsa realizzata su modulo rubato, ma portante i dati del R..

Manifestamente infondata è poi la doglianza relativa all’esser il R. claudicante, posto che in relazione ai fatti di rilievo per il presente procedimento un tale accertamento è superato dal giudicato sull’aggressione al p., nè ha rilevanza in relazione ad altre situazioni.

In definitiva, la Corte d’appello ha giustificato in modo completo ed esente da vizi logici la ritenuta partecipazione del ricorrente all’associazione camorristica e l’impugnazione si risolve nella prospettazione di una diversa lettura di risultanze processuali, per buona parte già consacrate in provvedimenti di condanna definitiva, e si manifesta così in tutta la sua inammissibilità.

C.C. è stato ritenuto dal Tribunale colpevole dei reati associativi a lui ascritti in epigrafe ai capi A), associazione armata di tipo camorristico, e QQ), associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, per avere collaborato, in qualità di partecipe, direttamente e personalmente con i vertici dell’organizzazione, in particolare prestando loro assistenza e ausilio, svolgendo per loro conto funzioni operative nel settore delle armi, delle attività estorsive e del commercio di sostanze stupefacente e mantenendo i contatti con gruppi criminali alleati; dei delitti di estorsione aggravata, rubricato sub E), e di cessione di stupefacenti, rubricato sub RR).

La Corte d’appello ha confermato in toto la sentenza del Tribunale.

Ricorre per cassazione il prevenuto e deduce inosservanza ed erronea applicazione della Legge sostanziale e processuale, nonchè mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, avendo la Corte d’Appello negato l’assoluzione senza corretta motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti.

I giudici di secondo grado avrebbero ignorato fatti e circostanze segnalate con i motivi di appello, che avrebbero contenuto un ampio esame critico sulla motivazione della sentenza del Tribunale di Nola in relazione alle dichiarazioni dei "pentiti" ed alle intercettazioni e captazioni, osservazioni a cui la Corte territoriale non avrebbe dato risposta.

Osserva il Collegio che il ricorso è inammissibile in quanto del tutto generico, le censure essendo formulate in modo stereotipato, senza alcuna considerazione degli elementi evidenziati e degli argomenti spesi nella sentenza impugnata. Sicchè l’assenza di un collegamento concreto con la motivazione di questa impedisce di ritenere rispettati i requisiti di forma e di contenuto minimo voluti per l’impugnazione di legittimità, che deve rivolgersi al provvedimento e non può semplicemente invocare una mera rilettura dei fatti.

Invero il ricorso si limita a lamentare pretesi vizi della motivazione, sostenendo non essere state considerate le sue prospettazioni in sede di appello, ma poi resta vago nell’indicare con precisione le proprie doglianze, facendo generico riferimento alle dichiarazioni dei pentiti ed alle intercettazioni.

Emerge peraltro dalla sentenza della Corte territoriale che, ad onta di quanto sostenuto in ricorso, anche l’impugnazione di merito era del tutto generica ed il ricorso per cassazione pare riproduttivo di quel generico gravame.

In ogni caso, la Corte territoriale ha diffusamente argomentato la propria decisione con riferimenti alle connessioni fra il C. e gli esponenti delle consorterie criminali con le quali negli anni costui aveva collaborato, come era risultato dalle propalazioni di più collaboratori ( L. e S.) le cui dichiarazioni al proposito sono state esaminate dalla Corte di merito con puntuale indicazione degli elementi che inequivocabilmente collocavano il prevenuto ( C.C., C.C.) vicino al gruppo criminale degli I. e successivamente all’interno di quello di A., in quanto introdottovi dal D..

Sono poi state riportate ampiamente ed analizzate in modo chiaro le captazioni da cui emergeva la figura del C. come collaboratore nel settore delle estorsioni ed in quello del traffico di stupefacenti.

La specificità dei riferimenti, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, ha portato la Corte territoriale ad individuare e segnalare particolari episodi quali il tentativo di trarre personali lucri dalle attività del clan a cui collaborava, sia nel campo degli stupefacenti che in quello delle estorsioni.

In definitiva la sentenza impugnata, che ampiamente analizza l’attività e la diffusione anche nel territorio di Marigliano della consorteria di riferimento del C., si sottrae alle pur generiche critiche per la completezza delle argomentazioni, esenti da vizi di logica consequenzialità.

D.P., è stato ritenuto dal Tribunale colpevole del reato a lui ascritto al capo A), associazione armata di tipo camorristico per avere collaborato direttamente e personalmente con i vertici dell’associazione, in particolare operando all’interno dell’articolazione territoriale di Pomigliano d’Arco, per un periodo dal medesimo coordinata e diretta, svolgendo funzioni operative nel settore delle estorsioni e del commercio di stupefacenti e di gestione e redistribuzione dei relativi profitti, nonchè di raccordo con l’articolazione territoriale di Marigliano, mantenendo rapporti stabili con A.F. e, successivamente alla cattura di quest’ultimo, con T.G..

La Corte d’appello, ridottagli la pena, ha confermato nel resto la sentenza del Tribunale.

Ricorre per cassazione il prevenuto con due distinti ricorsi, uno personale ed uno presentato dal difensore avv. Campana.

Con il ricorso personale deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione della sentenza della Corte d’appello che non si sarebbe curata di indicare gli elementi dai quali aveva tratto il proprio convincimento per ritenere infondati i proposti motivi di gravame.

La sentenza avrebbe inoltre, a causa di travisamento del fatto, prospettato situazioni obiettive diverse da quelle reali.

Il ricorso dell’avv. Campana si articola su due motivi.

Con il primo deduce contraddittorietà della motivazione rispetto alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia S. ed al contenuto di alcune delle intercettazioni telefoniche in quanto, sia dalle propalazioni del collaboratore, che dalle conversazioni intercettate sarebbe emerso che egli, una volta scarcerato, e dopo la proposta di A. di occuparsi degli affari del clan, si era abbandonato all’uso di stupefacenti disinteressandosi completamente di quegli affari e non avrebbe dato seguito alla proposta di A., tanto che questi ne avrebbe ordinata la gambizzazione.

In definitiva non avrebbe contribuito alla realizzazione del programma criminoso, cui aveva aderito.

Con il secondo motivo deduce contraddittorietà della motivazione, rispetto alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, perchè il riferimento all’obiettiva gravità dei fatti in contestazione si porrebbe in contrasto con il rilievo che la sua condotta si sarebbe estrinsecata in una generica adesione al programma associativo, con partecipazione definita a "frequenza limitata" e senza contestazione di reati-fine, e si porrebbe pure in contrasto con la decisione di applicazione delle attenuanti generiche a coimputati, con conseguente immotivata ed irrazionale disparita di trattamento rispetto a costoro.

I motivi del ricorso personale sono inammissibili in quanto del tutto generici.

Il primo motivo del ricorso del difensore non è fondato.

La Corte di merito, a differenza di quanto sostenuto, non ha omesso di considerare gli elementi evidenziati dal ricorso, avendo chiaramente riferito delle emergenze processuali da cui risultava sia l’accordo con A.F., avvenuto in carcere, per una collaborazione nella gestione degli affari della consorteria criminale al momento della scarcerazione del ricorrente, sia quale fosse stato il suo comportamento successivo, ma ha evidenziato anche che la prova della sua partecipazione al gruppo emergeva da conversazioni intercettate relative al trattamento (stipendio settimanale e vestiario) ricevuto dal D. una volta iniziata in concreto la sua collaborazione, concretezza evidenziata anche dalla delusione delle aspettative di A., che aveva manifestato il proprio scontento per le inefficienze nella gestione dell’incarico di fiducia che gli era stato affidato.

Si tratta ad avviso del Collegio di motivazione del tutto congrua e sufficiente a dimostrare come il giudice d’appello non abbia trascurato alcun elemento a sua disposizione ed abbia in ogni caso ritenuto la partecipazione del prevenuto alla consorteria criminale con argomentazioni logiche e complete, non censurabili in questa sede.

