Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
1. Con una doppia sentenza conforme, la corte di Assise di Como in prime cure e la corte d’assise d’appello di Milano in secondo grado, condannavano entrambi gli imputati, ritenuti colpevoli dei reati di pluriomicidio aggravato – dalla premeditazione e dall’avere approfittato della minorata difesa di minore -, in danno di M. Y. di anni due, di C.R. di anni trenta e di G.P. di anni cinquantasette, massacrati con coltello e spranga all’interno della loro abitazione, nonchè del reato di incendio dell’appartamento, locus commissi delicti, destinato ad abitazione di C.R., del reato di violazione di domicilio e del reato di porto di arma fuori dall’abitazione, reati questi riuniti tra loro dal vincolo della continuazione, pei quali veniva inflitta la pena dell’ergastolo a ciascuno dei due.
Venivano ancora attribuiti ai due ricorrenti i reati di omicidio aggravato ai danni di Ch.Va., colpita con un coltello e di tentato omicidio in danno del marito di quest’ultima, F. M., colpito con pugni e con un coltello alla gola al lobo sinistro della tiroide, fatti pei quali veniva inflitto un secondo ergastolo, con conseguente isolamento diurno per tre anni.
I fatti accadevano il giorno 11 dicembre 2006, in un intervallo temporale compreso tra le ore 20,00 e le ore 20,25 in Erba, nella corte di via Diaz 25, dove si affacciavano le abitazioni sia degli offesi, che degli imputati.
1.1. L’intervento delle forze dell’ordine era stato sollecitato da due vicini di casa delle vittime e si era registrato alle ore 20,49, preceduto peraltro dal sopraggiungere dei vigili del fuoco, alle ore 20,29, chiamati alla vista del fumo della combustione proveniente dall’appartamento dei C.. Furono i vigili del fuoco che facendo ingresso nella casa di costoro per affrontare l’incendio sviluppatosi, trovarono i corpi esanimi di C., di G. e del piccino Y., ed al piano superiore quello della Ch., genuflessa in una pozza di sangue e priva di vita.
Il F. rinvenuto molto sofferente, ma ancora vivo, sulle scale di casa, veniva portato in ospedale e veniva salvato.
In sede di prime indagini dell’anatomopatologo, emergeva che le tre donne presentavano gravi lesioni craniche, mentre il piccolo presentava ferite da sgozzamento.
Le investigazioni venivano immediatamente condotte su due direttrici:
quella che portava ad indagare sui parenti nordafricani del marito della C., peraltro in quel periodo assente perchè in Tunisia (e si trattò di pista subito abbandonata) e quella che conduceva a soggetti con cui la famiglia massacrata aveva avuto ragioni di conflittualità ed in particolare sulla coppia R. – B. che in quella sera inspiegabilmente non si era vista, nonostante il clamore che la scoperta dei cadaveri aveva destato; i due avevano aperto la porta della loro abitazione alle forze dell’ordine, che ripetutamente avevano cercato i coniugi nella loro abitazione, solo alle ore 2,30 e non avevano neppure chiesto cosa mai fosse successo, ancorchè nella corte si fosse registrato un comprensibile notevole trambusto; la B. aveva immediatamente esibito uno scontrino fiscale della pizzeria McDonald’s, ove assumeva essere stata consumata la loro cena.
Le forze dell’ordine non avevano mancato di rilevare che alle ore 2,30 appunto, allorquando dopo ripetuti inviti la coppia aveva aperto la porta della abitazione, era in funzione la lavatrice e la B. presentava una ferita fresca ad un dito ed ecchimosi lievi sul dorso della mano sinistra ed all’avambraccio, mentre il R. aveva un’ecchimosi al braccio.
I due venivano sentiti più volte dagli investigatori in sede di prime indagini; il controllo ambientale della loro abitazione consentiva di accertare che gli stessi non parlavano quasi mai dell’accaduto, manifestavano però preoccupazione su un possibile controllo ambientale (tanto da maturare la volontà di svitare il citofono) e censuravano la passività delle forze dell’ordine che mai risposero alle loro denunce e alle loro richieste di intervento.
Il giorno 26.12.2006, ai due imputati i Carabinieri chiesero di rifare a piedi ed in auto il percorso che a loro dire era stato seguito, la sera del fatto, da Erba a Como e nel centro di Como;
quella sera stessa veniva controllata l’auto della coppia e, attraverso il luminol, venivano rilevate tracce, di cui una – rinvenuta sul battitacco lato guida – risulterà di natura ematica ed in sede di analisi biologiche risulterà contenere il profilo genetico di Ch.Va..
Nel frattempo il marito di costei, F., superata la prima fase di pesante disorientamento, riconosceva in R.O. il suo aggressore, cosicchè in data 8 gennaio 2007, venivano emessi provvedimenti di fermo nei confronti dei due che inizialmente professavano la loro innocenza e successivamente – il 10.1.2007 – rendevano confessione.
Va detto subito – ancorchè per inciso – che la confessione da parte di entrambi verrà ritrattata, in sede di udienza preliminare.
La confessione inizialmente resa dalla B. di esclusiva attribuzione del fatto si manifestava non pienamente sincera, poichè una sola persona non avrebbe mai potuto uccidere quattro soggetti, ferendone mortalmente un altro; i contributi offerti dal R. consentivano di addivenire invece ad una più realistica ricostruzione degli eventi, poichè venivano offerti spunti che si inserivano nella cornice che le prime indagine avevano consentito di delineare.
In particolare, R. assumeva che quella sera lui e la moglie avevano visto arrivare C.R., la mamma ed il bambino con l’auto del padre, avevano atteso che costoro entrassero in casa, dopo di che prima lui e poi la moglie, si erano introdotti nella loro abitazione, lui aveva colpito con una spranga rivestita da un tubo di gomma prima C.R. e poi la G., mentre la B. si era accanita sul piccolo, dopo di che aveva aiutato il marito a terminare l’opera di annientamento delle due donne, quindi entrambi avevano dato fuoco alla casa; uscendo dall’alloggio si erano peraltro scontrati con il F., che stava scendendo le scale seguito dalla moglie, erano rientrati, ma il fumo li aveva fatti immediatamente riuscire, con il che era scattata la volontà omicida anche nei confronti dei due ignari condomini, la B. si accanì sulla donna a mezzo di un coltello e R. affrontò il F., colpendolo con la spranga e poi ferendolo alla gola con altro coltello, che teneva nella tasca.
Rappresentazione questa a cui la B. si uniformava, rettificando la primitiva confessione che peccava di eccessiva generosità nei confronti del marito.
Va sottolineato che avanti al gip, in sede di convalida del fermo, i due confermavano le loro ammissioni di colpevolezza, senza mai accennare al fatto di essere stati vittima di alcuna pressione; il 6.6.2007 la B. chiedeva di essere sentita per ribadire quanto rappresentato, salvo aggiungere di essere stata vittima dei desideri sessuali di M.A., padre del bambino ucciso, cercando di accreditare quindi una volontà ritorsiva.
Le due confessioni venivano ritenute dai giudici di merito sostanzialmente sovrapponibili e poichè si doveva escludere una contaminazione tra i due, venivano ritenute ad alto tasso probante.
Dati oggettivi pervenivano dalla consulenza medico legale, che acclarava in primis che il bimbo era stato attinto da due ferite da punta e da taglio in sede sottoclaveare e sottomandibolare, con incisione della carotide; che C.R. e la di lei madre erano state colpite con un corpo contundente al capo, con notevole forza, tanto che era stato frantumato il tavolato osseo ed entrambe presentavano una ferita da scannamento al collo, oltre che ferite da taglio e da punta su capo, collo, torace ed addome, mentre la Ch. aveva subito lesioni traumatiche con lo stesso corpo contundente che era stato usato per colpire le altre due donne e presentava anche lei una ferita da scannamento, prodotta dalla stessa arma usata per le altre vittime.
La corte d’assise rilevava una serie di particolari molto significativi, poichè riferibili solo da soggetti che avessero effettivamente vissuto la scena del crimine (quali il dato che le vittime erano sopraggiunte alla corte con l’auto del Ca., anzichè con l’auto Panda che la G. era solita usare, il dato della posizione finale delle vittime, la presenza di due cuscini vicino al corpo della C.R. e della G., la dinamica dell’incendio all’alloggio, l’esatta localizzazione dei focolai di incendio, la corrispondenza della descrizione dello scontro con la coppia F. – Ch. con quella offerta dal F. stesso).
Non solo, ma venivano ancora evidenziati significativi dati confermativi dell’attribuzione del fatto ai due imputati:
1) il portoncino di ingresso nella palazzina teatro del massacro poteva essere aperta dall’esterno solo da chi avesse le chiavi;
2) nessuna delle possibili vie di fuga (quali ad es. il terrazzo di casa C.) venne usata dagli autori del fatto, che se mai se ne fossero avvalsi, non si sarebbero scontrati con la coppia F. – Ch.;
3) mancavano tracce di fuga degli autori del reato al di fuori della corte, mentre vi erano tracce del sangue della Ch. sulla maniglia del portoncino e sull’ultima rampa delle scale verso l’uscita, il che significava che solo chi avesse avuto la possibilità di lavarsi all’interno delle case della corte ebbe modo di non disperdere le tracce nel cortile;
4) l’aggressione ai F. aveva come unico fine di eliminare testi oculari che avevano motivo di riconoscere i soggetti visti uscire da casa C.;
5) la macchina del R., quella sera era stata parcheggiata fuori del cortile, diversamente da quanto avveniva di solito;
6) quella sera era stata interrotta l’energia elettrica in casa C., fin dalle ore 17,45, con distacco manuale del contatore (operazione questa di cui R. assunse la paternità e che doveva servire per costringere, una volta rientrati in casa, a riaprire la porta per andare a riattivare il contatore sito al piano terreno);
7) il F. aveva descritto il suo aggressore come un soggetto che indossava solo un maglione, il che dimostrava che proveniva dall’interno della corte e non dall’esterno, visto che si versava in inverno ed era necessario coprirsi. Ma soprattutto veniva ritenuto non trascurabile il movente, attese le ragioni di continua conflittualità che si erano registrate tra i due nuclei familiari, anche considerato che di lì a pochi giorni, i coniugi R. avrebbero dovuto presentarsi avanti al giudice di pace, a seguito di querela sporta in loro odio dalla C. per lesioni ed ingiurie, con la prospettiva di dovere rifondere dei danni la parte avversaria.
Questo coacervo di elementi aveva portato in primo grado ad affermare con assoluta certezza, la colpevolezza dei due imputati, non essendo stata riconosciuta all’intervenuta ritrattazione delle confessioni, alcuna portata in termini di ridimensionamento della solidità del quadro accusatorio, essendo stata ritenuta la ritrattazione una forma reattiva di insofferenza anche verso il difensore all’epoca nominato, che si scontrava, annullandone la sua portata difensiva, con gli appunti manoscritti del R. e con le rivelazioni fatte a terzi, a conferma del coinvolgimento nella strage.
1.2 In sede di appello, la corte veniva investita sotto plurimi profili, in quanto la sentenza di condanna veniva attaccata sotto molteplici aspetti, facenti leva in particolare sul valore delle confessioni e delle ritrattazioni, sulla compiacente deposizione del F., sulla non decisività della traccia ematica, sulla causa della morte delle vittime, sulla non affidabilità delle prove scientifiche, sulla mancata considerazione di pista alternativa – facente leva sulla riferita presenza di tre soggetti extracomunitari che discutevano animatamente, davanti all’ingresso di casa C., nonchè sui contributi informativi di terzi, che avevano dichiarato di essere a conoscenza dell’innocenza dei R. -, sulla carenza di indagine in ordine alla capacità di intendere e volere degli imputati.
Veniva formulata una richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, onde disporre varie perizie su plurimi versanti ritenuti non sufficientemente approfonditi, o trascurati, in sede di giudizio di prime cure e per procedere all’audizione di un nutrito testimoniale.
Quanto alle confessioni e ritrattazioni, la corte di Milano si soffermava analiticamente su tutti gli svariati argomenti difensivi tesi a dimostrare il condizionamento dei due interessati che sarebbero stati sollecitati a confessare, non prima di affrontare alcuni profili di ordine procedurale.
In primo luogo, veniva ritenuto che mai venne ad apprezzarsi una posizione di conflittualità tra i due imputati, poichè mai l’uno ebbe ad accusare l’altro prima dell’assunzione di responsabilità, con il che mai venne a profilarsi una condizione di incompatibilità del comune difensore; in secondo luogo veniva ritenuto che non era affatto necessario, come opinato dalla difesa, che agli imputati venisse fatto l’avvertimento di cui all’art. 199 c.p.p., previsto solo per i testimoni e non per gli imputati.
Sul merito delle confessioni, la corte descriveva il tormento ed il travaglio che avevano comprensibilmente animato il R. fin dai primissimi giorni di detenzione, essendo apparso agli operanti che si erano recati in carcere per estrarre le impronte papillari, il 10.1.2007, come "un fiume in piena", voglioso di riferire circostanze relative alla strage in oggetto, salvo poi, una volta comparso il Pm, manifestare titubanza, volontà di rinvio, quindi dopo essersi consultato con il difensore, disse che preferiva rinviare, salvo poi decidere di parlare subito.
La Corte evidenziava con meticolosità i passaggi annotati sul verbale del 10.1.2007, redatto dal Pm, che elencò all’imputato gli elementi a suo carico, lo invitò a fornire l’indicazione di circostanze a sua difesa e mai ricevette lagnanza su pressioni o sollecitazioni alla resa processuale.
Significativo veniva ritenuto il taglio dell’iniziale confessione, che partiva dal fatto che i vicini disturbavano, che erano stati inutili i richiami alle forze dell’ordine, con il che lui e la moglie erano stati costretti a farsi giustizia da soli, motivo questo che sarà ricorrente come autogiustificazione.
La corte sottolineava che quando alle ore 16,00 di quello stesso giorno, l’interrogatorio venne ripreso, il R. venne esortato a dire la verità, ma lo stesso si attribuì tutta la strage, assumendo la paternità anche dell’omicidio del bambino, di cui però non seppe fornire particolari, quindi ricordò che le due donne, ancorchè colpite con sprangate, si muovevano ancora, per cui mise due cuscini sulla bocca della C.R. per soffocarla e poi appiccò l’incendio prima nella camera da letto e poi nella cameretta di Y., aprì la porta per andarsene, ma si scontrò con F. sulle scale, richiuse, ma venne soffocato dal fumo, cosicchè riaprì la porta e si trovò il F. parato davanti a lui, per cui dovette inveire contro di lui e la moglie, pensando di averli uccisi.
Solo una volta oppostogli che una persona sola non avrebbe potuto compiere una strage di quelle dimensioni, il R. si decise a coinvolgere la moglie.
La confessione per quanto controllata, nel comprensibile estremo tentativo di evitare di accreditare la premeditazione, è stata ritenuta oltremodo confortata nella sua sostanziale ossatura dai riscontri che provenivano dalla stessa mano del R. ed in particolare dai numerosi appunti che lo stesso ebbe ad annotare in margine alla Bibbia che aveva in lettura.