Manifestamente infondato e tendente a sottoporre a questa Corte valutazioni squisitamente di merito, ad essa sottratte, è il secondo motivo, con il quale il ricorrente afferma carente la motivazione con la quale gli sono state negate le attenuanti generiche.

Difatti la Corte di appello ha ritenuto ostative al riconoscimento delle attenuanti generiche sia la gravità del comportamento di adesione e collaborazione coi vertici di un’associazione criminale, pur considerando come nel concreto si fosse realizzata una tale collaborazione del prevenuto, sia la presenza di plurimi precedenti penali che ne connotavano la personalità, e ciò del tutto legittimamente, trattandosi di parametri considerati dall’art. 133 c.p., applicabili anche ai fini dell’art. 62 bis c.p..

Manifestamente infondata e generica è infine la doglianza relativa alla contemporanea concessione delle citate attenuanti ad altri coimputati, sia perchè il ricorso non evidenzia gli elementi che renderebbero palese un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto a posizioni diverse, sia perchè, come ritiene la costante giurisprudenza, essendo la concessione delle circostanze attenuanti generiche rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, con valutazione discrezionale strettamente personale delle condizioni e della posizione del singolo imputato, è ben possibile che il giudice neghi il beneficio ad altro coimputato, senza con ciò determinare disparita di trattamento.

MO.Ca. è stato ritenuto dal Tribunale colpevole dei reati a lui ascritti ai capi OO), di usura aggravata in danno di ME. P., e PP), di tentata estorsione aggravata in concorso per il tentativo di ottenere con minaccia e violenza dal ME. il pagamento degli interessi usurari.

La Corte d’appello ha ridotto la pena, confermando nel resto la sentenza del Tribunale.

Propone ricorso per cassazione il MO., deducendo violazione di legge e difetto di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio ed in particolare alla mancata concessione delle attenuanti generiche, all’entità della pena anche in relazione alla continuazione dei reati, all’entità dell’aumento di pena per l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 che lamenta sia stata erroneamente ritenuta sussistente.

La Corte di merito, accolto l’appello sulla riduzione della pena, avrebbe poi operato una riduzione modesta e non motivata in relazione ai rilievi formulati nei motivi di gravame. Avrebbe errato nel negare le attenuanti generiche, con riferimento alla gravità delle contestazioni, in quanto non vi sarebbero reati aprioristicamente incompatibili con l’applicazione delle attenuanti generiche, e non avrebbe tenuto conto delle deduzioni difensive; avrebbe ritenuto il ricorrere dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 non considerando che MO. era un imprenditore che agiva per un proprio interesse e non per agevolare un clan camorristico.

Il ricorso deve essere rigettato.

Quanto al ricorrere dell’aggravante speciale, le doglianze del ricorrente non considerano come dalle sentenze dei giudici del merito emerga in modo inequivoco che la tentata estorsione in danno del ME. era stata realizzata in concorso con esponenti riconosciuti del clan MAZZARELLA, da soggetti che, in occasione dell’aggressione, avevano manifestato alla p.o. l’avvenuto trasferimento del suo debito al clan, che quindi agiva direttamente per la riscossione avvalendosi dei suoi tipici metodi violenti.

Ed un tal rilievo esplicito delle sentenze di merito da pienamente ragione dell’oggettivo inserirsi di quell’azione nell’attività tipica della consorteria e della consapevolezza di ciò in capo al MO. che proprio su quella capacità di persuasione aveva contato per ottenere il profitto dell’usura.

I restanti motivi di ricorso sono inammissibili perchè manifestamente infondati e tendenti a sottoporre a questa Corte valutazioni squisitamente di merito, ad essa sottratte.

Del tutto legittimamente difatti la Corte d’appello ha ritenuto ostativa al riconoscimento delle attenuanti generiche la gravità del fatto – delle cui caratteristiche la motivazione da conto in modo adeguato nella descrizione degli avvenimenti relativi sia alle vicende del prestito a condizioni usurarie sia alla tentata estorsione – trattandosi di parametro considerato dall’art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell’art. 62 bis c.p., in quanto riferito, come appare evidente, alle concrete proporzioni del fatto e non, come lamenta il ricorrente, al tipo astratto di contestazione.

Anche nell’individuazione concreta del trattamento sanzionatorio, in termini di pena base e di aumenti per l’aggravante e per la continuazione, la sentenza della Corte territoriale si sottrae alle censure del ricorrente in quanto, sia pure nella stringatezza della motivazione, mostra di aver operato un’adeguata valutazione della gravità del fatto che, se non consentiva l’applicazione di attenuanti generiche, veniva ritenuto di proporzioni tali da meritare una sanzione più lieve di quella irrogata dal Tribunale, ma con una diminuzione contenuta nella misura in effetti applicata, che – giova rammentarlo – si situa in ogni caso ai limiti inferiori del campo di applicabilità della sanzione.

Z.A. è stata ritenuta dal Tribunale colpevole del reato associativo D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74 lei ascritto al capo QQ) per avere operato nell’interesse dell’associazione e alle dirette dipendenze dei vertici dell’articolazione territoriale di Marigliano, per conto dei quali curava la lavorazione, il confezionamento e la distribuzione dello stupefacente alla rete di spacciatori e tossicodipendenti.

La Corte d’appello ha ridotto la pena, valutate prevalenti le già concesse le attenuanti generiche.

Ricorre per cassazione la Z. per mezzo del difensore sulla base di due motivi. Con il primo deduce violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla sua partecipazione all’associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti e soprattutto al suo inserimento con carattere di permanenza nell’organizzazione, non avendo la sentenza motivato in modo esauriente in merito al suo coinvolgimento nell’articolata organizzazione.

Le dichiarazioni del collaboratore S. non individuerebbero correttamente la prevenuta e le intercettazioni di riscontro la indicherebbero solo come la convivente della sorella di A. F., così che le conversazioni non confermerebbero le dichiarazioni accusatorie del S. in quanto darebbero conto che le veniva corrisposta la settimana, quale convivente di A. A. (non sarebbe quindi stata la moglie di PI.Cr., come affermato dal collaboratore).

Indebitamente poi si sarebbe individuata una conferma dell’intraneità all’associazione dall’unico episodio in relazione al quale aveva riportato condanna nel dicembre 2005 per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

In definitiva mancherebbe totalmente il riscontro alla dichiarazione del collaboratore non avendo la Corte d’Appello nemmeno specificato le ragioni per cui le censure della difesa non potevano condividersi.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione in quanto il Giudice d’Appello ometterebbe di motivare in relazione alla sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 consistente nella finalità di agevolare il clan Mazzarella ed in particolare il dolo specifico di agevolare l’associazione mafiosa sulla cui sussistenza in capo alla Z. le sentenze dei giudici del merito non motiverebbero.

Il ricorso non è fondato.

La Corte territoriale ha rilevato come il collaboratore S., al di là di indicazioni anche poco precise, avesse specificamente individuato in fotografia la Z. quale collaboratrice di ES.An., moglie di A., posta ai vertici del gruppo associato, nel curare la lavorazione ed il confezionamento dello stupefacente, ed ha osservato come le dichiarazioni del collaboratore avessero trovato specifica conferma nell’esito delle più intercettazioni ambientali dalle quali risultava che la Z. percepiva un contributo settimanale di denaro e di abbigliamento, come tutti gli affiliati, a compenso della sua collaborazione.

In più, la Corte di merito, quale conferma della partecipazione della prevenuta all’attività associativa nel settore degli stupefacenti, ha evidenziato come la stessa fosse stata colta in flagrante detenzione di stupefacente proprio mentre, nell’abitazione di quello, stava cooperando con esponenti del gruppo di E. U., altro soggetto ai vertici dell’organizzazione dello spaccio nella zona.