Questi appunti sono stati riportati nella sentenza da pag. 45 a pag.
50 ed evocano intenti di vendetta nei confronti di C. R., invocazioni di perdono del tipo "Rabbi perdonaci, non sapevamo cosa facevamo", "Dio perdona anche quelli come noi che su questa terra hanno vissuto l’inferno", "accogli nel tuo regno Y., sua mamma C.R., sua nonna G.P. e C.V. a cui noi abbiamo tolto il tuo dono, la vita".
Contengono anche la descrizione di confidenze ricevute da Bazzi Rosa ,.q.a.s.d.Catagna Raffaella c.l.c.d.
n.d.a.s.b.c.q.s.c.s.c.l.
s.s.v.e.i.c.c.l.Olindo @Romano l.i.
I.p.l.c.r.c.q.a.r.d.
p.a.r.a.f.d.q.a.p.l.
s.Romano a.s.u.l.a.s.d.
.Bassano ,.n.2.i.c.a.a.c.n.s.e.
a.r.c.d.q.c.a.f.e.c.i.p.e.i.
p.s.c.a.a.r.e.a.
u.s.n.a.r.c.s.r.
r.n.s.a.c.s.q.f.i.a.
t.d.i.p.s.s.e.N.s.m.l.c. r.c.i.r.d.a.d.r.e.d.
r.a.n.f.c.l.r.d.s.d.
d.e.a.c.n.p.e.d.d.i.c. p.n.p.e.r.a.s.e.o.a.
s.i.d.c.c.a.d.d.
v.r.i.f.c.i.c.d.Castagna f.
s.i.f.c.i.f.f.s.a.e.a.
c.l.i.f.c.u.d.c.Castagna ,.Bassi Rosa .
f.p.d.Romano Olindo ,.c.l. C. fosse stata colpita fuori dal suo appartamento, che fosse stata usata una spranga.
In sostanza, i giudici di secondo grado ritenevano che la ritrattazione, peraltro non spiegata in sede di esame dibattimentale, ma soltanto in sede di dichiarazioni spontanee dal solo R., non poteva che essere vista come frutto non di un ripensamento, ma di un cambio di strategia, correlato al cambio di avvocato e ai consigli ricevuti da terzi, quali a detta del R., il cappellano, l’educatrice e la psicoioga.
La stessa B. aveva deciso di confessare senza subire nè forzature da parte di esponenti delle forze dell’ordine, nè imbeccate, atteso che i due marescialli erano nella impossibilità di conoscere i particolari che poi saranno forniti dalla stessa.
Venivano d’altro canto giustificati i numerosi "non ricordo" e le inesattezze nel racconto inizialmente confessorio dei due, in ragione del fatto che in occasione di fatti molto gravi opera una sorta di autocensura o di rimozione e poi con il fatto che l’azione si sviluppò molto velocemente, con il che i ricordi di segmenti dell’azione possono essersi sovrapposti, in modo tale da rendere difficile la ricostruzione della successione. Senza sottovalutare che da parte di entrambi ci furono svariati tentativi di stornare dalla verità: ne era prova il fatto che R.O. nella sua Bibbia vergò un appunto in cui fece espresso riferimento ad una verità svelata al 30%, lasciando quindi pienamente intendere che il racconto non era del tutto rispondente a verità.
Ciò posto, la corte riconosceva significazione ai particolari che erano stati indicati in primo grado, di cui si è detto, quali indici rivelatori di conoscenza dei fatti, giustificabile solo da chi il fatto lo avesse vissuto in prima persona, trattandosi di dati che veniva escluso che fossero stati appresi con la semplice lettura degli atti avuti a loro disposizione.
Nell’economia della ricostruzione venivano ritenuti senza alcuna incidenza i rilievi della difesa – che in parte saranno ripresi in sede di legittimità- quanto alla ritenuta non genuinità e quindi non spontaneità delle confessioni rese.
Sulla capacità di intendere e volere, la Corte territoriale condivideva l’opinione dei primi giudici e non riteneva doversi procedere a perizia psichiatrica sui due imputati, in ragione del fatto che nessun elemento era stato dedotto per ricollegare il preteso disturbo della personalità, comune ai due imputati, alla mancanza di autodeterminazione e di autocontrollo nell’agire.
Non fu indicato alcun elemento caratteriale tale da collegare il tipo di rapporto esistente tra i due coniugi ed ovviamente la natura patologica di questo, alla commissione di un delitto tanto efferato, che è stato ritenuto trovare invece una banale spiegazione con l’accumulo di odio e di rancore che i R. avevano maturato contro soprattutto C.R., odio di cui vi era traccia sensibile nelle annotazioni di R. sulla Bibbia e nella lettera, sempre del R., al sacerdote menzionato.
La valutazione operata dalla dott.sa c.,- che non ebbe a procedere con esame diretto dei due imputati e non ebbe a vagliare le loro dichiarazioni -, ad opinione della Corte, si sarebbe soffermata con un taglio del tutto teorico sul disturbo psicotico condiviso, che è una forma di delirio che si sviluppa in un soggetto che ha una relazione molto stretta con altra persona; partendo dal fatto che i due imputati sono stati definiti a basso livello intellettivo, sarebbero stati ritenuti proprio per questo più suggestionabili e più alterabile sarebbe stata la loro sfera affettiva. Ma in tale ragionamento la Corte rilevava la mancanza di ancoraggio a manifestazioni concrete, relative a ciascun imputato, non essendo stata offerta prova di alcun collegamento valido e personalizzato tra gli aspetti di personalità dei due imputati ed il delitto commesso.
Veniva poi sottolineato che per quanto molto uniti fra loro, i due non erano affatto sovrapponibili, in quanto portatori di diverse personalità; che gli stessi non erano e non sono così ipodotati come sono stati tratteggiati, poichè se R. ha manifestato maggiore cultura e maggiore capacità di esposizione rispetto alla moglie, cionondimeno entrambi hanno denotato nella organizzazione del delitto una capacità di elaborazione e di previsione non trascurabile.
Inoltre le loro dichiarazioni hanno dimostrato una lucidità che non ha mai tradito ingenuità o intelligenza limitata. Veniva ritenuto non giustificabile disporre una perizia psichiatrica in appello, in quanto se è vero che con la nota sentenza delle Sezioni Unite, il concetto di infermità rilevante ai fini della sussistenza del vizio di mente è stato esteso ai disturbi di personalità, non sempre inquadrabili nel novero delle malattie mentali, è altrettanto vero che è stato scritto che va effettuato l’esame del nesso eziologico tra disturbo mentale e reato, attraverso un approccio non ipotetico, ma reale ed individualizzato.
Ora, nel caso specifico, la corte rilevava che la vita anteatta dei due non lasciava intravedere segni di squilibrio, entrambi avevano negato pregressi disturbi psichici; gli stessi avevano a lungo meditato e preparato l’azione delittuosa, predisponendo il piano nei minimi particolari, ebbero cura di cancellare tutte le tracce dopo il fatto e di tenere un contegno molto controllato con i vicini e con i carabinieri nelle ore successive al fatto, il che portava a concludere sulla sussistenza non solo della capacità di intendere, ma anche di volere.
R. nelle sue scelte, commentate con annotazioni autografe, si mostrò sempre molto consapevole delle opzioni processuali adottate e dell’importanza delle loro conseguenze. In carcere nessuno rilevò forme di alterazione o di dissociazione, mai intervenne una diagnosi psichiatrica, essendo state annotate solo comprensibili forme di insofferenza allo stato detentivo di sorvegliati a vista. La psicologa, dott.ssa Me., che li ebbe a monitorare negli anni 2007 e 2008 non riferì alcuno dei disturbi di personalità rientranti nella categoria indicata dalle Sezioni Unite; nessun episodio di assenza o menomazione della capacità di intendere e/o di volere è stato registrato nel periodo successivo al fatto, nè sono stati colti indicatori significativi, dagli stessi giudici nel corso del lungo dibattimento.
Sul riconoscimento di R.O. da parte di F.M., la corte riteneva che l’apprezzamento della difesa, secondo cui il F. non sarebbe un teste a carico, bensì a discarico, in quanto nelle primissime dichiarazioni descrisse persona con fattezze completamente diverse da quelle di R. (occhi scuri, pelle olivastra, folti capelli neri) non era condivisibile.
In proposito, la Corte evidenziava che era stato il difensore del F. ad avere segnalato al pm con un fax, in data 16.12.2006, che il suo assistito, dopo l’iniziale trauma, aveva cominciato a ricordarsi il viso del suo aggressore, con il che il 20.12.2006, al carabiniere Ga. che gli chiese se conoscesse il R., domandò a sua volta perchè gli veniva fatta quella domanda, dopo di che scoppiò a piangere, riferendo che il suo assassino era R. O..
Al Pm, subito dopo, ribadì di ricordare perfettamente la figura del R., che inspiegabilmente vide uscire da quella porta, disse di ricordare soprattutto gli occhi con cui lo guardava e di aver detto subito di non riconoscerlo non per volerlo coprire, ma semplicemente perchè stentava a credere che avesse potuto spingersi a tanto.
Ancora il 27.12.2006, il 2.1.2007, il 3.1.2007, sempre avanti al pm, quindi poi in sede dibattimentale, F. ribadì la sua sicurezza del riconoscimento, giustificando il fatto che si era avvicinato alla porta dei C. proprio perchè aveva visto il R. – persona da lui conosciuta – inspiegabilmente uscire da quella casa e giustificando la sua esitazione a dirlo, perchè stentava a credere che un vicino di casa avesse potuto uccidere sua moglie e ferire così gravemente lui.
La Corte riteneva poco probante il fatto che nel corso delle iniziali informazioni rese al pm, il F. avesse detto "è stato R. O.", ovvero come sostenuto dalla difesa anche a mezzo di CT fonica, avesse detto " è stato uscendo", perchè comunque anche in questa ultima decodificazione, il significato accusatorio della dichiarazione non cambierebbe (atteso che il R. si avventò sul F. proprio uscendo da casa C.); in ogni caso, veniva sottolineato dalla corte che quel che più conta è che il F. mantenne ferma la sua indicazione e spiegò in modo plausibile le ragioni della iniziale titubanza a fare il nome del vicino, nonostante un pressante controesame.
Veniva poi sottolineato dalla corte di Milano che il R. non avanzò alcuna ragione di dissidio con i F., ma disse semplicemente che non si erano fatti gli affari loro, dando una ragione molto chiara del perchè dell’aggressione.
Del resto l’aggressione ai F. si collocava plausibilmente solo in una prospettazione di neutralizzazione di due testimoni, che avrebbero potuto fornire utili indicazioni sugli autori del grave fatto di sangue appena consumato, posto che se fossero stati soggetti non conosciuti dai F. gli autori della strage, l’ulteriore aggressione a fini omicidiari non avrebbe avuto alcun senso.
Quanto alla traccia ematica sul battitacco dell’auto, la corte rilevava che al momento in cui la traccia venne estrapolata sull’auto, i due giudicabili non erano ancora indagati, ma il R. era peraltro presente, come da lui ammesso in sede di dichiarazioni spontanee dibattimentali e nulla venne fatto a sua insaputa. Quando il CT rilevò che gli accertamenti potevano avere carattere di irreperibilità, venne dato loro avviso, con il che nessun profilo di nullità veniva ritenuto apprezzabile. Aveva cura la corte di fare rilevare che nessuno degli operanti che partecipò all’ispezione dell’autovettura aveva proceduto alla perquisizione, con il che veniva immediato notare che non poteva ipotizzarsi che la traccia fosse stata portata da soggetti che avevano calpestato il cortile che era stato lavato con l’acqua; non solo, ma la traccia era talmente netta, che imponeva di ritenere che fosse stata portata direttamente dalla scena del crimine e non potesse ricondursi al calpestio del liquido presente nel cortile, a seguito dell’uso di massicce quantità di acqua per lavare il pavimento. Lo stesso R. disse di aver scoperto delle tracce di sangue sotto il piede che aveva provveduto a pulire a C., quella sera stessa del fatto, il che chiudeva il cerchio sulla provenienza della macchia di sangue.
Sulle cause della morte delle vittime, la corte territoriale osservava che Y. era stato ferito al collo, con un primo colpo, ma non in profondità e poi con un secondo fendente andato a segno, mentre il suo volto era tenuto fermo con la mano destra dell’aggressore: veniva ritenuto significativo il fatto che la stessa B., mancina, aveva mimato l’azione facendo appunto notare che con la destra aveva tenuto fermo il viso del piccolino e con la sinistra aveva affondato la lama del coltello.
Quanto alle dissertazioni fatte dai medici legali T. e V., la corte rilevava che nulla accreditasse che le macchie su cui è stata fondata la loro ricostruzione alternativa fossero di sangue e che il sangue fosse di C.R., così come era da escludere che la Ch. fosse stata uccisa nel suo appartamento.
Quanto alle prove scientifiche offerte dalla difesa, la Corte rilevava appunto che la Ch. fu colpita sicuramente sul pianerottolo dell’alloggio dei C. o sui primi gradini delle scale che portavano al piano superiore, in primis perchè su questo pianerottolo venne trovata la sua protesi dentaria e poi perchè vennero lasciate tracce di sangue sul muro a cui si appoggiò la donna, cercando di salire dopo i primi colpi che non furono mortali;
se la vittima fosse stata accoltellata nel suo soggiorno vi sarebbero stati molti più schizzi, non solo, ma le macchie indicate come da schizzo dal CT T., sono state invece ritenute da imbrattamento dal RIS. Ancora, andava esclusa una violenta colluttazione nel soggiorno dei F., poichè ove avvenuta, avrebbe lasciato molte tracce di disordine, laddove tutte le macchie rinvenute, il taglio della tenda, il cuscino presso il capo, il fazzoletto, le ciocche di capelli, il giaccone tagliato, si spiegavano con il tentativo disperato della vittima di salvarsi, salendo a casa sua e cercando di tamponare il sangue che sgorgava dalle varie ferite aggrappandosi alla tenda per rialzarsi, tanto è vero che la povera donna venne trovata inginocchiata, con il corpo raccolto, accasciata per il venire meno delle forze.
Il medico legale del resto, disse che la stessa morì per due concause, il trauma cranico ed il soffocamento da fumo, valutazione che si sposa con il fatto che la stessa venne ferita dalla B. che aveva meno forza del R.; significative sono le ferite alla schiena, inferte da chi la rincorreva, significativa fu la morte vicino alla finestra, a cui si accostò nel tentativo di aprirla, aggrappandosi alla tenda che strappò; in proposito veniva valorizzato il dato della coltellata alla teca cranica, colpo di grazia che R.O. disse di averle infetto.
In proposito quindi la Corte non riteneva di dover assumere altre testimonianze, ovvero di disporre perizia sulla tenda, nè di rinnovare il dibattimento per accertare i plurimi profili indicati dalla difesa, ritenuti superflui e quindi di mero appesantimento, sottolineando che la facoltà del giudice di appello di disporre la rinnovazione del dibattimento non è nella disponibilità delle parti, con il che andava ritenuta impropria la sollecitazione per l’esercizio di attività discrezionale.