E la motivazione della Corte di merito basata su dichiarazioni di un collaboratore della cui attendibilità vengono fornite in tutto il contesto della sentenza ampie dimostrazioni – e che si dimostrano confermate anche in relazione alla specifica posizione della prevenuta – appare del tutto congrua ed adeguata a giustificare l’inclusione a pieno titolo della Z. nell’organizzazione, che le garantiva, come agli altri associati, i fondi e le ulteriori provvidenze per la vita di ogni giorno, di cui beneficiava per la sua collaborazione con elementi di vertice della consorteria; mentre la causale di un tal trattamento, indicata dal ricorso (la settimana sarebbe stata pagata solo perchè convivente della sorella di A.), appare ipotesi implicitamente smentita dalla sentenza nel dar conto della riottosità proprio di A., il fratello della sua convivente, a continuare a pagarle la settimana, pagamento che si comprende agevolmente non sarebbe mai avvenuto per causali che non fossero identiche a quelle che ne giustificavano il pagamento anche agli altri affiliati.

Sul ricorrere dell’aggravante speciale, la adeguata dimostrazione fornita dalla Corte territoriale dello stretto rapporto della Z. con i vertici dell’associazione, nell’articolazione dedita al traffico di stupefacenti, rende piena ragione della sua ritenuta consapevolezza di contribuire a realizzare gli scopi del clan di riferimento.

E.U. è stato ritenuto dal Tribunale colpevole dei reati associativi lui ascritti ai capi A), associazione armata di tipo camorristico e QQ), associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, per avere collaborato direttamente e personalmente con i vertici dell’associazione e, in particolare, con PO.Um., coordinando e dirigendo l’articolazione territoriale di Pomigliano d’Arco, con funzioni operative nel settore del commercio di stupefacenti, coordinando le attività della rete di spacciatori, gestendo e redistribuendo i relativi i profitti.

La Corte d’appello ha confermato in toto la sentenza del Tribunale.

Ricorre per cassazione il prevenuto sulla base di sette motivi.

Con il primo deduce violazione di legge per l’omessa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, non avendo il giudice di appello adeguatamente giustificato l’applicazione dell’art. 416 bis c.p., per essersi limitato ad un accenno ai dati acquisiti in primo grado, senza spiegare le ragioni per cui tali dati dimostrassero una sua partecipazione all’associazione mafiosa, ed aver poi valutato esaustive le dichiarazioni del collaboratore di giustizia S..

Secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare, e di darne conto nel corpo motivazionale, diversi elementi fra cui, in particolare, l’attendibilità delle dichiarazioni del S., o la sussistenza di riscontri estrinseci a tali dichiarazioni, oppure, ancora, gli elementi di segno contrario addotti dalla difesa.

La Corte territoriale avrebbe disatteso il compito di individuare i caratteri della partecipazione all’associazione camorristica, inequivocabilmente sintomatici del vincolo del soggetto con il gruppo strutturato.

Con il secondo motivo deduce illogicità e contraddittorietà della motivazione ed omessa motivazione, avendo la Corte d’appello ritenuto provata la sua partecipazione all’associazione sulla base delle sole dichiarazioni del S., considerate indirettamente riscontrate da una presunta attività di spaccio, in sostanza considerandolo partecipe dell’associazione camorristica per il solo fatto di aver commesso l’attività di spaccio tipica della diversa e collaterale associazione finalizzata al traffico di stupefacenti; non avrebbe poi chiarito in che modo lui, risultato sconosciuto al capo del clan della zona, A.F., potesse far parte di quella consorteria, peraltro solo collegata al clan MAZZARELLA in quanto dotata di autonomia, che si sarebbe lasciata imporre una sorta di collaborazione esterna in tema di stupefacenti, ed in una specifica zona, su indicazione del M., o del suo luogotenente PO..

Insufficiente il riferimento alle dichiarazioni di S. E., che però avrebbe riferito fatti riferitigli dallo stesso E.U., in carcere.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge, in particolare degli artt. 195 e 192 c.p.p., ed omessa motivazione per la mancata assunzione di una prova decisiva in relazione all’escussione di un teste de relato.

Illegittimamente i giudici del merito non avrebbero disposto l’audizione dell’ E.U., quale teste di riferimento sulle circostanze riferite nelle proprie dichiarazioni dal S., che le aveva apprese da lui in un colloquio avuto durante il periodo di co-detenzione.

L’omessa assunzione del necessario riscontro alle dichiarazioni del propalante, mediante l’escussione dell’imputato sulla specifica circostanza oggetto di testimonianza indiretta, sarebbe censurabile, nè vi sarebbe divieto normativo alla possibilità che l’imputato venga chiamato a deporre quale teste di riferimento. Avrebbe errato la Corte di merito nel ritenere inapplicabile l’art. 195 c.p.p., facendo leva sulla circostanza che il teste di riferimento era anche imputato.

Rileva quindi il ricorrente l’assoluta inutilizzabilità delle dichiarazioni del S., quale teste de relato rispetto a circostanze apprese dall’imputato, ed in generale l’inattendibilità complessiva delle dichiarazioni di quella fonte, che sarebbe priva di riscontri esterni. Sostiene infine che la mancata escussione dell’imputato E.U. quale teste di riferimento configurerebbe omessa assunzione di una prova decisiva.

Con il quarto motivo deduce omessa motivazione e violazione di legge ed in particolare degli artt. 195 e 192 c.p.p. per la mancata assunzione di una prova decisiva non essendo stato escusso il teste de relato I.V..

La mancata escussione dello I., quale teste di riferimento in relazione alle propalazioni del S., avrebbe impedito il corretto vaglio di attendibilità del testimone indiretto e, pertanto, renderebbe inutilizzabili gli esiti del suo esame ai sensi del combinato disposto degli artt. 191 e 195 c.p.p..

Erroneamente il Tribunale aveva disatteso la richiesta difensiva di escutere I. in quanto, essendo imputato nel medesimo procedimento, non sarebbe stato possibile individuarlo come teste di riferimento.

I., al momento della richiesta difensiva, aveva definito la sua posizione con le forme dei rito abbreviato ed avrebbe potuto essere citato quale teste di riferimento, quantomeno ai sensi dell’art. 210 c.p.p..

Ne conseguirebbe l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di S. e la loro attendibilità sarebbe, in ogni caso, fortemente ridotta anzi, nulla, a fronte dell’accertata incompletezza dell’impianto probatorio, in assenza di estrinseco riscontro delle stesse affermazioni. In ogni caso si tratterebbe di mancata assunzione di prova decisiva.

Con il quinto motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 81 c.p. in relazione all’art. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, nonchè omissione, illogicità e contraddittorietà della motivazione.

Sostiene il ricorrente che avrebbero errato i giudici del merito nel negare l’unicità dei disegno criminoso tra le fattispecie delittuose di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, e art. 416 bis c.p. e ad applicare il concorso formale di reati invece del regime della continuazione, peraltro omettendo adeguata motivazione al proposito.

Con il sesto motivo deduce violazione di legge penale ed in particolare dell’art. 416 bis c.p. nonchè omissione, illogicità e contraddittorietà della motivazione.

I giudici del merito avrebbero erroneamente interpretato i criteri per l’individuazione di una sua partecipazione associativi in quanto, alla luce delle risultanze processuali, la sua figura non sarebbe assimilabile nè a quella del capo o promotore dell’organizzazione, nè a quella del mero partecipe. Avrebbero trascurato i giudici del merito che il ruolo di gestore della piazza di spaccio di Pomigliano d’Arco, attribuitogli da S., non sarebbe dipeso da un affidamento dei clan MAZZARELLA o AUTORE, posto che i contatti con M. sarebbero riferibili alla madre, mentre mancherebbero prove di un suo inserimento con un qualche ruolo nell’organizzazione.

Secondo il ricorrente, le risultanze processuali escluderebbero una sua integrazione nell’organismo criminoso.

La sentenza non chiarirebbe, se non facendo ricorso a dati presuntivi in che modo ed in che termini E.U. avesse aderito al programma generico della consorteria, nè in che modo avesse obiettivizzato la propria partecipazione attraverso una condotta orientata.

Con il settimo motivo deduce violazione di legge penale ed in particolare del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, nonchè omissione, illogicità e contraddittorietà della motivazione.

Erroneamente i giudici del merito avrebbero ritenuto che i delitti associativi potessero concorrere, nel caso, non avendo individuato nè le modalità e le condizioni per l’adesione all’associazione camorristica, nè quelle richieste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

L’associazione finalizzata al narcotraffico sarebbe caratterizzata da elementi comuni rispetto a quella più generica di cui all’art. 416 bis c.p., qualificandosi come assorbente rispetto ad essa per l’aggiungersi del diverso e specializzante scopo della commissione di un numero indeterminato di reati afferenti il traffico di stupefacenti; i giudici del merito avrebbero invece erroneamente riconosciuto la totale indipendenza ed autonomia dell’ipotesi di cui al T.U.L.St. n. 309 del 1990, art. 74 rispetto a quella di cui all’art. 416 bis c.p..

Peraltro la Corte d’appello avrebbe ricondotto, erroneamente e sulla base di insufficiente motivazione, la mera attività di spaccio effettivamente realizzata dall’ E.U. ad un più ampio paradigma associativo, con altrettanto erronea attribuzione a lui di una posizione apicale.

Nulla di più sarebbe emerso, di una attività ripetuta di cessione di stupefacenti da parte sua, con l’ausilio della compagna E. C., che in assenza di elementi organizzativi complessi, avrebbe potuto solo configurare un’ipotesi di reato più correttamente riconducibile al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Il ricorso deve essere rigettato.

Trattando in primo luogo le questioni processuali proposte con il terzo e quarto motivo di ricorso, osserva il Collegio che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez, 1^, sent. n. 16891 del 10/2/2010 Rv. 247555 rie: P.M. in proc. Tolentino) non rientra nella disciplina dell’art. 195 c.p.p. la dichiarazione "de relato" dei collaboranti che hanno riferito fatti appresi dagli stessi imputati, in quanto la fonte primaria in tal caso non può essere chiamata a rendere dichiarazioni che possano pregiudicare la sua posizione, fermi restando i criteri di particolare rigore nella valutazione di tali elementi probatori (anche, Rv. 227021; Rv. 229863; Rv. 232043;

Rv. 245658).

La doglianza proposta dal ricorrente è quindi priva di fondamento.

Quanto poi alla pretesa escussione dello I. il ricorso non chiarisce in che termini se ne dovessero assumere le dichiarazioni ed omette di ricordare che anche in quel caso si trattava di coimputato, seppur sottoposto a procedimento separato, nei cui confronti valevano le stesse considerazioni di cui sopra.

I motivi di doglianza che, articolati nei vari motivi di ricorso, deducono difetto di motivazione sulla sua ritenuta appartenenza alle diverse associazioni criminali sono, ad avviso del Collegio, manifestamente infondati e tendenti a sottoporre al giudice di legittimità ricostruzioni alternative delle vicende processuali non ammissibili in questa sede, a fronte delle sentenze dei giudici del merito che ne hanno ritenuto l’intraneità alle consorterie malavitose, diffusamente inquadrando il suo ruolo, quale figura apicale dell’organizzazione dedita allo spaccio di stupefacenti in Pomigliano d’Arco ed in ogni caso collegata ai vertici dell’associazione più generalmente operante in Marigliano, di cui era tributaria, mettendo anche in evidenza le fonti da cui trarre la prova che il prevenuto, oltre alla preminente attività avente per oggetto gli stupefacenti, fosse anche impegnato nell’organizzare estorsioni, in particolare a cantieri edili, settore criminale tipico del clan AUTORE. Hanno evidenziato la particolarità dell’organismo di Pomigliano (operante nell’area di influenza esclusiva del quartiere "Legge 219", sotto la tutela di clan di più alto livello, e con un sistema di apprestamenti di video-sicurezza e vedette contro gli interventi della polizia) ed i suoi collegamenti con il clan AUTORE, dominante in zona, e quindi destinatario di una quota dei proventi dello spaccio a Pomigliano, ma anche la speciale condizione di quella struttura, che era direttamente collegata a quelli di Napoli (come è evidenziato nel riportare una captazione fra A. e la moglie) attraverso PO., uno dei più vicini collaboratori di M., da costui autorizzata ad operare su richiesta proprio di PA.Ca., alias " Me.", madre del prevenuto, nel cui appartamento del quartiere 219 era impiantata la base dell’attività, che pacificamente faceva capo al ricorrente.

I giudici del merito hanno fatto adeguato riferimento alle propalazioni del S. – anche su fatti appresi direttamente da E.U., quanto alla sua posizione di preminenza a Pomigliano – del tutto in sintonia con le emergenze delle intercettazioni ambientali e telefoniche, che ne collocavano la figura sia nel più ampio contesto malavitoso della zona (con riguardo anche a progettate estorsioni di cui aveva conversato per telefono), sia nel più specifico campo di interesse nello spaccio di stupefacenti in quella zona, nella quale, come risultava da altre fonti aveva, proprio per gli appoggi di livello superiore di cui godeva, soppiantato chi se ne occupava in precedenza.

E’ stato, inoltre, adeguatamente sottolineato dai giudici del merito come, anche dopo il suo arresto, E.U. avesse dimostrato di tenere sotto controllo tutti i particolari organizzativi dell’attività, compresi quelli di sicurezza, dando disposizioni dal carcere alla convivente E.C. su come proseguire nel lavoro, su come ovviare alla scoperta delle telecamere da parte della polizia, nonchè su come usufruire delle tipiche provvidenze riservate dalle organizzazioni camorristiche agli aderenti, quale il pagamento della settimana.

Infondate poi le doglianze sul concorso fra i delitti associativi.

Secondo l’ormai costante giurisprudenza in proposito (cfr. Sez. U, sent. n. 1149 del 25/9/2008, Rv. 241883, ric: Magistris) i reati di associazione per delinquere, generica o di stampo mafioso, possono concorrere con il delitto di associazione per delinquere dedita al traffico di sostanze stupefacenti, anche quando la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di reati concernenti il traffico degli stupefacenti e di reati diversi.

Seppure il delitto D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, presenti elementi specializzanti rispetto a quello di cui all’art. 416 c.p., l’accertamento in concreto che un’associazione ha lo scopo di commettere traffico di stupefacenti ed anche altri reati, rende possibile che gli agenti vengano puniti per entrambi i reati, ciò perchè i due reati tutelano beni giuridici in parte diversi: il primo l’ordine pubblico, l’altro, oltre alla tutela dell’ordine pubblico, la difesa della salute individuale e collettiva contro l’aggressione della droga e della sua diffusione.

Come si è osservato sopra, i giudici del merito hanno correttamente posto in evidenza l’attualità ed operatività dell’associazione camorristica "clan Mazzarella", volta alla commissione di reati di estorsione, furto, rapina, truffa, danneggiamento, minacce sistematicamente esercitate ai danni di imprenditori pubblici e privati, commercianti, liberi professionisti e comuni cittadini, violazioni in materia di armi, sovraordinata ad articolazioni associative con più limitato ambito territoriale, quale il clan AUTORE, aventi i medesimi scopi criminali al cui interno stessa operava un gruppo più ristretto dotato di una certa autonomia e dedito al traffico di sostanze stupefacenti, facente capo nel caso proprio ad E.U., per l’attività specifica su Pomigliano d’Arco, con le singolari caratteristi che si sono evidenziate.