Quanto infine alla pista alternativa, la corte rilevava che già in fase di indagini, i Carabinieri avevano esplorato altre piste, in particolare quelle collegate al M.A. ed alla sua famiglia, in ragione dei precedenti di quest’ultimo, non rinvenendo alcunchè di significativo.
Veniva evidenziata la genericità dell’indicazione della presenza di tre extracomunitari all’esterno della corte di via Diaz, indicata dai testi Ma. e ch.; veniva sottolineato che il contributo del testimone Ab. di aver sentito dei passi in casa C. verso le ore 18,30 non era significativo, perchè i rumori andavano riferiti all’alloggio attiguo a quello dei C..
Gli accertamenti condotti avevano portato ad escludere che il M.A. avesse conti in sospeso con ambienti della malavita e che la C.R. fosse mai stata seriamente minacciata, se vero è che l’unica denuncia l’aveva sporta contro i R., per un ossessivo pedinamento che costoro avevano posto in essere a suo danno.
Del tutto priva di solidità era stata giudicata la lettera inviata al Procuratore Generale di Milano da Ce.Ya., con cui questi riferì una sua personale convinzione sulla ragione dell’omicidio, a nulla rilevando che il menzionato abbia detto di sentirsi in pericolo, dovendo ricondursi la sua uscita a mero protagonismo.
Nè poteva ritenersi fondata l’ipotesi di una vendetta della malavita organizzata contro il tunisino M.A., laddove la malavita avrebbe usato ben altre armi, comportanti sicuramente minore fatica, per il raggiungimento del medesimo risultato.
2. Avverso la sentenza, interponevano ricorso per Cassazione i difensori dei due imputati, con due distinti, corposissimi atti, l’uno a firma del prof. Vincenzo Nico d’Ascola patrocinante di entrambi e l’altro a firma congiunta degli avv.ti Luisa Bordeaux del foro di Lecco, difensore di B. e Fabio Schembri, del foro di Milano, difensore del R..
2.1. Il ricorso di questi due ultimi difensori sviluppa ben 40 motivi di legittimità, all’esito di un’operazione di vivisezione della vicenda processuale, cosicchè ogni singolo passaggio del processo è stato ritenuto viziato, talora sotto più profili, da mancato rispetto delle norme processuali vigenti, ovvero perchè sulle doglianze avanzate nei precedenti gradi, sarebbe intervenuta sentenza carente di motivazione, su punti importanti, già additati dalla difesa in sede di merito e ritenuti trascurati in sede di motivazione.
E’ stato dedotto:
(1) mancanza di motivazione in relazione alla denunciata unidirezionalità delle indagini: secondo la difesa il luogotenente Ga. si sarebbe convinto, a prescindere, della colpevolezza dei due coniugi ed avrebbe pilotato le indagini, cosicchè quando fu mandato a sentire il F., sarebbe stato lui ad aver indirizzato il testimone a fare il nome del R.; non solo, ma proprio in ragione di questo pregiudizio, sarebbe stato sottovalutato il dato dei rumori sentiti nell’appartamento dei C. alle ore 18,30, sarebbero stati del tutto pretermessi i dati testimoniali riguardanti la presenza di tre soggetti stranieri nei pressi della corte in questione alle ore 20,20, sarebbe stato erroneamente ritenuto che la perquisizione sull’auto la fece il carabiniere Mo. e non l’onnipresente luogotenente Ga., ancorchè l’intervento del Mo. non risulti da alcun verbale.
(2) Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata valutazione delle conversazioni intercettate in senso liberatorio degli imputati, quindi mancata valutazione di prova di innocenza.
Le conversazioni intercettate o registrate, presso l’ospedale ove F. era ricoverato, sono da valutare in senso favorevole alla difesa, in quanto questi escluse che R.O. fosse stato l’aggressore. Si duole la difesa che all’acquisizione delle bobine (formalmente avvenuta con ordinanza 28.2.2008), non solo non sia seguita la trascrizione di quanto captato, ma che materialmente le bobine in primo grado non siano state disponibili; viene riportato il sunto di numerose conversazioni da cui era dato evincere l’assoluta tranquillità dei due imputati, – manifestata sia alle notizie diffuse dai telegiornali sullo stringimento del cerchio attorno agli assassini, sia a fronte dei commenti dei vicini e conoscenti sulla strage -, nonchè sunti di conversazioni occorse in auto tra i due, in cui si interrogavano sui possibili autori.
Ancora la difesa fa presente che la corte avrebbe ritenuto decaduta la parte dal proporre istanza di acquisizione di conversazioni del F. in ospedale, nel corso delle quali questi aveva detto di non poter dire nulla quanto all’identificazione dell’aggressore, ancorchè si tratti di atti irripetibili, ragion per cui le bobine andavano allegate ex art. 431 c.p.p. e la mancata allegazione avrebbe comportato una violazione del diritto di difesa con conseguente nullità del decreto che dispone il giudizio ed a cascata degli atti successivi, per violazione del diritto alla controprova, a seguito di parziale discovery.
(3) Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata valutazione della relazione del RIS ed al suo mancato deposito prima dell’udienza preliminare:
la difesa fa rilevare che i due imputati all’udienza preliminare ritrattarono la confessione, prima di conoscere l’esito degli accertamenti del RIS, esito sollecitato dal Pm, che secondo la difesa aveva una portata scagionante gli imputati (in quanto veniva concluso che i profili genetici relativi alle vittime venivano ottenuti da tracce acquisite sulla scena del crimine e quelli relativi agli indagati venivano ottenuti da tracce acquisite nel loro appartamento o nell’auto di loro disponibilità) e pur avendo alto valore scagionante, l’elaborato non fu messo a disposizione della difesa, con violazione dei suoi diritti. Non solo, ma la prova sarebbe stata travisata, in quanto nessuna traccia degli imputati sarebbe stata lasciata sul luogo del delitto.
(4) Vizio di motivazione, nonchè nullità delle ordinanze 2.4.2008 e 26.11.2008, con cui furono esclusi 70 testimoni indicati dalla difesa; la corte di Milano, ha ritenuto che nessuna delle testimonianze era sopravvenuta al giudizio di primo grado e che nessuna si appalesava necessaria per addivenire alla decisione. Ma poichè il primo grado sarebbe stato un simulacro di processo, sarebbe stata indispensabile l’integrazione istruttoria, anche perchè la serenità dei giudici era stata turbata dal desiderio dell’opinione pubblica del colpevole a tutti i costi. Quanto alle due ordinanze della corte comasca, la prima avrebbe liquidato 70 testi della difesa sulla base di un mero giudizio di superfluità, con l’altra, quella del 2 aprile 2008, furono richiamati i Consulenti tecnici dell’accusa, senza neppure metterli a confronto con i consulenti di parte T. e V.; poi venne acquisita la consulenza del dr. Va. che non fu sentito in dibattimento, poi venne sentito in aula un file audio relativo all’audizione di F. del 15.12.2006. Questa situazione avrebbe imposto alla corte d’appello di ripristinare i diritti della difesa violati in primo grado, essendo stata irragionevolmente negata l’ammissione delle prove proposte alla luce delle relazioni dei prof. Bo. – R. e Be. da un lato e del prof. St. dall’altro, che erano sopravvenute al dibattimento.
La prova pretermessa, secondo la difesa, era decisiva ed andava assunta ex art. 603 c.p.p., comma 3, non foss’altro perchè il dibattimento di primo grado era stato chiuso con l’audizione del Ct dell’accusa, senza confronto con quello della difesa, confronto che era stato richiesto, sia prima che dopo l’esame; la motivazione dell’ordinanza reiettiva dell’istanza di integrazione probatoria sarebbe di mera facciata, non comprendendosi – secondo la difesa – perchè mai non sia stato sentito il teste a discarico Ce.Ya., che scrisse una lettera nel corso del processo di appello e che prima ovviamente non poteva essere sentito, così come irragionevole fu la decisione di non risentire il M.A. ed i suoi familiari (che erano stati minacciati in Tunisia), con il che viene dedotta la nullità della sentenza, per immotivata non ammissione di prove rilevanti.
(5) Mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione e violazione di legge, in ordine alla valutazione delle prove concernenti le dichiarazioni di F.M..
Viene fatto notare che la corte territoriale ha trascurato che anche le dichiarazioni rese in sede di indagini dal F., erano state acquisite ex art. 431 c.p.p. con il consenso delle parti e che quindi anche con quelle ci si doveva confrontare; viene sottolineato che F. indicò come suo aggressore un soggetto di razza africana, da lui non conosciuto e tale versione mantenne in ripetuti colloqui, anche con il Pm e soprattutto con i figli, ragion per cui viene ipotizzato che il suo ricordo successivo sia stato inquinato dall’intervento del Carabiniere luogotenente Ga..
La difesa si duole del fatto che in primo grado, sia stato affermato che fin dal 15.12.2006, cioè fin dal primo esame che condusse il Pm, il F. abbia parlato del R., con la famosa frase "è stato R.O.", da interpretare invece con l’affermazione "è stato uscendo", interpretazione a cui la corte territoriale avrebbe aderito, giungendo però a conclusioni inaccettabili, laddove è stato scritto che quel che conta è la dichiarazione al dibattimento, trascurando che gli atti istruttori avevano identica valenza, essendo stati acquisiti.
Discostandosi dalla sentenza di primo grado, la corte avrebbe dovuto fornire una motivazione ancora più pregnante sotto il profilo della congruenza, non essendo stata data ragione plausibile sul perchè debbano essere ritenute più credibili le dichiarazioni postume, fornite a seguito di colloquio suggestivo con gli investigatori, che non quelle fornite nell’immediatezza ed in piena autonomia.
(6) Mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione, in ordine alla valutazione del colloquio investigativo intervenuto tra F. e Ga., in quanto il 20.12.2006, quest’ultimo ebbe ad operare un colloquio investigativo con il F. ed in detta sede il Carabiniere chiese al teste se conoscesse R.O. e se sarebbe stato in grado di riconoscerlo, ottenendo la risposta "penso di si"; dopo di che F. ripetè la descrizione del suo aggressore negli stessi termini delle volte precedenti, ma subito dopo gli venne formulata la domanda se poteva essere R.O. l’aggressore, il che contrasta con quanto affermato in sentenza e dichiarato dal Ga., secondo cui il nome di R.O. non venne fatto prima della descrizione dell’aggressore. Non solo, ma risulta che il 20 dicembre 2006, il F. venne lasciato a meditare sul nome di R.O., il che significa che tra l’assunto di non conoscere l’aggressore e la indicazione del R.O. avvenuta il 26.12.2006, l’evento che inquinò la memoria è proprio l’intervento del menzionato inquirente. Viene quindi rilevato che erroneamente la sentenza fa risalire l’indicazione del R. all’incontro del 20 dicembre, laddove in detta sede il F. si era ancora una volta manifestato perplesso sull’indicazione dell’imputato.
(7) Mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata valutazione in termini di non genuinità delle dichiarazioni rese dal F. dopo il 20.12.2006, essendo stato sottovalutato che il F. subì un’interferenza esterna, una suggestione, laddove invece alle iniziali dichiarazioni andava riconosciuto il maggior tasso di genuinità, come sostenuto nella Ct del prof. St., del tutto sottovalutata, secondo cui poichè F. ancora sul pianerottolo di casa C. ebbe a segnalare la presenza della moglie al piano di sopra, si deve ritenere che fosse pienamente lucido e che i suoi ricordi immediati siano affidabili, laddove invece la sollecitazione su esercizi di immaginazione su R.O. avrebbero costituito una potente arma di falsificazione del ricordo.
Quindi la testimonianza di F., secondo il prof. St., va usata con molta cautela, ma sul punto la sentenza avrebbe omesso di motivare.
(8) Nullità o inutilizzabilità delle dichiarazioni di F. rese il 20.12.2006, per il carattere indotto delle dichiarazioni e quindi per nullità ex artt. 188 e 191 c.p.p. ed omessa motivazione sul punto.
Il carattere indotto delle dichiarazioni comporta, secondo la difesa, la violazione del diritto di difesa degli imputati e del contraddittorio nella formazione della prova: si giunge addirittura a parlare di surrettizia compressione della libertà morale del testimone e di indebita alterazione della naturale condizione di costui di ricordare e valutare i fatti, con conseguente sanzione di inutilizzabilità della prova e conseguente travolgimento anche della prova dibattimentale.
(9) Nullità ed inutilizzabilità in relazione all’art. 500 c.p.p. delle dichiarazioni di F.M., per non avere consentito alla difesa le contestazioni.
La corte avrebbe omesso di pronunciarsi sulla validità ed utilizzabilità delle dichiarazioni dibattimentali del testimone menzionato; in data 26.2.2008 sarebbe stato precluso alla difesa di contestare quanto il teste aveva riferito al pm il 15.12.2006 e quanto emerso nel corso del colloquio con il Lgt. Ga., in quanto il Presidente non avrebbe consentito la contestazione sulla trascrizione operata dalla difesa; si sarebbe quindi concretizzata una nullità delle dichiarazioni rese in dibattimento dal testimone e sul punto la corte d’appello avrebbe omesso la motivazione.
(10) mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in ordine alle annotazioni sulla Bibbia del R., riguardanti il F. e mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in ordine alla omessa valutazione della macchia di sangue che comproverebbe che F. fu colpito sulle scale: vi sarebbero appunti trascurati, in cui il R. rivendica la sua innocenza e si ripete che cosa possa aver visto F., aggiungendo che lo stesso ha paura e che è stato pagato per fare il suo nome.
Ancora la difesa sostiene che manca la motivazione sulla presenza di macchia di sangue da schizzo repertata dal RIS di Roma e analizzata dai CCTT T. e V., che certificherebbe come il menzionato sia stato colpito alla gola, sui gradini delle scale, mentre era in piedi e ciò starebbe a significare che il teste non ricorda la dinamica dell’aggressione e che sulla versione del F. (letta negli atti) si impostò la falsa confessione del R..
(11) Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione e comunque mancata assunzione e valutazione di prova decisiva quanto alle intercettazioni presso l’ospedale, ove era degente F.: la genuinità del primitivo ricordo del teste sarebbe dimostrata altresì dal fatto che sia il 22.12.2009, parlando con il suo avvocato, che il 24.12.2006, parlando con i figli, F. confermava di non avere nulla da dire.
(12) Omessa valutazione, inosservanza di norme processuali e mancata valutazione di prova di innocenza con riferimento al rischio di contaminazione della vettura degli imputati, da parte dei carabinieri che erano stati sulla scena del crimine, quanto alla presunta macchia che si assunse essere stata individuata sul battitacco della vettura.
Quanto al carattere dubbio, incerto ed ambiguo della traccia non vi sarebbe adeguata motivazione.
Il prof. T. aveva dato atto di un elevato rischio di contaminazioni ad opera degli stessi imputati, che la sera stessa ed i giorni seguenti avevano avuto accesso alla zona della corte:
sarebbe stata omessa la valutazione sul dato scientifico del rischio contaminazione e del dato obiettivo dei plurimi accessi dei carabinieri sull’auto.
(13) Mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in ordine alla non ritenuta inverosimiglianza delle dichiarazioni dei carabinieri che perquisirono l’auto, a smentita di quanto emergente dagli atti sulla presunta traccia. In particolare, la difesa rileva che tutti coloro che dal verbale risultano autori della perquisizione sull’auto, avrebbero smentito di avervi partecipato, riferendo che fu tale Mo., il cui nominativo non appare sul verbale, ad averla operata. Il mar. N. che sarebbe stato incaricato dal Ga. dell’atto, disse di aver effettuato una sola ispezione visiva, senza entrare nell’auto e la stessa realtà la rappresentò il mar. ca., laddove invece il Mo. disse di avere provveduto a collocare le cimici all’interno dell’auto dei R..
La difesa fa rilevare come sia singolare che tutti gli operanti interpellati si siano tenuti lontani dall’atto di perquisizione sull’auto, anche se risultava la loro firma apposta sul verbale;
viene poi aggiunto che non fu valutato che dalla notte dell’ll.12.2006 al pomeriggio del giorno seguente, l’auto non risultò nella disponibilità dei coniugi imputati, che furono convocati in caserma.
(14) Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla assunta purezza della traccia: il prof. T. che esaminò la traccia disse che ben poteva derivare dalla contaminazione ambientale e non vi era prova che fosse stata trasportata da chi aveva commesso il fatto, avendosi riguardo a traccia esaltata tramite luminol, non apprezzabile ad occhio nudo, il che portava a ritenere che si trattasse di traccia dispersa, dato che apre all’eventualità che il trasferimento del DNA sia avvenuto per contatto. Non solo, ma sempre dal prof. T., fu messa in crisi la bontà della traccia, atteso che un buon profilo genetico necessario per effettuare le analisi si ricava da dieci cellule che sono 170 picogrammi, il che doveva mettere in guardia sulla decisività del dato acquisito con caratteristiche di scarsa affidabilità. E del resto che la traccia fosse degradata emerse anche dal fatto che si dovette procedere col luminol per rilevarla, lo stesso CT dell’accusa interrogato in dibattimento, non ha escluso che la traccia potesse avere derivazione da contaminazione, poichè nessuno sa come detta traccia sia stata deposta. Questa situazione di dubbio echeggiata anche nelle parole del Ct del pm avrebbe dovuto portare a ritenere la prova posta a base della condanna meramente congetturale.
(15) Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione rispetto a quella resa in primo grado, laddove la sentenza impugnata tenta di ricostruire la presunta traccia, quale elemento di responsabilità: la sentenza non spiegherebbe come il R. possa aver lasciato la traccia, laddove nella sentenza di primo grado era stato scritto che R.O. aveva perso la goccia dai capelli, mentre in secondo grado si disse che era stata portata dalla scarpa.
Ma quanto sostenuto nella sentenza di secondo grado, incompatibile con quanto ritenuto in prime cure, sarebbe illogico, perchè R. disse di essersi cambiato le scarpe e ribadì che la goccia la perse dai capelli, poichè alle macchie rinvenute sotto le calze e sotto i pantaloni pose rimedio con la sostituzione dei vestiti.
(16) Nullità ed inutilizzabilità dell’accertamento effettuato sull’auto del R., con conseguente manifesta illogicità del vizio di motivazione: sull’eccezione che al momento del rilievo della traccia, il R. era stato senza difesa, la corte obiettò che a quel momento il R. non era ancora indagato, ma la motivazione non sarebbe accettabile, poichè non era un caso che gli investigatori stessero accertando l’esistenza di tracce delle vittime sulla sua auto, il che conclama che era indagato, ancorchè formalmente fu iscritto solo successivamente; certo è che il 29 dicembre, quando R. era indagato, il Ct del Pm operò le prime analisi sul reperto, la loro suddivisione ed i primi rilievi, la difesa degli imputati fu avvisata solo il 10 gennaio 2007, per le attività successive, con violazione del contraddittorio.
(17) Manifesta illogicità della motivazione, per il contrasto insanabile tra quanto deciso in primo ed in secondo grado, relativamente al fatto che errori e inverosimiglianza delle dichiarazioni confessorie fossero strumentali alla ritrattazione:
la sentenza di primo grado disse che le dichiarazioni confessorie dei due erano particolareggiate e veritiere, la sentenza di secondo grado giunse allo stesso risultato in termini di riconoscimento della forza probante della confessione, ammettendo però inverosimiglianze, falsità e inesattezze.
A fronte della dimostrata non genuinità delle confessioni, la corte territoriale avrebbe congetturato che i due avevano confessato particolari non veri per potersi lasciare aperta la strada della ritrattazione. Ma secondo la difesa, l’esperienza giudiziaria non consente congetture di questo tipo, tanto da escludere che persone innocenti possano confessare.
(18) Omessa motivazione ed inosservanza di norme processuali quanto alle prove da cui emergeva il carattere indotto delle dichiarazioni, con conseguente vizio di motivazione: sarebbero state travisate le prove conclamanti l’induzione a confessare crimini mai commessi.
Vengono elencati vari interventi diretti a premere sui due coniugi facenti leva sulla concessione di attenuanti, su sconti di pena, su più favorevoli condizioni carcerarie, sul non allontanamento dell’uno dall’altra, sulla prospettata immediata scarcerazione in caso di confessione. Ed in proposito la difesa annota gli incontri nell’ambito dei quali sarebbero state fatte balenare false aspettative e nell’ambito dei quali ciascuno dei due ammetteva di voler confessare per aiutare l’altro dalla morte civile.
Quanto all’incontro dei carabinieri ca. e F. del giorno 8.1.2006, veniva fatto rilevare che l’incontro era finalizzato a prelevare le impronte, in realtà durò più ore; lo stesso F. disse che nel corso di questo incontro il R. continuava a ripetere che la moglie era innocente, dopo di che disse di volersi liberare la coscienza, ma il magistrato arrivò dopo che tra il maresciallo ed il R. la strage era stata ampiamente commentata, contro ogni disposizione di legge.
Sarebbe stata fatta balenare una promessa di trattamento favorevole, a dispetto di reati gravissimi, falsa prospettazione questa, ritenuta devastante dalla difesa; R. nel passaggio di interrogatorio avanti al pm prima di decidersi se parlare o no, disse chiaramente che l’unica cosa che gli interessava era di vedere la moglie.
Nel colloquio che sarà concesso al R. con la moglie non si ricavò nulla di significativo in termini accusatori, poichè la B. continuava a dire che non c’entravano niente e R. continuava a sostenere che era meglio confessare, prendersi i benefici e andarsene a casa, il che significa che egli sconfessò la confessione, prima ancora di renderla. Non solo, ma la B. a sua volta, avrebbe deliberato di confessare per evitare che il marito si autoaccusasse di un crimine non commesso, come risulta dalla intercettazione ambientale del colloquio intercorso tra la B. ed il secondino, quando il R. era sotto interrogatorio dei Pubblici Ministeri.
Vengono stranamente intervallati ai richiami agli atti giudiziari, i richiami a stralci tratti dal libro del Co. che per quanto acquisito su istanza della difesa, non ha dignità di atto processuale e a questi richiami non può esser fatto riferimento.
Ciò detto, la difesa sottolinea che le dichiarazioni confessorie sarebbero state rese quando vigeva il divieto di incontro con l’avvocato e comunque nella falsa prospettazione di avere incontri frequenti e di essere addirittura collocati in una cella comunicante.
(19) Nullità ed inutilizzabilità delle confessioni per violazione art. 191 c.p.p., art. 64 c.p.p., comma 2 e art. 188 c.p.p..
Le confessioni si sarebbero formate in un contraddittorio fittizio ed alterato, si sarebbero verificati plurimi profili di interferenze esterne, con la componente dell’inganno, che avrebbero limitato la libertà morale dei due: trattasi di confessioni non libere e quindi rese in violazione dell’art. 64 c.p.p., comma 2, con snaturamento della funzione primaria dell’interrogatorio che è uno strumento di difesa.
La coartazione della libera autodeterminazione degli imputati, sottesa alle loro dichiarazioni confessorie, di cui viene chiesta la inutilizzabilità, non integra solamente violazione di norme procedurali (tra cui anche l’art. 188 c.p.p.) ed i principi costituzionali, ma anche i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
(20) Vizio di motivazione sulle falsità, errori e non ricordo di cui sono costellate le confessioni dei due imputati, che sarebbero state superate dalla corte d’appello, con il richiamo, peraltro neppure completo, delle annotazioni fatte dal R. sulla sua Bibbia.
La difesa elenca e quantifica i numerosi "non so" e "non ricordo" di R.O. ed insiste nel fare rilevare come quella che era stata definita una confessione dettagliatissima dal primo giudice, sia di fatto un’accozzaglia di errori, invenzioni, omissioni.
L’insieme degli errori, che secondo la difesa sarebbero ben 243, si spiega solo con il fatto che la confessione fu sconfessata prima ancora di essere resa dal R..
Quanto alla B., ripetutamente venne fermata dagli investigatori, perchè le sue dichiarazioni sconfinavano nel paradosso, avendo fornito un narrato inverosimile e dimostrato di non sapere riferire in ordine a passaggi cruciali per la ricostruzione.
(21) Vizio di motivazione sulla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni degli imputati.
I due si sono autoaccusati, ognuno per difendere l’altro; quanto al R., ebbe a confessare perchè indotto dall’investigatore, tanto è vero che egli non solo non ricordò come venne ucciso il bambino, ma neppure ricordò le modalità di aggressione del F.; non sarebbe vero che egli abbia negato particolari per evitare di addossarsi la premeditazione, poichè in altri passaggi disse di aver tenuto d’occhio le vittime, di avere preparato gli strumenti per il delitto, non negò che il flusso di energia elettrica fosse stato interrotto, ma negò di esser stato lui ad averlo fatto.
Egli praticamente avrebbe omesso i particolari che non emergono dalle fotografie, segno di una assoluta carenza di genuinità.
Quanto alla B., la sua rappresentazione fu del tutto isterica, improvvisata, tanto che il pm più volte la richiamò alla ricomposizione dei ricordi: la stessa non sembrò conoscere i fatti, le dovettero leggere le dichiarazioni del marito, visto che non sapeva che l’incendio era stato appiccato nel soggiorno, non sapeva che nella camera del bimbo l’incendio era stato appiccato in un cestino di giochi, non sapeva spiegare come i coniugi F. erano comparsi sul pianerottolo, se ci fosse lei o R.O. davanti, negava che la Ch. fosse stata colpita nel suo alloggio, fantasticò di aver aggredito lei entrambi i coniugi F., non sapeva spiegare come avvenne l’aggressione alla Ch..
Illogica sarebbe la versione secondo cui C.R. le avrebbe morsicato il dito, circostanza questa offerta a giustificazione della ferita che portava al dito la sera del fatto, laddove i morsi sono smentiti dalla relazione a firma Ga..
(22) Mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione sui presunti riscontri alle confessioni: la sentenza ha elencato sette particolari che sarebbero stati patrimonio conoscitivo solo degli assassini. Ma il fatto che C.R. quella sera avesse usato l’auto del padre e non quella della madre, era particolare noto a tutti, perchè diffuso dai giornali; così dicasi della posizione terminale delle vittime, dettagliatamente descritte dai giornali e così ancora quanto ai punti di innesco del fuoco, ricavabili dalle fotografie che furono loro mostrate, tanto più che entrambi non seppero spiegare la presenza di acceleranti.
Quanto ai cuscini, dice la difesa, che era impossibile che questi siano stati utilizzati per soffocare le vittime, poichè sui cuscini non vi sarebbero tracce ematiche, il che comprova che non furono appoggiati ai visi delle due donne che grondavano sangue, ma verosimilmente furono usati nella prima fase dell’aggressione per soffocare le urla; quanto poi all’aggressione alla Ch., entrambi gli imputati avevano detto che il tutto si era esaurito sul pianerottolo, laddove la difesa ha dimostrato che la donna invece morì nel suo appartamento, come poi è stato ritenuto anche dall’accusa.
(23) Omessa motivazione sulle dichiarazioni di innocenza dei due imputati: sia la sentenza di primo, che quella di secondo grado avrebbero omesso di motivare sulle proteste di innocenza dei due imputati, protesta di innocenza che andava colta dapprima nella conversazione che intervenne tra i due, subito dopo l’arresto e poi in sede di ritrattazione delle confessioni, ritrattazioni a detta della difesa genuina, perchè fin dall’inizio il R. aveva detto testuale: "o rinuncio a dire la verità o riconfermo quello che ho detto fino all’altro giorno".
(24) Omessa motivazione sulle prove scientifiche che attestano l’innocenza dei coniugi.
Sul luogo del delitto sarebbero state rinvenute impronte di chi commise il delitto, ma tali impronte non sono riferibili ai due imputati.
Presso la casa degli imputati, fatta oggetto di sopralluogo il 12.12.2006, non venne rinvenuta traccia di sangue delle vittime e questo, come hanno spiegato i CCTT T. e V., è segno di estraneità, così come significativa di estraneità è la mancanza di tracce nel percorso dalla casa all’auto, attraversando la corte, che i due fecero per allontanarsi verso C..
Il Col. g. ha parlato di accertamento negativo condotto con il luminol nella casa dei due imputati, ricordando che il luminol è sostanza che evidenzia tracce di sangue anche dopo la lavatura, provocando una reazione di ossido riduzione, nel senso che si ossida in presenza del ferro dell’emoglobina e dell’acqua ossigenata. La difesa poi sostiene che poichè una traccia di sangue della Ch. venne rinvenuta nell’alloggio C., l’assassino, dopo aver eliminato la donna, si sarebbe dato alla fuga attraverso l’alloggio della C.. Una macchia da schizzo del sangue di F. venne trovata sul muro della rampa che portava al terzo piano, il che smentisce l’assunto che F. sia stato colpito al collo all’interno di casa sua, versione su cui si sarebbe appiattito, dopo aver letto il dato nel verbale di fermo, il R..
(25) Vizio di motivazione della sentenza quanto alla valutazione degli appunti di R. rinvenuti sulla Bibbia. Sarebbero state esaminate solo alcune e non tutte le annotazioni. Ad es., a pag. 343 della Bibbia, risulta che R. fece un analitico "report" della sera del fatto, iniziando col dire che lui e B.R. uscirono verso le ore 20 per andare a Como; poi descrisse che erano passati dalla disperazione alla confusione, dopo le pressioni dei giornalisti, ma soprattutto dei carabinieri che arrivavano come se quella fosse stata la loro casa. Quindi ancora vergò con la sua mano la nota secondo cui quando confessarono mirarono ad essere uniti nella stessa cella, che quella condotta processuale sembrava la scelta migliore, ma non si resero conto di cosa stessero facendo.
Ebbe parole dure con gli investigatori, paragonati agli avvoltoi, a cui non interessava la verità, ma solo di fare in fretta. E così ancora la difesa evidenzia altri passaggi, in cui R. fece riferimento alla moglie B.R. reclusa per amore, alla comparsa in sogno di sorella Ro. che gli indicò la strada da seguire, alla psicologa che gli aprì gli occhi.