Indubbia è, di conseguenza, la possibilità di configurare il concorso tra i due reati associativi, che i giudici del merito hanno correttamente qualificato come concorso formale, apparendo comunque manifestamente infondata la doglianza del ricorrente che lamenta la mancata applicazione del regime, dalle medesime conseguenze sanzionatorie, della continuazione.

E.C. è stata ritenuta dal Tribunale colpevole del delitto associativo D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, ascritto in epigrafe al capo QQ) per avere cooperato con E.U. nel coordinamento della rete di spacciatori legati all’articolazione territoriale di Pomigliano d’Arco e nell’amministrazione dei relativi profitti.

La Corte d’appello ha ritenuto le attenuanti generiche valutandole equivalenti ed ha rideterminato la pena.

Ricorre per cassazione la prevenuta sulla base di due motivi.

Con il primo deduce violazione di legge e difetto di motivazione sull’affermazione di responsabilità per il delitto associativo.

La sentenza impugnata non avrebbe rispettato l’obbligo motivazionale avendo meramente ripetuto le risultanze investigative, già indicate nella sentenza di primo grado con riferimento ad un episodio di arresto in flagranza, al proprio interessamento in merito all’avvenuto arresto di altra persona ed infine ad una intercettazione ambientale tra lei ed il compagno, senza una valutazione del rilievo dei medesimi in senso accusatorio, elementi di cui il ricorso denuncia la pochezza per rappresentare la prova della partecipazione, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, all’associazione in questione.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge e mancanza di motivazione per l’applicazione della circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

La Corte d’appello avrebbe disatteso l’obbligo motivazionale in relazione all’elemento psicologico necessario per configurare la circostanza in esame, il dolo specifico di agevolare l’associazione mafiosa. Enunciati i principi seguiti dalla giurisprudenza, evidenzia che mancherebbero elementi indicativi di una volontà diretta a quel particolare fine. Erroneamente la Corte di Appello avrebbe collegato in maniera automatica l’aggravante al semplice dato secondo cui il traffico di droga in ogni caso avvantaggiava il clan camorristico.

Nè la Corte territoriale avrebbe motivato, soprattutto sotto il profilo soggettivo, in relazione al ricorrere delle aggravanti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commi 3) e 4).

Il ricorso deve essere rigettato.

Osserva il Collegio che le sentenze dei giudici di merito, contrariamente a quanto lamentato dalla ricorrente, hanno diffusamente ed adeguatamente inquadrato la sua posizione come di stretta collaborazione e di interscambiabilità di ruoli con il convivente E.U. nella gestione, in zona "quartiere L. 219" di Pomigliano d’Arco della già esaminata organizzazione, articolazione semi indipendente del clan dedito allo spaccio di stupefacenti, che aveva un’altra articolazione operante a Marigliano, con a capo A.F., dedita anche ad attività criminali di diverso tipo, in collegamento con il più importante clan MAZZARELLA, che ne seguiva le sorti anche intervenendo direttamente o a mezzo di delegati ( MA.Ro. a Marigliano e "zio E.U." PO. a Pomigliano).

In particolare, relativamente alla posizione della ricorrente, le sentenze dei giudici del merito hanno evidenziato il contenuto di conversazioni intercettate da cui risultava come la prevenuta manifestasse di avere chiara nozione di tutti i particolari organizzativi dell’attività di spaccio e dei contatti per i garantirsi la continuità del lavoro e dei proventi, anche quando si trovava agli arresti domiciliari, ed hanno evidenziato il suo pieno coinvolgimento nella diretta gestione dell’attività delle persone che con lei convivevano, in un contesto di spaccio continuativo ed organizzato con l’ausilio di telecamere di controllo, dell’individuazione delle modalità di azione di chi avesse l’incarico di vedetta, modalità alle quali E.M. non si sarebbe attenuto nell’occasione che aveva portato all’intervento della polizia, con in più tutte le connotazioni tipiche dell’organizzazione camorristica, quali l’utilizzo del sistema del pagamento della settimana al detenuto e del contributo per i costi della difesa (e l’intervento in proposito della prevenuta a favore di E.M. viene correttamente valutato dai giudici del merito in un contesto che comprende anche l’analogo intervento in favore di D.G.).

Infondate anche le doglianze di cui al secondo motivo.

Come osservato più sopra, i giudici del merito hanno correttamente evidenziato gli elementi da cui risultava la consapevolezza della ricorrente dell’inserimento dell’attività del gruppo gestito dal convivente nel contesto d’azione di una consorteria camorristica più ampia, con il preciso riferimento alle provvidenze tipiche di tali organizzazioni, la settimana per i carcerati, ed all’interscambiabilità di ruoli con il convivente ed alla conseguente sua consapevolezza, da un lato, dello stretto collegamento con il referente di M. in zona, lo "zio E.U.", sia delle condizioni di operatività del loro specifico gruppo, che faceva parte, legato in posizione tributaria, di quello diretto da A., con un numero di partecipi superiore a dieci ed indiscussa disponibilità di armi.

E.M. è stato ritenuto dal Tribunale colpevole del delitto associativo D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, lui ascritto in epigrafe al capo QQ) per avere operato nell’interesse dell’associazione e alle dirette dipendenze dei vertici dell’articolazione territoriale di Pomigliano d’Arco, per conto dei quali curava la distribuzione dello stupefacente alla rete di spacciatori e tossicodipendenti, nonchè del delitto di detenzione di cocaina a fine di spaccio rubricato sub AAA).

La Corte d’appello ha confermato in toto la sentenza del Tribunale.

Ricorre per cassazione il prevenuto sulla base di tre motivi.

Con il primo deduce violazione di legge ed omissione di motivazione riguardo alla mancata valutazione della prova documentale prodotta dalla difesa, consistente nell’ordinanza del Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Nola che, per carenza di indizi di colpevolezza, non ne aveva convalidato l’arresto in occasione dell’intervento della polizia giudiziaria riferibile al fatto sub AAA).

Ritiene si trattasse di prova determinante, in quanto tutte le accuse a lui mosse, anche quella associativa, sarebbero collegate a tale episodio. Le sentenze dei giudici del merito avrebbero omesso di prendere in considerazione le emergenze di quell’ordinanza, non dando neppure atto dell’avvenuta produzione. Ciò si risolverebbe in violazione dei criteri di valutazione della prova ed in omissione grafica di motivazione.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge ed omissione di motivazione in relazione alla responsabilità per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74; illegittimamente i giudici del merito l’avrebbero ritenuto responsabile del delitto associativo per essersi prestato in un’unica occasione a far da vedetta per la cognata E.C., in mancanza di ogni altro elemento che provasse un più generale accordo e la sua disponibilità verso l’organismo associativo, al di là della partecipazione ad un singolo fatto riconducibile più fondatamente ad un’ipotesi di concorso nel reato di detenzione a fini di spaccio.

Irrilevante sarebbe poi il fatto, evidenziato dai giudici del merito, dell’immediato interessamento della cognata, a seguito del suo arresto, alla nomina ed al pagamento del difensore, non sintomatico di appartenenza all’associazione.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge ed omissione di motivazione, in relazione alla L. n. 203 del 1991, art. 7; la partecipazione ad un solo episodio di spaccio di stupefacenti non dimostrerebbe nè la finalità di agevolare l’attività dell’associazione camorristica clan MAZZARELLA, in ipotesi sovraordinata, nè la prova della consapevolezza di una tale agevolazione, ove oggettivamente esistente.

In ogni caso nel territorio non era operativo il predetto clan ed i rapporti del prevenuto si limitavano alla stretta cerchia famigliare.

Peraltro sarebbe dimostrato dalle captazioni ambientali che neppure i suoi congiunti, dopo un primo interessamento, avevano continuato ad assisterlo. Le sentenze, sarebbero prive di motivazione specifica sul punto, a parte generiche considerazioni sul ricorrere dell’aggravante per tutti gli accusati.