Infine, vengono sottolineati i passi in cui R.O. rivendica la sua estraneità ai fatti, richiama i dubbi che gli tengono compagnia e le molte domande senza risposta, si definisce con B. R. il capro espiatorio, si impone di non pagare per quanto non ha commesso, commenta la pochezza del materiale probatorio a suo carico, chiedendosi chi abbia potuto vedere F. e chi abbia potuto mettere la traccia sulla sua auto. Le indicazioni manoscritte sulla Bibbia proverebbero l’innocenza dei due, contrariamente a quanto sostenuto in sentenza. Viene poi rilevato che nella lettera inviata a don Ba. egli scrisse che lui e B.R. non hanno peccati terreni da espiare e pagheranno per quelli degli altri e che tale passaggio è stato omesso in sentenza, ancorchè abbia un indubbio significato difensivo.
(26) Inutilizzabilità e nullità delle presunte confessioni dei due imputati: la mattina del 10 gennaio 2007, i due imputati a cui era stato fatto divieto di colloquio con il difensore, di fatto ebbero contatti con i carabinieri, uno dei quali neppure autorizzato ad entrare in carcere; gli interrogatori che seguirono subirono diverse pause, si sovrapposero, anche perchè il difensore era unico e quindi insorsero profili di incompatibilità.
(27) Inutilizzabilità e nullità delle presunte confessioni degli imputati perchè il comune difensore si sarebbe trovato in condizioni di incompatibilità e vizio di motivazione sul punto. Si sarebbe verificato un caso di incompatibilità poichè il difensore si sarebbe trovato a difendere R.O. che protestava la sua innocenza, mentre contemporaneamente l’altra sua assistita, la B., confessava e chiamava in correità il marito.
Quindi il difensore si sarebbe trovato nella situazione di palese conflitto che ha reso impossibile svolgere le tesi difensive, tra loro logicamente inconciliabili. Lo stesso difensore riferì alla B. che il R. aveva detto quello che per lui era la verità, con il che egli si veniva a trovare in difficoltà con lei.
Di qui la censura di violazione dell’art. 106 c.p.p..
(28) Inutilizzabilità e nullità delle presunte confessioni, in quanto erano stati impediti i colloqui con il difensore, fino a che non si dichiararono responsabili. Già il gip aveva dichiarato nulli gli interrogatori del giorno 8.1.2007, successivi alle ore 13,40 ed in data 10.1.2007 prima fase, poichè dopo la prima fase, gli indagati furono messi in condizione di parlare con il difensore.
La difesa sottolinea che contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, il R. aveva chiesto più volte di parlare con il suo difensore, il difensore non poteva sapere che il divieto era venuto meno, poichè il divieto era stato mantenuto fino all’udienza davanti al gip che si tenne il 12.1.2007 ed era stato il gip, all’esito di detta udienza, che lo aveva revocato. L’intervento del pm di dilatazione del divieto non era corretto, poichè medio tempore gli atti erano passati al gip che diventava competente. Il vizio sopravvenuto del provvedimento di differimento si riverbera sull’atto successivo ex art. 185 c.p.p..
(29) Inutilizzabilità e nullità delle presunte confessioni degli imputati, poichè tra le ore 16 e le ore 16,30 entrambi i coniugi vennero sottoposti ad interrogatorio, pur essendo il difensore comune, perchè gli interrogatori non indicano gli orari di interruzione e ripresa. La sentenza afferma che si trattò di errore materiale nella verbalizzazione, ma il ragionamento non troverebbe riscontro ed inoltre la contemporaneità dei due interrogatori vale a significare che uno dei due risultava privo di difesa.
(30) Inutilizzabilità e nullità delle presunte confessioni degli imputati per violazione art. 199 c.p.p.., poichè nessuno dei due fu avvertito della facoltà di potersi astenere in qualsiasi fase del procedimento, ritenendo la difesa che la ratio di tutelare il vincolo familiare valga anche per gli imputati.
(31) Manifesta illogicità della motivazione, in relazione alla dichiarazione di colpevolezza della B. per violazione art. 192 c.p.p..
Secondo la difesa, la corte territoriale ha fondato il giudizio di colpevolezza della donna sulla chiamata in correità del R., supportato dalla confessione dell’imputata e da altri elementi individualizzanti, quali il fatto che abbiano sempre operato insieme, il fatto che per commettere quella mattanza bisognava essere almeno in due, la circostanza che fuggirono insieme a Como per crearsi un alibi, il dato che si consultarono prima di decidere di confessare.
Tale complesso di elementi non sarebbe sufficiente per la difesa, a supportare una chiamata in correità che ebbe a subire influenze e condizionamenti.
Le risultanze avrebbero dimostrato una circolarità delle indicazioni, nel senso che si registrò un progressivo adattamento delle dichiarazioni dell’una rispetto all’altro e che tale adeguamento venne raggiunto a seguito di lettura delle dichiarazioni del R. alla B..
Quindi errano i giudici di merito nel parlare di convergenza, così come viziata sarebbe la motivazione sui pretesi elementi di riscontro alle dichiarazioni, elementi che non solo non hanno carattere esterno, ma si esauriscono nell’ambito dello stesso elemento dichiarativo. Non sarebbe neppure significativo il dato che B. R. è mancina, poichè il colpo fatale al F. fu dato da mano sinistra, che non era pacificamente quella della B..
Pertanto la difesa ritiene che sulla B. si sia operata una sorta di trasposizione degli elementi asseritamente ritenuti probanti a carico del R..
Viene fatto rilevare che il pm quando procedette al di lei interrogatorio le disse che a suo carico vi erano le dichiarazioni del F. (che riguardavano il marito poichè mai ebbe a parlare della B., se non al dibattimento) e la traccia sull’auto (ancora del marito, posto che lei mai ebbe a guidare, perchè sprovvista di patente).
Il fatto che il F. abbia indicato la B. solo in sede dibattimentale, prova poco, trattandosi di indicazione sopravvenuta a notevole distanza dai fatti e dalle prime dichiarazioni e perchè geneticamente affetta da incertezza assoluta. Aspecifico e non individualizzante sarebbe poi il riscontro della presenza di ferita fresca ad un dito, visto che la B. fornì plausibile spiegazione avendo detto di essersela procurata nell’esercizio di lavori domestici e di essere ancora fresca la ferita per il continuo utilizzo delle mani nell’acqua. Viceversa la versione fornita in sede di confessione sull’essere la ferita frutto di un morso di C. R. è stata destituita di fondamento, essendo incompatibile una ferita così lieve con la ferocità degli accadimenti.
In sostanza, la difesa lamenta che sia stata evocata una responsabilità in forma concorsuale, senza una precisa individuazione del contributo che ciascun concorrente avrebbe arrecato alla realizzazione comune della fattispecie tipica.
(32) Vizio di motivazione sulle cause della morte delle vittime:
secondo la difesa la sentenza impugnata non avrebbe affrontato le censure sollevate al riguardo.
Viene rilevato che la B. operò una descrizione dell’eccidio ricavata in tutto e per tutto dal capo di imputazione e da quanto avevano scritto i giornali. Non solo, ma viene ribadito che fu la stessa B. nel corso dell’interrogatorio ad aver detto di aver già spiegato al signore lì fuori (ai carabinieri), come erano andati i fatti, il che mina la genuinità del racconto. Non solo, in sentenza è stato scritto che le due consulenze d’ufficio e di parte convergevano sulle modalità di aggressione del bambino, laddove invece sarebbero incompatibili. Quanto all’omicidio di C. R., la difesa evidenzia che erano state rilevate dai CCTT di parte tracce di sangue sulla porta interna di casa C., elemento che valorizzava l’ipotesi che l’aggressione avvenne ad opera di soggetto che già si trovava all’interno della casa e non si interponeva tra vittima e porta, dato che non sarebbe stato colto nella sentenza. Ancora, la sentenza pretende di confermare il fatto che la Ch. non sia stata inseguita nel suo appartamento, con la dichiarazione del F., laddove questi disse di non aver potuto vedere niente, perchè era buio e di aver solo sentito la moglie urlare almeno quindici volte "No".
(33) Mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in ordine alla dinamica dell’aggressione della Ch. e vizio di mancata assunzione di prova decisiva.
Secondo la difesa, nella sentenza impugnata si è escluso che la Ch. sia stata inseguita fino in casa, trascurando del tutto una serie di dati scientifici e di dichiarazioni testimoniali deponenti in senso contrario. Intanto anche il RIS ebbe a rilevare macchie di sangue da schizzo all’interno dell’alloggio dei F. e non solo da imbrattamento; viene poi sostenuto che il dato del disordine nell’appartamento dei F. non particolarmente significativo, non può essere un dato probante come è stato ritenuto in sentenza. I dati tecnico scientifici, secondo la difesa, sarebbero tali da sconfessare le dichiarazioni autoaccusatorie dei due imputati e quindi sarebbero idonei a comprovare la loro innocenza. Viene ricordato che il dott. Sc., Ct medico legale del Pm, a seguito di autopsia, concluse in via preliminare che la morte della Ch. era intervenuta per trauma cranico encefalico, cosicchè su questa base venne elaborato il capo di imputazione che lasciava intendere che la donna colpita sul pianerottolo, sia stata inseguita fino al suo appartamento, dove fu colpita da otto colpi di corpo contundente che le fratturarono il cranio. Nella relazione conclusiva però, quella del 7.2.2007, il dr. Sc. concludeva asserendo che la Ch. sarebbe stata inseguita sino all’altezza del suo appartamento e ivi finita, laddove il cambiamento di opinione sarebbe da ricondurre, secondo la difesa, al condizionamento delle versioni dei due coniugi.
I consulenti della difesa ebbero a evidenziare che il cadavere della Ch. aveva vicino una pozza di sangue, che poco di questo sangue venne invece trovato sulle scale, rispetto alle ferite riportate, che non venne trovato sangue nello stomaco e che poco sangue venne trovato sui vestiti: tale realtà dimostrava che se le vistose ferite fossero state infette sul pianerottolo, il sangue disperso sarebbe stato di più e la donna avrebbe deglutito sangue nello stomaco. Veniva poi fatto rilevare che la posizione terminale della donna risultava genuflessa, con le mani al volto, era espressione di in un estremo tentativo di difendersi dai colpi; è stato evidenziato che il giaccone della donna fu trovato dietro il cadavere, che lo stesso risultava tagliato ma non in corrispondenza delle parti del corpo attinte, il che significa che ad un certo punto la vittima se lo sfilò e che le ferite più pesanti furono infette quando la donna non lo indossava più.
Veniva segnalato che una ciocca di capelli fu trovata attaccata alla tenda e secondo il prof. T. ciò significa eh lì avvenne il trauma, essendosi staccati i capelli, a seguito dell’evento traumatico.
Ancora, veniva rilevato che una tenda del salotto di casa F. presentava un vistoso segno di coltellata, a riprova che la donna fu colpita in casa e che sulla tenda vi erano macchie da schizzo.
Il fatto che la donna sia stata colpita mortalmente in casa stride con le dichiarazioni degli imputati, travolgendo l’ipotesi accusatola; sul punto i giudici di merito avrebbero cercato di contenere la deflagranza del dato, formulando mere congetture.
(34) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto ai colpi alla testa ed alla gola inferti alla Ch..
I testimoni b. e ba. che avevano dato l’allarme, dissero di aver sentito richieste di aiuto, ma di essere stati ostacolati nell’intervenire a causa del fumo; lo stesso F. disse di aver sentito la moglie chiedere aiuto, per cui si chiede la difesa come potesse una donna con il cranio sfondato e sgozzata chiedere aiuto; assume che mentre venne portato fuori il corpo del F., l’assassino completò l’opera e se ne fuggì, magari dal terrazzo di casa C., dato che spiegherebbe perchè il sangue della Ch., ultima ad essere stata uccisa, sia stato trovato in casa C.. Nessuna motivazione sul punto è rinvenibile in sentenza. Inoltre la corte avrebbe dovuto maggiormente apprezzare quanto riferito dal teste ch., laddove questi aveva riferito di aver visto tre individui all’ora della strage, di avere sentito richieste di aiuto, di aver sentito la parola benzina, pronunciata da uno di questi soggetti extracomunitari, dichiarazioni che in buona parte collimavano con quanto riferito dal teste Ma.Fa..
(35) Vizio di motivazione in relazione alle ed. piste alternative, anche in relazione all’omessa motivazione. La strage, secondo la difesa, poteva trovare giustificazione negli illeciti traffici dell’ A. che aveva avuto periodi di carcerazione, che aveva subito minacce dalla malavita.
Ad opinione della difesa, le dichiarazioni del ch. e di Ma. non erano generiche, come divisato dalla corte di merito, ma accreditavano un quadro di tre soggetti che non si trovavano nei pressi della corte per caso, ma addirittura parlavano tra loro di benzina e che indossavano un cappotto lungo con cui avrebbero potuto celare eventuali tracce. Andava valutato ancora che la sera del fatto i vicini siriani delle vittime dissero di aver colto dei passi al piano superiore ove abitava C.R., verso le ore 18,30, rumore di passi a cui era seguito il rumore dell’aggressione, il che portava ad escludere che fossero i R., che non avevano le chiavi della casa dei C., ma il dato venne forzatamente ridimensionato, attribuendo i rumori a Ra.Li., che peraltro andò a trovare il padre nella fascia oraria 18,50/19,10; venne poi dimenticato che vi erano numerosi soggetti, coinvolti in indagini per commercio di stupefacente che risultavano domiciliare presso C.R..
Non poteva portare a valutazione diversa, il fatto che R. conosceva dove fossero i contatori, visto che questi erano sulla pubblica via e quindi il dato di conoscenza non era patrimonio esclusivo dell’imputato.
Secondo quindi la difesa, gli aggressori furono presenti in casa C. al sopraggiungere delle vittime, il che darebbe anche ragione del fatto che venne rinvenuta traccia di sangue all’interno della porta di ingresso e porterebbe ad escludere che l’aggressore sia sopraggiunto alle vittime, poichè in questo caso il suo corpo avrebbe interferito impedendo agli schizzi di raggiungere la porta.
Non solo, ma schizzi ne furono trovati anche sull’armadio della stanza di C.R., il che significa che una parte dell’azione si compì in detta stanza, a confutazione di quanto raccontato dagli imputati. La corte poi avrebbe depotenziato l’ipotesi di una vendetta trasversale sul presupposto che questo tipo di risposta avviene quando non si può puntare direttamente al bersaglio, che nel caso di specie era A., che era facilmente rintracciabile.
In realtà era risultato che C.R. era stata vittima di minacce, che erano state denunciate – contrariamente a quanto assunto dalla corte milanese – alla direzione del carcere, ove era ristretto l’ A..
Non solo, ma secondo la difesa, sono state indebitamente tagliate le liste testimoniali della difesa per accreditare che alla famiglia di A., in Tunisia, erano pervenute indicazioni sul fatto che i due imputati non erano colpevoli, perchè altri erano autori del reato, tanto che dal carcere ove era ristretto M.A. era stato inviato un fax con cui veniva riferito che molti detenuti avevano manifestato dubbi sulla ricostruzione operata dagli inquirenti, alla luce delle confidenze ricevute dal M.A.. Non poteva essere sottovalutato che quest’ultimo avesse paura a parlare direttamente di questa realtà. Non solo, ma la Corte non ebbe neppure a dare seguito alla richiesta di audizione di Ce.Ya., secondo cui i due imputati erano innocenti, sul semplice presupposto, del tutto gratuito, che il soggetto era solo alla ricerca di notorietà.
Non doveva essere trascurato che il M.A., detenuto dal 15.4.2005, aveva manifestato più volte di essere minacciato in carcere, aveva chiesto di essere trasferito ed era stato accontentato proprio perchè fondata era stata ritenuta la sua richiesta e che nel contempo C.R. aveva subito minacce dal dicembre 2005, minacce confermate anche dalla teste Va.Ma.In. e da Ca.Ma. e di cui aveva parlato con la direttrice del carcere di Como.
Veniva ancora rimarcato dalla difesa, che M.A. mentre era in corso il dibattimento era stato nuovamente arrestato per traffico di stupefacente, che era stata portata avanti anche un’indagine parallela, da cui era emerso che molti soggetti avevano le chiavi di casa C. e che si recavano presso detta abitazione anche in assenza di quest’ultima; non solo dalla ordinanza di custodia cautelare del M.A. emergeva che questi aveva pendente un’acerrima contesa con il cugino Ab.Ha. e che i due si erano giurata reciproca vendetta, ma tali spunti non venivano raccolti dai giudici di merito.
La corte comasca a cui perveniva un fax del M.A., con cui manifestava dubbi sulla ricostruzione a seguito di intervento di soggetto presso la sua famiglia in Tunisia, al momento di entrare in camera di consiglio, disponeva l’audizione del medesimo che però non forniva dettagli ulteriori; cionondimeno venivano disattese le ulteriori richieste istruttorie per un approfondimento.
Quanto poi all’alibi dei coniugi, veniva del tutto trascurato secondo la difesa il dato che i due imputati non avrebbe avuto il tempo materiale di scappare dalla palazzina dei C., raggiungere la lavanderia, cambiarsi ed uscire con i sacchi da smaltire, senza essere visti da alcuno. Il dato fu superato nella sentenza impugnata con l’argomento che i due sarebbero usciti attorno alle ore 20,20, quando nessuno si trovava nella corte, ma a quell’ora risulta che b. si avvide del fuoco e avvertì ba., entrambi invitarono le mogli a chiamare i vigili di fuoco, cosicchè mentre la moglie del b. restò alla finestra, quella del ba. uscì nella corte, il che significa che i due imputati nell’allontanarsi non poterono non essere visti. Non solo, ma dal testimoniale emerge che i due coniugi R. furono cercati, subito dopo scattato l’allarme, alle ore 20,30 ma non furono trovati. Non sarebbero state ispezionate le alternative vie di fuga e venne sottovalutato che sul terrazzino di casa C. di tracce ve ne erano, ma non furono repertate e fatte oggetto di investigazione.
(36) Omessa motivazione in relazione alle piste alternative: sarebbe stata del tutto pretermessa ogni motivazione in ordine alla pista familiare, atteso che il matrimonio di C.R. con M.A. non era stato ben visto, tanto è vero che venne messa sotto controllo anche l’auto di Ca.Ca.; il ch. aveva individuato in uno dei tre soggetti che aveva visto nei pressi della corte, Ca.Pi., fratello di C. R., ma detta dichiarazione venne trasmessa al pm con notevole ed inspiegabile ritardo (dopo 21 giorni), il che significa che ogni spunto che poteva scagionare i due imputati venne deliberatamente sottovalutato. Viene poi contestato che non sia stata disposta l’audizione della mamma di M.A. che nel corso di una conversazione con il figlio, si manifestava certa che a colpire fosse stato Ca.Pi..
(37) Vizio di motivazione sulla ritenuta capacità di intendere e volere degli imputati al momento del fatto, contraddittorietà tra la sentenza di primo e quella di secondo grado, omessa acquisizione di prova decisiva in ordine al rigetto dell’istanza di disporre perizia.
La corte milanese ha riconosciuto che il rapporto tra i due imputati ha natura patologica, nel corso del processo erano emerse fondatissime ragioni per dubitare della loro sanità mentale, nella B. era stato ipotizzato un disturbo delirante, con possibilità di psicosi indotta nel R., ritenuto l’elemento più inducibile della coppia.
Le ragioni per le quali la corte di Milano disattendeva la richiesta di perizia psichiatrica sarebbero state quelle valorizzate dalla corte comasca, però mentre in primo grado si fece molto riferimento alla consulenza tecnica V. ed a dati raccolti in sede di visite psichiatriche fatte in carcere, in secondo grado viene argomentato il rigetto sulla base di personalissime valutazioni, finendo il giudice di appello col fare lui il perito, affrontando senza altrettanta competenza tecnico-scientifica, la relazione della dott.sa c., consulente di parte, la testimonianza della psicologa del carcere, la deposizione dell’assistente sociale del carcere, le relazioni Bo. – R. – Be. e la diagnosi del prof. P..
I giudici avrebbero stilato direttamente una pseudo perizia, assumendo che un’operazione di tal fatta sarebbe adesiva ai principi della sentenza Raso, ma da questo approdo si ricava incontestabilmente che il giudice deve procedere avvalendosi di tutti gli elementi a sua disposizione, ma con l’indispensabile supporto di contributo tecnico. Non solo, ma andava accertato l’esistenza di un nesso di collegamento diretto tra il tipo di disturbo diagnostico ed il fatto criminale commesso. Una valutazione complessa, quale quella pretesa dalle Sezioni Unite, non poteva essere sottratta alle competenze specialistiche di un perito psichiatra. Nel caso specifico, i dati scientifici che sono stati rassegnati a mezzo CCTT non sarebbero stati introitati nel processo, cosicchè la scelta del giudice non si appalesa logica e razionale, ma soggettiva valutazione discrezionale, sprovvista di base scientifica. Sarebbe erroneo scrivere, come è stato scritto, che manca l’indicazione di elementi che colleghino il presunto disturbo di personalità con la mancanza di autodeterminazione e di autocontrollo nell’agire. Infatti, dalla deposizione della psicologa dott.ssa Me., emergeva che la B. incorreva in crisi di ansia, pianti irrefrenabili, somatizzazioni evidenti, oltre che comportamenti autolesionistici, crisi di insonnia, fenomeni dispercettivi, se non addirittura deliranti. Sono stati anche sottolineati deficit cognitivo, difficoltà di comprensione, di organizzazione logica del pensiero e di rievocazione anamnestica, oltre che traumi giovanili (quali abusi di tipo fisico e indifferenza da parte della madre). Veniva posto l’accento sul totalizzante rapporto di coppia, simbiotico, di forte dipendenza, che era stato definito spersonalizzante, nel senso che si verificò una vera fusione delle due personalità. Su R. invece vennero evidenziati dalla Me. un’ideazione di tipo rigido, inflessibile, un pensiero che tende a focalizzarsi su determinati concetti, con bassa autostima. Ma anche l’educatrice del carcere ha riferito di idee patologiche ed ossessive di R.O., mentre la psicologa dott.ssa c. riferì di concrete manifestazioni di malattia, manifestandosi i due costantemente in dissociazione con la realtà, unicamente concentrati in un microcosmo di vita in cui contavano solo loro due, ignorando le relazioni con il prossimo.
Manifestazioni concrete di patologia sono poi state evidenziate nella CT Bo. – R.-. B., in cui è stata posta l’attenzione sull’atteggiamento di distacco, mancanza di risonanza emotiva e coinvolgimento manifestati dalla B., laddove invece, per quanto concerne il R., sarebbero significativi i vittimismi manifestati con le sue annotazioni sulla Bibbia infarcite di falso moralismo. Il tutto tradotto in una diagnosi di disturbo delirante per la B. e di psicosi indotta per il R..
Nella sentenza impugnata venne operata una ricostruzione del quoziente intellettivo dei due, qualificato in termini di normalità, con una invasione di campo nel sapere scientifico non ammissibile da parte del giudice, laddove vi erano indicatori di segno opposto.
E’ stato poi ritenuto decisivo il fatto che fossero trascorsi tre anni dal fatto e quindi la corte milanese ha ritenuto a fortiori non significativa una perizia che avrebbe potuto evidenziare deficit conseguiti alla lunga carcerazione.
Ma anche sul punto la difesa dissente, in quanto la stessa dott.ssa c. ebbe a sottolineare che talora le perizie si devono effettuare a distanza di tempo e che nel caso di B.R. ed R.O. la ricostruzione era possibile, anche se erano trascorsi anni.
Il richiamo alla sentenza Raso avrebbe dovuto imporre il ricorso alla perizia, poichè il ragionamento seguito dalle Sezioni Unite si fonda sulla conoscenza psichiatrica che nell’ambito della malattia mentale deve saper indicare gli elementi di valutazione per una gradazione di responsabilità del soggetto, anche nell’ottica di prevenzione e risocializzazione del soggetto. Viene poi contestato che la corte territoriale abbia escluso indizi di malattia mentale in ragione del fatto che il delitto era stato programmato nei suoi minimi particolari, in quanto è principio pacifico in giurisprudenza che non vi è incompatibilità tra aggravante della premeditazione e vizio parziale di mente, in quanto la prima opera sul piano del dolo e il secondo su quello dell’imputabilità. Secondo i consulenti della difesa, sia gli appunti manoscritti del R., che le confessioni della B. sarebbero indici di patologie; tuttavia, la corte milanese ha ritenuto di inferire indici di normalità dal comportamento tenuto in aula dai due imputati, laddove la capacità a stare in giudizio (che può esser saggiata dal giudicante), è diversa dalla capacità di intendere e volere; ne discende che la motivazione offerta dalla sentenza per negare la perizia suona oltremodo insufficiente.
Si imponeva quindi l’applicazione dell’art. 603 c.p.p., in quanto in ogni caso il giudice di appello avrebbe dovuto disporre la rinnovazione del dibattimento, posto che la richiesta di parte era riconducibile alla violazione del diritto alla prova e perchè l’ammissione della stessa, ritualmente richiesta in primo grado, era stata irragionevolmente negata da quel giudice.
(38) Violazione dell’art. 233 c.p.p. e violazione del diritto alla prova di cui all’art. 190 c.p.p., quanto alle ordinanze del 7.12.2007 e 20.12.2007, con cui la corte d’assise di Como non consentì al CT di parte di esaminare in carcere i due imputati, nonchè omessa e contraddittoria motivazione. I provvedimenti avrebbero violato il chiaro disposto normativo, ponendosi in contrasto con i principi in tema di prova, di diritto di difesa e diritto al contraddittorio;
l’ausilio del Ct rappresenta indubitabilmente esercizio del diritto di difesa, con il che ogni limitazioni si risolve in una menomazione di quel diritto.
L’impedimento sarebbe stato motivato dalla necessità di salvaguardare la spontaneità e la genuinità degli imputati, in vista di un’eventuale perizia, il che segna il distacco e lo scollamento tra questo argomento e la motivazione sulla non necessità della perizia stessa. Il fatto che sia stato impedito al consulente di accedere ai due imputati, ha comportato certamente che l’elaborato non fosse arricchito dalle osservazioni degli esaminandi, ma questo non può assurgere a vizio, essendo stato imputabile alla scelta processuale contestata.
(39) Omessa motivazione sui motivi di gravame proposti avverso la sentenza di primo grado ed in particolare con riguardo alla utilizzazione della CT a forma dott. V.. Era stato chiesto alla corte di Milano di dichiarare la inutilizzabilità di detta CT, sulla base della quale in primo grado era stata disattesa la richiesta di perizia psichiatrica, laddove era stato impropriamente inserito detto elaborato tra le consulenze, seppure non lo fosse, perchè il Pm si era dotato di un parere tecnico, sulle considerazioni che erano state svolte della dott.ssa c., consulente della difesa. Ma di detto consulente non era stata fatta preventiva citazione, nè dello stesso venne chiesto l’esame. Il fatto che le valutazioni di questo esperto siano state veicolate nel processo sotto forma di memoria non era consentito, non essendo stato previamente accreditato il dr. V. nel processo, come CT, avendo fatto la sua comparsa solo il 30.3.2008. L’immissione nel dibattimento di detta consulenza sarebbe avvenuta in ispregio alle più basilari garanzie del contraddittorio.
(40) Vizio di motivazione quanto alle conclusioni che si leggono a riassunto del percorso motivazionale. In detta ultima parte della sentenza la corte avrebbe dimostrato di aver esaminato in modo errato ulteriori elementi, alcuni dei quali di contorno, mentre sarebbero stati tralasciati importanti contributi, con ciò abdicando all’esame degli elementi probatori significativi acquisiti, convenendo peraltro con la difesa che le confessioni erano piene di errori, che F. aveva indicato ab initio uno sconosciuto come suo aggressore e che alle ore 20,20 della sera della strage, qualunque aggressore si trovava ancora sulla scena del crimine, dati che incrinano l’impalcato probatorio su cui è stata basata la condanna dei due imputati.
2.2 Con il ricorso dell’avv. D’Ascola gli imputati, a mezzo del loro difensore chiedono l’annullamento della sentenza per motivi sovrapponili a quelli già esposti, il che giustifica una maggiore sintesi. Le ragioni del richiesto annullamento risiedono sui seguenti profili di violazione di legge:
1^ – violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3 e art. 546 c.p.p., comma 1, anche alla luce dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p..
Se la sentenza appare prima facie logica nel suo insieme, di fatto si disvela viziata da contraddittorietà interna a causa di una scollatura rispetto alle emergenze processuali. Non solo, ma la sentenza impugnata avrebbe omesso di specificatamente esaminare rilievi direttamente incidenti sulla responsabilità degli imputati, assumendo un’adesione all’argomentare dei giudici di primo grado che di fatto non vi è, ravvisandosi invece una totale difformità di ricostruzione tra le due sentenze in snodi di particolare rilievo, in aperto riconoscimento della bontà delle prospettazioni difensive.
Il tutto deve esser letto secondo la difesa, come l’introduzione di un forte elemento di dubbio nel ragionamento probatorio, direttamente proporzionale alla riconosciuta plausibilità della ricostruzione difensiva.
I giudici di seconde cure pur avvedutisi della fondatezza della tesi difensiva in molti passaggi cruciali, hanno peraltro tenuto fermo il giudizio di colpevolezza, senza ostendere il percorso motivazionale che li ha condotti a privilegiare detti elementi ritenuti indicativi di colpevolezza su altri di segno contrario, con il che sarebbero incorsi nella violazione della regola probatoria di cui all’art. 530 cpv. c.p.p..
Quanto alle confessioni e ritrattazioni, la difesa fa presente che è la sentenza stessa ad aver dato atto che il R. al momento di confessare era confuso, ma nella confusione è stata trovata la causa della genuinità della confessione, con un evidente salto logico.