Il ricorso deve essere rigettato.

Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso, in quanto è principio affermato da giurisprudenza costante quello dell’assoluta autonomia fra procedimento cautelare e giudizio di merito, così che le valutazioni sul compendio indiziario di quella fase non possono avere alcun rilievo sul giudizio del merito, qualsiasi decisione adottata in sede cautelare non potendone travalicare i limiti fino a giungere a precludere al giudice del dibattimento il potere-dovere di un’autonoma e indipendente valutazione della prova.

Nè i giudici del merito avevano obbligo di motivare espressamente sull’incidenza di quel giudizio cautelare, peraltro già superato, anche sotto il profilo indiziario, dal rinvio a giudizio del prevenuto.

Infondate sono poi le restanti doglianze del ricorrente, in quanto i giudici del merito hanno adeguatamente inquadrato la sua collaborazione con il fratello e la sua convivente nel contesto organizzativo dell’attività di spaccio gestita nel loro appartamento del quartiere "Legge 219" di Pomigliano d’Arco, in regime di monopolio per la zona a causa dei collegamenti con ulteriori articolazioni camorristiche che lo garantivano, contrassegnata da precisi aspetti organizzativi quali il controllo degli accessi mediante un impianto di telecamere e l’organizzazione di vedette contro le sorprese della polizia, attività a cui egli era addetto, secondo le indicazioni del fratello e, in mancanza, della cognata, indicazioni che, proprio nell’occasione dell’intervento della polizia del 13 dicembre 2005, lui non avrebbe seguito, avendo lasciato con la sua fuga scoperte le donne che all’interno dell’appartamento stavano confezionando dosi da porre in commercio, e, per di più, facendosi cogliere con in tasca le chiavi di casa così da consentire agli operanti di entrarvi senza dare il tempo di far sparire lo stupefacente, a parte l’infruttuoso tentativo della Z. di gettarlo dalla finestra.

Viene in particolare evidenziato il colloquio in carcere fra E.U. e la convivente E.C. dal quale emerge l’intervento a suo favore della donna per le prime spese di difesa dopo l’arresto, provvidenza comune agli appartenenti a tali consorterie, che ne qualifica l’inserimento non occasionale nel sistema organizzato, confermato anche dall’aver egli avuto un preciso compito, quello di vedetta, soggetto alle disposizioni degli altri, che in seguito si erano lamentati della sua negligenza nello svolgimento del compito, tanto da pensare di non assisterlo più sotto il profilo legale. Resta così dimostrato, in modo adeguato e con argomentazioni che non scontano vizi logici, l’inserimento consapevole del ricorrente nel gruppo specifico, organizzato dal fratello in diretta connessione, promossa proprio dalla madre dei due, " Me.", con la consorteria di grado superiore a cui l’attività del gruppo era funzionale per il controllo dell’attività di spaccio in quella zona specifica.

MA.Ig. è stato ritenuto dal Tribunale colpevole del delitto lui ascritto al capo EEE), associazione armata di tipo camorristico, per aver in qualità di partecipe, prestato assistenza e ausilio stabile a I.V. e svolto per conto dell’organizzazione funzioni operative soprattutto nel settore delle attività estorsive e del commercio di stupefacenti, mantenendo altresì i contatti con i gruppi criminali alleati.

La Corte d’appello ha ridotto la pena, confermando nel resto la sentenza del Tribunale. Ricorre per cassazione il prevenuto sulla base di cinque motivi.

Con il primo deduce violazione di legge e nullità delle sentenze e dell’ordinanza ammissiva dei mezzi di prova del 4 ottobre 2007 nella parte in cui autorizzava la trascrizione peritale delle intercettazioni telefoniche ed ambientali concernenti la posizione dell’imputato senza che allo stesso fosse stata data la possibilità di ottenere la copia delle trascrizioni ritualmente richieste al Giudice.

Avrebbe errato la Corte di Appello nel ritenere inapplicabile, in quanto incidente su norma processuale e quindi non applicabile retroattivamente, la modifica derivante all’art. 268 c.p.p. dalla pronuncia, della Corte Costituzionale con sentenza n. 336 del 10/10/2008, di illegittimità della norma nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate.

Avendo l’imputato richiesto di ottenere la copia delle trascrizioni relative alle conversazioni che lo riguardano ed avendo il Giudice rigettato tale richiesta, si sarebbe determinata lesione del diritto di difesa con conseguente nullità di tutti gli atti istruttori e probatori che lo riguardano.

Con il secondo motivo deduce contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla responsabilità per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. con riguardo alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

Inconferenti e illogicamente valutate sarebbero state le dichiarazioni del S., che il ricorso analizza diffusamente, mentre nessun altro collaboratore indicherebbe il prevenuto come partecipe dell’associazione camorristica IANUALE e di tale circostanza di fatto il giudice d’appello non avrebbe tenuto conto.

Con il terzo motivo deduce contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla responsabilità per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. con riguardo alle intercettazioni.

Pochi e privi di valore probatorio sarebbero gli elementi che emergono da tali fonti e di segno sicuramente equivoco.

Non solo il contenuto non avrebbe significato univoco, ma dal corso dell’istruttoria sarebbero emersi elementi di segno contrario all’interpretazione di tali risultati in senso negativo per l’imputato.

Riportando partitamente il contenuto delle captazioni, il ricorrente evidenzia sia l’impossibilità di individuare in lui l’ i. di cui si parla in taluni colloqui, sia di attribuire a lui, sulla base del contenuto di quelle conversazioni, attività illecite ed in ogni caso un’intraneità all’organizzazione.

Con il quarto motivo deduce contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine al ritenuto ricorrere del delitto associativo.

Mancherebbe del tutto il necessario rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, un vero e proprio ruolo che qualifichi il suo essere a disposizione della consorteria per il perseguimento di comuni fini criminosi.

Non vi sarebbe alcuna affiliazione, nè riconoscimento del ruolo da parte degli altri associati. Mai vi sarebbe stata da parte sua consapevolezza e volontà di contribuire all’esistenza e all’attività di un’associazione caratterizzata dal metodo mafioso, nè consapevolezza di essere membro di una collettività criminale.

Con il quinto motivo deduce violazione di legge per la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, nonchè per l’applicazione al caso di specie del trattamento sanzionatorio previsto per il delitto associativo in relazione ai fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della L. 8 dicembre 2005, n. 251.

Sostiene che la fase consumativa del reato associativo coinciderebbe, per il partecipe, con il momento di ingresso nell’associazione, da cui l’irrilevanza delle modificazioni in senso peggiorativo del trattamento sanzionatorio entrate in vigore successivamente a tale momento.

Lamenta infine che il giudice d’appello erroneamente non aveva esclusa la recidiva, riferibile ad un unico precedente per un banale litigio del tutto irrilevante.

Il ricorso non merita accoglimento.

Quanto al primo motivo occorre rilevare come, con la sentenza n. 336 del 2008, la Corte costituzionale abbia dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 268 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate e non presentate dal Pubblico Ministero a corredo della richiesta di applicazione della misura, in quanto sostituite dalle trascrizioni, anche sommarie, effettuate dalla polizia giudiziaria.

Con il suo intervento la Corte costituzionale ha garantito il diritto incondizionato della difesa all’accesso alle registrazioni utilizzate in fase cautelare per consentirne l’accesso a documenti fonici non altrimenti conoscibili, situazione diversa da quella che si determina con il successivo, e potenzialmente differito, deposito, ai sensi del quarto comma del medesimo art. 268 del codice di rito, delle registrazioni per le successive operazioni di stralcio e trascrizione a cura del perito, in contraddittorio con gli eventuali consulenti nominati dalla difesa. Correttamente i giudici del merito non hanno rilevato nullità alcuna dell’ordinanza di ammissione dei mezzi di prova e di trascrizione delle registrazioni intervenuta in una fase in cui era garantita la massima esplicazione del diritto di difesa e le sue possibilità di conoscenza del contenuto delle registrazioni, ininfluente essendo una pretesa (ma all’epoca non denunciata, neppure con eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata) violazione del diritto di difesa che si sarebbe verificata nell’autonoma fase cautelare, conclusa con la definitività dei provvedimenti emessi in quella sede.