Il giudizio sulla genuinità doveva tener conto delle numerose sollecitazioni che sul R. si erano riversate ad opera degli investigatori in quel giorno dell’8 gennaio 2007, allorquando i m.lli ca. e F. si recarono in carcere, a prelevare le impronte. La deprivazione del contenuto delle dichiarazioni del R. della sua parte più significativa, in ordine alle possibili influenze sulla genuinità delle dichiarazioni, sarebbe grave e paleserebbe uno scollamento tra la decisione e le effettive emergenze processuali. La motivazione esistente sui ritenuti pesanti condizionamenti psicologici del R. sarebbe puramente apparente, basandosi su una decurtazione del testo degli atti solo parzialmente considerati. La valutazione del requisito della genuinità della confessione avrebbe dovuto imporre la valutazione di tutti gli atti processuali, ma soprattutto avrebbe dovuto essere il presupposto logico a cui parametrare anche la valutazione della ritrattazione.
Erano state sottolineate non solo le sollecitazioni dei due marescialli, ma lo stesso tono ultimativo usato dai Pubblici Ministeri che al momento dell’interrogatorio dissero che per loro il processo era chiuso e che lui R., non avrebbe più potuto vedere la moglie, suggestioni che condizionarono non poco la genuinità della confessione e che furono del tutto sottovalutate dal giudice di secondo grado, ancorchè sollecitato a valutarle.
Quanto poi alla ritenuta linearità e precisione delle dichiarazioni del R., la difesa oppone che è la stessa sentenza a dare atto che la rappresentazione dei fatti fu altalenante e controllata e che nel racconto si sono registrate inesattezze e dimenticanze, ma la corte ha ritenuto di superarle assumendo che si trattò di azione concitata e che obiettivamente l’uomo incontrò difficoltà a descrivere un fatto tanto atroce.
Quanto alla B. poi, è stato detto che non era in grado di raccontare l’accaduto e aderiva al racconto del marito, senza saper fornire ulteriori dettagli, però poi fu aggiunto che cercò volutamente di introdurre elementi di confusione, il che avrebbe imposto la conclusione sulla non credibilità della stessa.
Pur rinvenendo nella sentenza impugnata il riconoscimento espresso delle omissioni, delle dimenticanze, delle imprecisioni, la corte di secondo grado ha mantenuto fermo il giudizio di credibilità delineando un’evidente dissociazione, non superabile con il fatto che gli imputati avrebbero fatto riferimento a particolari che sono patrimonio conoscitivo solo dell’autore materiale del reato.
In proposito la difesa aveva offerto la prova, particolare per particolare, che il R. potesse aver acquisito aliunde la conoscenza di questi dettagli, il che significa che era stato introdotto un foltissimo elemento dubitativo. Viene insistito sul fatto che la confessione per essere affidabile ed acquistare dignità di elemento di prova, deve essere intrinsecamente e soggettivamente attendibile e devono sussistere elementi estrinseci di riscontro, non potendosi prescindere, sotto il profilo dell’attendibilità intrinseca, dall’analisi della personalità dell’autore delle dichiarazioni accusatorie, da un accurato esame delle spinte psicologiche che hanno indotto il dichiarante a collaborare con gli inquirenti e sotto il profilo della certezza, da un controllo estrinseco, attraverso la rigorosa individuazione degli elementi di riscontro.
Nel caso di specie, la motivazione sulla spontaneità cade perchè ne svela la carenza, con il che alla fonte di prova non può essere riconosciuto che un valore discutibile. Non solo, ma manca la motivazione sulla irrilevanza da attribuire alla ritrattazione, non essendo state esplicitate le ragioni per le quali il giudice ha ritenuto non attendibili le prove dedotte nei motivi di appello, contrarie a quelle poste a base della decisione e questo vale a segnalare come non sia stato integrato un requisito essenziale della sentenza.
Anche sul riconoscimento da parte del F. di R.O. quale suo aggressore, la corte d’assise di appello non consegna il dato come una prova certa, ammettendo che il F. possa non aver descritto minutamente il viso dell’aggressore, a causa della concitazione del momento e per il fatto che era posto con la faccia a terra. Però poi viene ammesso che nelle prime fasi di contatto con il Pm, il F. non abbia fatto il nome di R.O.; non solo, si da atto che anche il 15 ed il 16 dicembre F. dichiarò di nulla ricordare, non si esclude che il ricordo sia affiorato, non solo a seguito del superamento del trauma, ma anche per l’interevento del Lgt. Ga., ma si esclude che sia stato costui a suggerire al F. il nome del R.: sarebbe stato così minimizzato il testo di un colloquio ben più impegnativo, sarebbe stato trascurato il tenore suggestivo delle domande rivolte al teste, con la depurazione del colloquio dalle coloriture e con il riporto di una versione asciugata. Dunque vengono messi in evidenza il contrasto tra quanto ritenuto in sentenza e quanto emerge dall’atto probatorio e la decisività di tale contrasto, avuto riguardo alla logica del percorso motivazionale di quel provvedimento. Sulla natura suggestiva delle domande poste dal Lgt.
Ga. è stata depositata anche una CT del prof. St. su cui la corte di Milano non ha fornito adeguata motivazione di dissenso. Quindi, secondo la difesa il percorso valutativo sulla ritenuta attendibilità della confessione da un lato e del riconoscimento dall’altro, sarebbe infarcito di tali contraddizioni e incertezze da collocare ciascuno degli elementi in questione ben al di sotto della soglia di rappresentatività imposta dallo standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, richiesta per la condanna.
2^ – violazione dell’art. 125, comma 3, art. 546, comma 1, lett. e) in relazione all’art. 64 c.p.p., comma 2, artt. 188 e 191 c.p.p., art. 13 Cost., comma 4 con riferimento alle dichiarazioni rese dagli imputati il 10.1.2007 e di quelle rese dal F. il 20 ed il 26 dicembre 2006, il 2.1.2007 ed il 26.2.2007.
Le dichiarazioni confessorie si sarebbero formate in un contraddittorio fittizio, in quanto avrebbero operato interferenze esterne illecite, che avrebbero minato la spontaneità delle dichiarazioni, rese in uno stato di autentica costrizione morale: in proposito si fa riferimento alla false aspettative fatte nascere nel R. di cui si è già detto ed al modo di condurre gli interrogatori che avrebbero arrecato un vulnus alla libera formazione della volontà dei due imputati, di talchè le risultanze sarebbero state conseguite in aperto contrasto con le norme della Costituzione e della CEDU, quindi sarebbero inutilizzabili.
Quanto al F., parimenti le sue dichiarazioni furono la conseguenza dell’utilizzo di metodi e tecniche vietati, in quanto suscettivi di incidere sulla libertà morale del dichiarante (si fa riferimento in proposito all’impatto fortemente manipolativo e suggestivo delle domande, fino al punto da instillare il nome di R.O.), con violazione della norma generale stabilita dall’art. 188 c.p.p. e conseguente sanzione di inutilizzabilità delle iniziali dichiarazioni accusatorie e di quelle che seguirono a queste.
3^ – Violazione di legge in relazione agli artt. 88 e 89 c.p., nonchè in relazione all’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) e art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p..
Si duole la difesa che i rilievi critici che erano stati avanzati in sede di appello non siano stati correttamente intesi dalla corte milanese e che quindi sia stata data risposta non congrua.
In particolare si duole la difesa che la sentenza Raso delle Sezioni Unite sia stata mal invocata, visto che in tale arresto è stato scritto, senza mezzi termini, che ogni accertamento sulla capacità di intendere e volere va effettuato nel rispetto dei protocolli metodologici di una vera e propria perizia psichiatrica, non potendosi prescindere da un sapere specialistico che il giudice non possiede. Con il che, sarebbe del tutto inadeguato il giudizio espresso non solo sulla scorta delle generiche osservazioni condotte da chi non è competente, ma in un contesto in cui il giudice ha rifiutato di avvalersi di esperti. Quanto meno si versava in un situazione di dubbio ed il dubbio andava sciolto con lo strumento della perizia. La difesa del resto aveva depositato una consulenza del prof. Bo. che delineava la sussistenza di un disturbo delirante con idee di persecuzione e di rivendicazione, collegate ad accertate anomalie dell’affettività, del pensiero, del comportamento degli imputati, ma tale relazione non è stata presa in considerazione in sentenza, configurandosi così l’ennesimo gravissimo vuoto motivazionale.
Il libero convincimento espresso dai giudici di merito, svincolato da seri ancoraggi conoscitivi obiettivi e controllabili risulta distorto in chiave antigarantistica. Si censura il rilievo secondo cui per la corte di Milano la difesa avrebbe dovuto fornire la prova della sussistenza di un nesso di derivazione causale tra l’eventuale disturbo della personalità ed il fatto criminoso; si contesta che sia stata correttamente intesa la nozione di infermità mentale, rilevante ai fini del giudizio di imputabilità, laddove è stato escluso che possa essere dimostrativa al riguardo la sproporzione del movente, che renderebbe palese la sussistenza di un’anomalia di carattere psichico, tale da rendere necessario l’accertamento richiesto. Sarebbero stati sviliti i rilievi della dott.ssa c., sul presupposto che la stessa non ebbe a visitare gli imputati, ma la visita fu inibita in vista di una perizia, perizia che non venne mai disposta e meno che meno venne disposta in appello, a causa della distanza dai fatti: sarebbe quindi evidente la contraddittorietà dell’argomentare. Viene poi censurato che il giudice a quo abbia ritenuto di ricavare dagli elementi che costituiscono il substrato fattuale della premeditazione, la sussistenza dell’imputabilità dei due imputati, laddove non può sfuggire che i due concetti di premeditazione e di capacità di intendere e volere si differenziano nettamente; non solo però la difesa si duole di questa prima sovrapposizione operata, ma anche di una seconda, avendo confuso i giudici di merito la imputabilità con la capacità a stare in giudizio, allorquando opinarono nel senso che la mancanza di imputabilità andava esclusa, considerata la lucidità manifestata nella condotta processuale. La diversità ontologica, normativa e funzionale tra i due istituti segna il carattere di assoluta indipendenza e di diversità funzionale. Fuorviante sarebbe anche l’argomento speso dalla corte di Milano per respingere l’istanza di perizia, facente leva sul fatto che durante il periodo di detenzione non sarebbero stati segnalati indicatori di alterazioni psichiche nei medesimi, poichè diverso è il monitoraggio generico finalizzato alla terapia compiuta sui detenuti, rispetto alla apposita verifica della loro capacità di intendere e volere, con riferimento all’eventuale commissione del delitto che va compiuta attraverso metodologia e criteriologia suscettive di costituire strumento idoneo per un accertamento complesso. Quanto poi al monitoraggio della dott.ssa Me., la difesa sostiene che era possibile trarre nella sua rappresentazione, l’affermazione sulla sussistenza di stati di compromissione psichica in capo agli imputati, con il che si dovevano ritenere presenti gli elementi necessari per costituire un fumus a giustificazione della richiesta di accertamento e questo segnerebbe un ulteriore esempio di scollamento tra sentenza e risultanze processuali.
4^ – Violazione di legge ed in particolare dell’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all’art. 191 c.p.p..
Non sarebbe stata data risposta alla richiesta di dichiarazione di inutilizzabilità della Ct del dott. V., per le ragioni già esposte: le esigenze di tutela del contraddittorio avrebbero imposto quantomeno di espletare l’esame dibattimentale del CT, a maggior ragione, visto che era stato presentato in dibattimento un suo elaborato non veicolato nelle forme canoniche, non in forma di memoria del Ct, ma sotto forma di memoria del Pm.
Il che ha comportato l’introduzione di un documento scritto, senza il supporto del contraddittorio sullo stesso, quindi in palese violazione dell’art. 511 c.p.p., comma 3, che consente la lettura della relazione peritale solo dopo l’espletamento dell’esame. Viene contestato che la sentenza di secondo grado richiami il percorso argomentativo del primo giudice che si era avvalso di tale atto, senza spendere parola in ordine a detta relazione, con il che sarebbe apprezzabile un ulteriore difetto di motivazione.
5^ – Violazione di legge ed in particolare dell’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), art. 603 c.p.p..
La motivazione con cui è stato disattesa la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale sarebbe incoerente, posto che l’espletamento di perizia psichiatrica in appello avanzata dalla difesa era indispensabile in quanto la prova era stata irragionevolmente negata in primo grado. Viene ricordato che il mancato pronunciamento in ordine all’ammissione di prove rilevanti, ai fini del decidere costituisce causa di nullità della sentenza di secondo grado.
6^ – violazione di legge in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), art. 530 cpv. c.p.p. e art. 533 c.p.p., quanto alla valutazione della traccia ematica sul battitacco dell’auto del R..
La Corte territoriale ha convenuto con la difesa sul fatto che la traccia sarebbe stata portata non da soggetto che sale a bordo dell’auto, ma da soggetto che vi appoggia il piede per verificare il contenuto dell’interno ed ha attribuito all’imputato la traccia, ritenendo che lui salì in auto per collocare il sacco con all’interno il materiale di cui ebbe a disfarsi, in assenza di prove contrarie. Viene ricordato dalla difesa che invero la prova asserita mancante sarebbe rappresentata dal verbale di perquisizione e sequestro dell’auto del R., che risulterebbe eseguita dal Mo., che non appare tra i firmatari dell’atto. Risulta che tanto Ga. che Ro., che dagli atti appaiono quali autori della perquisizione, sono intervenuti sulla scena del crimine, avendo operato la primissima ispezione nell’abitazione di C. e di F..
Costoro peraltro smentirono di aver partecipato all’atto di perquisizione, laddove il solo carabiniere Mo. disse di esser salito sulla stessa il giorno dopo la strage, alla presenza del mar. N..
Le dichiarazioni degli operanti collidono con quanto è stato scritto nei verbali, ma certo è che il contenuto dei verbali porterebbe a ritenere senza alcun dubbio che la traccia di sangue sia stata trasportata sull’autovettura proprio da Ga. o Ro., che si recarono con certezza in casa F., la notte della strage. Nessuna ragione plausibile è stata indicata per spiegare perchè mai il Mo., autore della perquisizione, non sia stato inserito tra gli operanti firmatari dell’atto e viene giudicato sorprendente che i giudici di primo e secondo grado non si siano curati di trattare l’argomento, avendo la sentenza di primo grado tributato in modo apodittico maggiore credibilità alle dichiarazioni rese dai pp.uu., piuttosto che al contenuto dei verbali da loro sottoscritti e la sentenza di seconde cure si è appiattita sulla stessa valutazione.
Tale soluzione sarebbe arbitraria in quanto è improponibile una ricostruzione secondo cui il valore di una prova documentale può essere vanificata da una prova dichiarativa, resa per lo più dai soggetti interessati al contenuto informativo del documento.