I motivi secondo, terzo e quarto del ricorso possono essere esaminati unitariamente ed appaiono al Collegio manifestamente infondati e comunque tendenti a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio, rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito.

Nel caso in esame, i giudici del merito hanno fatto riferimento alle attendibili propalazioni del S., riportate diffusamente, sulla nascita di quel gruppo, di cui aveva fatto parte come diretto collaboratore di I., e sull’evoluzione della sua attività;

hanno evidenziato come il collaboratore di giustizia avesse identificato in fotografia il prevenuto ed avesse riferito dell’inizio dei rapporti di costui col clan, quando aveva consegnato al gruppo, per conto dello zio m.l., detto " g.", armi che sarebbero dovute servire per tendere un agguato ad un avversario, nonchè della circostanza che già nel 2004 I. si era avvalso della collaborazione di MA.Ig., che aveva fatto da tramite fra il gruppo e lo zio " g.", nonchè con PUNZIGLIONE di Pomigliano, per aver contatti con M. V..

I giudici del merito hanno logicamente chiarito il motivo per cui S., in quanto detenuto, non aveva poi potuto riferire altro sull’attività del prevenuto a favore del gruppo, ma hanno peraltro rilevato come, della partecipazione di costui all’attività del gruppo IANUALE, fossero chiara dimostrazione le conversazioni intercettate dal cui complesso emergeva la sua figura come di persona collocata in un’area di diretta collaborazione con il vertice e di sicuro affidamento anche nei rapporti esterni al clan. Si tratta di elementi tali da fornire adeguata dimostrazione di una ben radicata intraneità al gruppo criminale, ad onta del fatto che egli svolgesse attività di lavoro dipendente per il gruppo FIAT, rimanendo chiari gli estremi della sua identificazione, sia perchè appariva condizionato, nelle sue possibilità di contatto con altri, dagli orari di lavoro come operaio allo stabilimento, sia perchè veniva indicato come Ig. di Brusciano, che era la località dove viveva all’epoca.

Ed a fronte di tale mole di elementi, che le sentenze hanno adeguatamente e logicamente evidenziato, le doglianze del ricorso, sia pure proponendosi come censure sulla logicità dell’impianto motivazionale, si manifestano quali censure concernenti la ricostruzione dei fatti, non ammissibili in questa sede.

Anche il quinto motivo, laddove lamenta la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è manifestamente infondato e tendente a sottoporre a questa Corte valutazioni squisitamente di merito, ad essa sottratte. Del tutto legittimamente difatti i giudici del merito hanno ritenuto ostativa al riconoscimento delle attenuanti generiche la gravità dei fatti, tutti di matrice camorristica e le modalità di realizzazione degli stessi, indicative di particolare inclinazione a delinquere dell’imputato, trattandosi di parametro considerato dall’art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell’art. 62 bis c.p..

Manifestamente infondato è poi il rilievo per cui non sarebbe applicabile il regime sanzionatorio di cui alla L. n. 251 del 2005, avendo egli aderito, in ipotesi, all’associazione in un momento anteriore rispetto all’entrata in vigore della legge in questione, irrilevante essendo al proposito la protrazione nel tempo di tale partecipazione.

Correttamente la Corte di merito ha osservato, secondo consolidata giurisprudenza (cfr. Rv. 190641; Rv. 204270; Rv. 248461; Rv. 248461), che la protrazione, come nel caso di specie, della consumazione del reato permanente oltre la data di entrata in vigore della modifica al trattamento sanzionatorio rende applicabile la più recente previsione sanzionatoria, anche se meno favorevole all’imputato.

Infondata anche la doglianza relativa all’applicazione della recidiva ai sensi dell’art. 99 c.p., nel testo di cui alla L. n. 251 del 2005, art. 4 che al comma 5 prevede l’obbligatorietà dell’aumento di pena per la recidiva, qualora si tratti di uno dei reati di cui all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), quale quello di associazione per delinquere di tipo mafioso.

Come osservato sopra, la permanenza del reato si è esaurita in epoca successiva all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, così che è applicabile il regime sanzionatorio previsto dalla novella legislativa, ed obbligatorio l’aumento di pena per la recidiva contestata al MA., a nulla rilevando la modesta gravità del delitto commesso in epoca anteriore, poichè (cfr. Sez. 1^, sent. n. 36218 del 23/09/2010, Rv. 248289, ric: Pisanello e altri) la recidiva cosiddetta "obbligatoria", disciplinata dall’art. 99 c.p., comma 5, ricorre ogni qualvolta un soggetto recidivo commetta un nuovo delitto compreso tra quelli indicati nell’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), a nulla rilevando se il delitto per cui vi è stata precedente condanna sia anch’esso incluso nell’elenco del citato art. 407.

Osserva peraltro il Collegio che i giudici del merito, nella concreta applicazione al MA. dell’aumento di pena per la recidiva, non hanno tenuto conto del disposto dell’ultimo comma dell’art. 99 c.p. secondo il quale in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla consumazione del nuovo delitto non colposo.

Così, considerando che il MA. aveva subito in epoca anteriore al 2006 una sola condanna, per i delitti di minaccia e lesioni, alla reclusione per mesi quattro e giorni quindici, si risolve in applicazione di pena illegale l’aumento di anni tre di reclusione applicato per la recidiva obbligatoria sulla pena base stabilita in anni nove di reclusione, violazione che la Corte rileva d’ufficio con il conseguente annullamento della sentenza impugnata senza rinvio nei confronti del MA., limitatamente all’aumento di pena applicato per la recidiva, che viene determinato dalla Corte, ai sensi dell’art. 99 c.p., u.c., in mesi quattro e giorni quindici di reclusione.

Osserva in proposito il Collegio che il doveroso controllo sulla corretta applicazione degli aumenti di pena per la recidiva anche ai restanti imputati non ha portato ad individuare ulteriori violazioni di legge.

N.A. è stato ritenuto dal Tribunale colpevole del delitto ascrittogli al capo EEE), associazione armata di tipo camorristico, per avere collaborato, in qualità di partecipe, direttamente e personalmente con I.V., divenendo il diretto referente dell’organizzazione nei periodi di detenzione del medesimo, svolgendo funzioni operative in tutti i settori di interesse del gruppo e mantenendo i contatti con gruppi criminali alleati.

La Corte d’appello ha confermato in toto la sentenza del Tribunale.

Ricorre per cassazione il prevenuto sulla base di tre motivi.

Con il primo deduce difetto di motivazione sulla valutazione delle dichiarazioni dei diversi collaboratori di giustizia che avevano riferito del clan IANUALE e della partecipazione al medesimo del N..

Si tratterebbe di affermazioni generiche e de relato (quelle di E.U.), circa la partecipazione del prevenuto ad attività estorsive per conto dello I., per di più sfornite di riscontri.

Nè RO.Gi. nè PR.Vi. avrebbero riconosciuto in fotografia il N..

S., sia pure interno al clan, avrebbe subito lunghi periodi di detenzione ed in ogni caso le sue sarebbero dichiarazioni poco chiare e confuse sul ruolo del N., che in un’occasione sarebbe stato confuso con il fratello, come autore di un’estorsione.

In ogni caso dalle dichiarazioni di S. emergerebbe un certo distacco del prevenuto dall’attività del gruppo.

Con il secondo motivo deduce difetto di motivazione sulla ritenuta valenza di riscontro delle intercettazioni telefoniche, che non riguarderebbero direttamente il N., ma semplicemente un soggetto chiamato Ar., indicato come N. da S., che finirebbe così per riscontrare sè stesso, peraltro con riferimento ad un periodo in cui il collaboratore sarebbe uscito dal gruppo.

Inoltre, le captazioni riporterebbero riferimenti generici, che non potrebbero essere collegati al possesso di armi, così che non se ne potrebbe desumere il carattere armato dell’associazione.

In ogni caso emergerebbe l’assenza del N. dalle attività criminose e non sarebbe quindi configurabile un suo ruolo preciso nell’organizzazione, poichè la tipicità della condotta di colui che è associato non deve essere un’attività qualsiasi, ma connessa ad un ruolo specifico assegnatogli, o che comunque si è impegnato ad esplicitare.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge per esser state applicate le pene più gravi previste dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251 a fatti che si sarebbero realizzati prima della data di entrata in vigore della legge.

Ritiene che nei reati permanenti non sia corretta l’applicazione della legge in vigore nel momento in cui la condotta ha termine, mentre, per stabilire quale sia la legge applicabile, occorrerebbe riferirsi all’inizio della permanenza, quando il reato deve ritenersi commesso. Il ricorso è inammissibile.

I primi due motivi sono manifestamente infondati e tendenti a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi all’esclusiva competenza del giudice di merito.

Nel caso in esame, la Corte di appello ha ineccepibilmente osservato che la prova della partecipazione del N. alla consorteria facente capo allo I. si ricavava dall’insieme delle dichiarazioni di più collaboratori di giustizia e di ciascuno di questi ha evidenziato come avesse inquadrato l’azione del prevenuto nel contesto operativo della consorteria di riferimento.

La Corte di merito ha sottolineato, in particolare, il valore del contributo di S., personaggio di spicco del gruppo e responsabile del suo organigramma, affrontando anche i rilievi dell’appellante sull’intermittenza del rapporto di quello con l’associazione, dovuto a più periodi di carcerazione; ha rilevato peraltro con precisione come all’attività del N., quale collaboratore del gruppo soprattutto per le estorsioni ai cantieri edili, il S. avesse fatto riferimenti precisi, anche per aver partecipato con lui ad una riscossione in danno di un imprenditore che non aveva voluto pagare; per avergli dato di persona istruzioni in merito al suo affiancamento ad altro sodale in quell’attività; per aver avuto diretti contatti con lui, nel 2007, in merito alla ridotta resa delle estorsioni, sia per essere stato direttamente informato, anche se si trovava in carcere, di taluni scorretti comportamenti di N., che avrebbe sperperato al gioco proventi che sarebbe stato suo compito trasferire al clan. La Corte d’appello ha evidenziato i contributi di ES. S., appartenente a clan rivale, ma che aveva appreso di persona dai taglieggiati dell’attività di N., di estorsore per conto di I.; di RO.Gi., che aveva riferito di dirette minacce estorsive che aveva subito dal prevenuto per conto del clan IANUALE, nel periodo di iniziale espansione di quel gruppo a danno del clan REGA, il medesimo a cui aveva fatto riferimento S. nel riferire degli inizi dell’attività di quella consorteria, a cui aveva partecipato anche N..

La Corte territoriale ha quindi correttamente individuato i momenti di riscontro fra le dichiarazioni dei collaboratori, seguendo il percorso associativo del N. ed il suo sviluppo nel tempo, dando atto anche dei periodi di un certo distacco, anche per la disorganizzazione del gruppo, risolta poi dall’intervento di S..

Ha evidenziato le intercettazioni che confermavano il narrato dei collaboratori ed ha osservato, in particolare, quanto alla pretesa irrilevanza e cripticità del riferimento alle armi, che la combinazione temporale dell’intercettazione in cui si parlava del prelievo ad opera di S. di cose che il prevenuto conservava e l’effettiva consegna di una pistola da parte di N., siccome riferita nella dichiarazione del collaboratore, toglieva ogni dubbio sull’individuazione come armi delle cose a cui ci si riferiva nelle conversazioni captate.

Tutto questo, collegato al chiarimento di S. che aveva indicato che con i termini cosa e imbasciata si indicavano armi.

A fronte di una motivazione della Corte di merito, che appare completa, anche per la disamina in generale delle attività e dello sviluppo nel tempo della consorteria criminale in questione, e priva di difetti di consequenzialità logica nell’individuazione degli elementi i prova e dei riscontri dei contributi dichiarativi dei collaboratori, va osservato che, pur affermando l’esistenza di un vizio di contraddizione della motivazione rispetto ai dati acquisiti e cioè di "travisamento della prova", non v’è argomento del ricorrente che non si ponga invece come censura sul significato e sull’interpretazione di tali elementi. Mentre l’unico "travisamento" prospettabile in questa sede per effetto della novella che ha modificato l’art. 606, comma 1, lett. e), del codice, dovrebbe concernere il significante, non il significato.

Invero è consentito il riferimento ad atti specificamente indicati, solo per dimostrare che la motivazione li ha per errore ritenuti esistenti o non, o ne ha travisato la lettera o li ha affermati irrilevanti senza dirne il perchè, cosicchè, se non fosse incorso in quell’errore, il giudice avrebbe diversamente deciso (artt. 192 e 546 c.p.p.).

Se viceversa il giudice di merito ha dato conto, concisamente come deve, dei risultati di tali atti ed ha indicato i criteri adottati nel valutarli, non è consentito chiedere al giudice di legittimità la verifica diretta del contenuto documentale oltre il testo del provvedimento, ma proprio e solo di verificare il vizio di motivazione dal testo del provvedimento, non essendo compito del giudice di legittimità compiere una rivalutazione del compendio probatorio, sulla base delle prospettazioni dei ricorrenti, avendo questa Corte chiarito già da tempo che esula dai suoi poteri una "rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Sez. Un. n. 41476 del 25/10/2005, Misiano; Sez.Un. n. 6402 del 2.7.1997, Dessimone, rv. 207944; Sez. Un. n. 930 del 29.1.1996, Clarke, rv.

203428).

Non v’è, difatti, elemento di prova, per quanto significativo, che possa essere "interpretato" per "brani" e fuori del contesto in cui è inserito e gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti, che attengono interamente al "merito", non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa. Sicchè restano inammissibili le censure che, analogamente a quelle prospettate nel presente ricorso, sono nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio: nel caso di specie una valutazione circa il significato di quanto è stato detto diversa rispetto a quella, pure assolutamente ragionevole e plausibile, offerta dai giudici di merito.

Manifestamente infondato, infine l’ultimo motivo di ricorso sul trattamento sanzionatorio e la pretesa inapplicabilità del disposto dell’art. 416 bis c.p. come modificato dalla L. n. 251 del 2005.

Il Collegio non può che riportarsi a quanto rilevato al proposito con riferimento al quinto motivo del ricorso di MA.Ig..

Al rigetto ed alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna di ciascun ricorrente, con eccezione del MA., al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione proposta da R.S., E.L., C.C., T.G. e N.A. – al versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 per ognuno dei predetti ricorrenti, mentre l’inammissibilità per mancata presentazione dei motivi del ricorso proposto da M.V. comporta per costui l’obbligo del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro 500,00.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di MA.Ig. limitatamente all’aumento di pena per la recidiva, che determina in mesi quattro e giorni quindici di reclusione;

Rigetta nel resto il ricorso di MA.Ig.;

Rigetta i ricorsi di P.E., MO.Ca., E. C., Z.A., E.U., D. P. ed E.M.; Dichiara inammissibili i ricorsi di R.S., E.L., C.C., T. G., M.V. e N.A.; Condanna tutti i ricorrenti, ad eccezione del MA., al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro 1.000,00 ciascuno R.S., E.L., C.C., T.G. e N. A., e di Euro 500,00 M.V..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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