Viene lamentato che non sia stato adeguatamente considerato che i rilievi tecnici furono eseguiti il 26.12.2006, alle ore 23, cioè dopo 15 giorni dalla verificazione del fatto, situazione di fatto che non poteva portare – come ha invece portato – i giudici di merito a ritenere particolarmente pura la traccia, il fatto stesso che sia stata esaltata a mezzo luminol, significa che non era visibile ed era dispersa. L’origine della traccia doveva essere spiegata con la dispersione del sangue nell’acqua utilizzata dai vigili del fuoco, che ebbe a disperdersi nella corte. Fu sicuramente traccia portata da chi era sulla scena del crimine, ma dalla purezza della traccia non può desumersi, come ha fatto la corte, che il suo trasporto sull’auto sia avvenuto prima dell’intervento dei vigili del fuoco e quindi prima dell’inondazione del cortile, poichè tale inferenza non è consentita da un punto di vista scientifico: lo stesso CT del pm non ha offerto una base su cui trarre queste assiomatiche certezze, avendo solo parlato di traccia concentrata, di DNA non danneggiato, di difficoltà a che si verifichino contaminazioni come quelle prospettate dalla difesa. Il dubbio è stato instillato anche dal CT del Pm con il che occorreva dare spazio a questo dubbio.
7^ – Violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), artt. 192, 530 cpv e 533 c.p.p., con riferimento alla dichiarazione di colpevolezza della B..
Secondo la difesa mancherebbe la prova a suo carico, essendo stata usata a strascico la prova raccolta e ritenuta sufficiente per affermare la colpevolezza del R., con una chiara operazione di trasposizione. La motivazione su cui è stata basata la sua condanna, fa perno sulla convergenza del suo narrato con quello del marito. Di fatto venne inserito un circolo vizioso, stante la non autonomia della confessione B. rispetto a quella del R., con il che è difettata la possibilità di trovare riscontri certi nelle dichiarazioni dell’uno, rispetto alle dichiarazioni dell’altro: tale contesto di non autonomia impedisce il riscontro dell’attendibilità tramite il dato dichiarativo, con il che la corte avrebbe errato fondando il suo convincimento sulla convergenza. I riscontri poi individuati si esaurirebbero nello stesso ambito dichiarativo ed appaiono del tutto neutri, perchè attengono al rapporto matrimoniale che li unisce. Non poteva essere trascurato che il F. parlò sempre di un unico aggressore, escludendo di aver mai avvertito voci che facessero pensare ad altra persona.
8^ – Violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), artt. 192, 530 cpv e 533 c.p.p., con riferimento al diniego di istruttoria sulla tenda della Ch., risultando il dato sul punto in cui fu aggredita la donna di fondamentale importanza nella ricostruzione dei fatti. La motivazione che è stata offerta dalla corte di Milano sarebbe insufficiente, in quanto il dubbio non risulta essere stato sciolto, essendo stato scritto che ogni soluzione poteva essere valida, il che significa che si brancolava in una impasse non superata, che doveva indurre davanti a questa incertezza ricostruttiva a privilegiare l’ipotesi più favorevole.
Secondo la difesa, del principio del superamento della sfera del dubbio ragionevole, doveva farsi applicazione nel presente caso, in cui è stata affermata la colpevolezza degli imputati sulla base di constatazioni che non possono dirsi coperte dal crisma della certezza razionale, in quanto affidate solo al libero convincimento personale.
3. Con memoria depositata il 27.4.2011 le tre difese ribadiscono che la sentenza è nulla poichè la corte non decise sulla richiesta di rinnovazione istruttoria con separata ordinanza, prima della sentenza, poichè così operando avrebbe mutilato la difesa della possibilità di avvalersi di elementi dimostrativi da fare valer in sede di discussione finale, con ciò determinando una situazione di incertezza che sarebbe contraria al sistema.
Viene ricordato che anche quando era in corso la discussione in grado di appello, allorquando la difesa venne a sapere della lettera spedita al PG da Ce.Ya., la difesa chiese con memoria l’audizione del teste, ma anche in detta occasione la corte postpose la decisione. Viene segnalato un arresto di questa Corte in cui nel caso di prova nuova è stato statuito che si impone un giudizio di ammissibilità senza ritardo, con ordinanza dibattimentale nel contraddittorio tra le parti ed è stato censurato l’operato della corte di merito sull’essersi riservata, poichè tale modus operandi avrebbe creato incertezza alle parti, quanto al materiale di discussione. Gli stessi argomenti sono spendibili, dice la difesa, per quanto concerne la riserva assunta sulla richiesta di disporre perizia psichiatrica in grado di appello, posto che per nuove prove deve intendersi quelle noviter productae, ossia preesistenti al grado di appello, ma ivi non allegate, nel cui perimetro vanno comprese tutte quelle situazioni in cui l’elemento di prova, suscettibile di essere introdotto nel giudizio di primo grado, ne sia rimasto escluso a cagione di inerzia delle parti. E nel caso di specie, la prova costituta dalla perizia rimase fuori, pur a fronte di puntuale richiesta della difesa, per cui la mancata decisione con ordinanza, prima della sentenza, configura nullità della stessa. E così dicasi per le ulteriori richieste istruttorie avanzate (ad es. di acquisizione consulenze prof. St. e prof. Bo.).
Viene ancora risottolineato che le bobine delle intercettazioni andavano inserite ex art. 431 c.p.p. nel fascicolo del dibattimento e non ex art. 269 c.p.p., come erroneamente indicato nella sentenza: si ribadisce la censura che il giudice abbia erroneamente ritenuto le bobine alla stregua di atti non irripetibili. Viene ribadito che nonostante nel verbale di udienza della corte comasca si legga che erano state acquisite, le bobine non vennero mai di fatto inserite nel fascicolo del dibattimento. Viene censurato l’operato della corte milanese che ammettendo che si tratti di atti irripetibili, non operò la debita acquisizione. La difesa si lamenta in sostanza di aver dovuto elemosinare in tutte le fasi del processo l’acquisizione di atti di indagine, quale ad es. la consulenza del RIS, pacificamente atto non ripetibile, acquisita solo a seguito di incidente probatorio richiesto dalla difesa. Per cui viene risollecitata la dichiarazione di nullità degli atti a partire dall’avviso ex art. 415 bis c.p.p., fino alla sentenza impugnata.
Motivi della decisione
I motivi dei ricorsi sono infondati (quando non inammissibili) e devono pertanto essere rigettati.
Prima di entrare nella disamina particolareggiata delle numerose doglianze avanzate, occorre effettuare alcune brevi premesse metodologiche.
La prima: al giudice di legittimità non appartiene un autonomo giudizio di valutazione degli elementi di prova, non essendo a lui attribuito il potere di sostituire, o sovrapporre una sua valutazione a quella del giudice di merito, essendogli rimesso solo ed esclusivamente il compito di controllare la logicità del ragionamento probatorio e quindi di verificare la correttezza della giustificazione interna ed esterna, essendo di esclusiva competenza dei giudici delle due precedenti fasi processuali, la ricostruzione della vicenda processuale e l’interpretazione dei dati acquisiti.
Ne consegue che il giudizio avanti la Cassazione non può essere inteso come un terzo grado di giudizio pieno, in cui si rivalutano le prove acquisite, ma va inteso come scrutino sulla logicità, completezza e coerenza delle valutazioni operate nei giudizi precedenti, restando preclusa la semplice rilettura degli elementi di fatto posti a base della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dai giudici di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di maggiore capacità esplicativa.
La seconda: come è stato sottolineato in precedenti pronunce (v. ex pluribus Sez. 1^, 11.5.2008 n. 31456, Franzoni), il requisito della certezza di cui devono essere connotati gli elementi indizianti, non va assunto in termini di assolutezza e di verità in senso ontologico, posto che la certezza del dato indiziante è pur sempre una certezza di natura processuale, che partecipa di quella specie di certezza che si forma nel processo attraverso il procedimento probatorio. E’ stato efficacemente ricordato che per passare dal fatto noto a quello ignoto, va fatto uso di "regole ponte", che consentono di mettere in relazione i due fatti e di risalire da quello noto a quello ignoto, attraverso la mediazione o di regole di esperienza legittimate dal patrimonio conoscitivo e dalla ripetitività dei fenomeni, o di leggi scientifiche di valenza universale, o semplicemente statistica, ovvero ancora di leggi appartenenti alla logica.
La terza: le tessere del mosaico indiziario assumono rilievo a fronte di una valutazione sinergica, non dovendo mai essere operata una parcellizzazione degli elementi del compendio probatorio che ne vulnera, sia la valenza che lo spessore, di talchè ogni singolo tassello deve essere considerato non isolatamente, ma va valutato in una visione di sintesi rispetto alla pluralità degli elementi raccolti.
La quarta: il requisito della convergenza delle prove dichiarative raccolte non va inteso come sovrapponibilltà, – realtà troppo puntuale e talora suscettibile di destare più di un sospetto di artificiosa ricostruzione ex post, attesa la personalizzazione del ricordo di ciascuno sul singolo fatto – ma come concordanza dei nuclei essenziali delle stesse in riferimento al thema probandum, cosicchè eventuali imprecisioni e smagliature non ne infirmano di per sè la valenza probatoria, laddove ne rimanga integra la convergenza dei rispettivi nuclei.
La quinta: il dettato normativo di cui all’art. 533 c.p.p. impone di pronunciare condanna quando il dato probante acquisito lasci fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura per un combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, ma la cui realizzazione nella fattispecie concreta non trova il minimo riscontro nelle emergenze processuali.
Nella presente fattispecie i giudici di merito hanno valorizzato l’insieme degli elementi ritenuti a foltissima valenza dimostrativa che sono stati sopra elencati, secondo consolidate regole della logica e della comune esperienza, giungendo a sottovalutare la portata delle non poche divergenze o aporie rilevabili negli atti, che sono state enfatizzate dalla difesa: esaminando queste ultime partitamente, la difesa ha privilegiato di volta in volta la soluzione non accusatoria, trascurando il solido impalcato su cui l’affermazione di colpevolezza è stata espressa, strutturalmente imperniato sulle leggi ed i procedimenti della logica, inossidabile alle censure su singoli e secondari profili, ininfluenti nell’economia della ricostruzione. Dai giudici di merito è stata offerta nei singoli passaggi delle sentenze, una adeguata e plausibile motivazione di come i singoli argomenti difensivi non abbiano avuto la forza di intaccare la solidità dello zoccolo su cui è stata ricostruita la dolorosissima vicenda (confessione dei due imputati, ancorchè ritrattata, ammissione di colpa riportata in appunti manoscritti ed in scritti diretti a terzi, testimonianza dell’unico teste oculare – F. -, presenza di traccia ematica riconducibile a Ch.Va. sull’auto del R.), facendo risultare privi di decisiva importanza taluni aspetti di natura fattuale, su cui la difesa ha insistito per dimostrare l’erroneità del percorso interpretativo, ovvero portando a reputare del tutto superflui i richiesti approfondimenti istruttori che non avrebbero potuto aggiungere nulla di decisivo, in un quadro già delineatosi secondo direttrici di sicuro riferimento.
Entrando in medias res, quanto ai singoli motivi di gravame sopraelencati ed iniziando dal più corposo ricorso degli avv.ti Bordeaux-Schembri, deve essere osservato quanto segue.
Il primo motivo sviluppato sulla unidirezionalità delle indagini è ai limiti dell’ammissibilità, in quanto generico, basato su mere illazioni, ancorate alle notizie di cronaca, più che sui dati processuali: è stato correttamente sottolineato nelle due sentenze di merito che la gravità – per non dire abnormità – della vicenda occorsa, aveva doverosamente stimolato l’attività dei carabinieri della locale stazione, attività che in una primissima fase non poteva che dirigersi al buio, salvo assumere una precisa traiettoria, una volta individuati taluni dati di riferimento ed in particolare i soggetti con cui le vittime ebbero seri motivi di conflittualità.
E’ stato evidenziato dai giudici di merito che gli investigatori nell’immediatezza del fatto furono comprensibilmente impressionati dal dato che i coniugi R., non presenti al momento del sopraggiungere delle forze dell’ordine, erano, una volta tornati a casa, rimasti chiusi nel loro appartamento senza chiedere spiegazione ad alcuno di quanto accaduto in loro assenza e che non poterono non considerare l’elevato grado di conflittualità che intercorreva tra gli imputati e gli offesi, sfociati in denunce reciproche, una delle quali aveva fatto scaturire un processo che si sarebbe aperto pochi giorni dopo il fatto, circostanze queste che del tutto comprensibilmente indussero a puntare l’attenzione sulla coppia in oggetto. E’ dunque del tutto giustificata la valutazione in termini di assoluta correttezza operata dai giudici di merito sul modo con cui vennero condotte le indagini sui versanti che apparivano di maggiore interesse investigativo, a dispetto di altri fronti, accreditati da indicazioni del tutto evanescenti e incontrollabili che avrebbero determinato dispersione di energie, come si dirà nel prosieguo.
Il secondo motivo è infondato perchè muove tra l’altro da un errore di fondo, quello secondo cui le bobine delle registrazioni andavano allegate ex art. 431 c.p.p. agli atti del processo: sul punto deve essere ricordato che ai sensi dell’art. 49 disp. att. c.p.p., "i nastri o i supporti contenenti le riproduzioni fonografiche o audiovisive sono racchiusi in apposite custodie numerate e sigillate" ed è proprio per evitarne il deterioramento che i nastri o i supporti possono essere conservati anche in contenitori separati dagli atti processuali (v. art. 49 disp. att. c.p.p., comma 3).
Non è un caso che vadano trasmessi al giudice dell’impugnazione, solo a richiesta, come disposto dall’art. art. 24 regolamento c.p.p..
Orbene, nessuna forzatura è quindi dato riscontrare, tanto più che la difesa ha dimostrato di aver potuto utilizzare dette conversazioni ritenute di interesse, raccolte nella primissima fase delle indagini, messe a disposizione delle difese dopo il deposito ex art. 268 c.p.p., cosicchè nessun vulnus al contraddittorio è stato inferto.
Sulla portata di dette conversazioni, che vanno valutate non atomisticamente, ma in correlazione con gli elementi successivamente acquisiti, la considerazione dei giudici di merito non può essere sostituita con una alternativa lettura, tanto più che è stato compiutamente spiegato, quanto ai dialoghi raccolti in casa R., che i due imputati erano convinti di essere nel mirino e quindi cercavano di allontanare sospetti, ostentando tranquillità, parlando del delitto con distacco e sufficienza, ancorchè lo stesso R. in un passo di conversazione riportato a pag. 47 della sentenza di primo grado, si sia lasciato andare ed abbia detto alla moglie di avere paura, "come quella sera che erano andati a Como".
Parimenti, per quanto riguarda le primissime dichiarazioni del F., le stesse non furono correttamente prese a metro di valutazione, se non in funzione dello sviluppo successivo del pensiero del testimone che progressivamente, dopo il trauma, acquisì lucidità e potè fare fronte compiutamente alle richieste di chiarimento che gli venivano avanzate. Pretendere, come vorrebbe la difesa, di isolare queste dichiarazioni dal contesto delle emergenze disponibili, è operazione assolutamente non corretta e quindi non consentita, di talchè il vizio denunciato non ricorre e non può avere riflessi sulle fasi e sugli atti successivi.
Nè migliore fortuna può avere la doglianza sollevata (sub 3), quanto al mancato deposito e quindi alla mancata valutazione della relazione del RIS, in sede di udienza preliminare: infatti, nessuna limitazione al diritto di difesa è dato riscontrare, poichè la relazione del RIS venne prodotta seppure in limine in sede di udienza preliminare e la sua portata non era comunque tale da poter neutralizzare le prove raccolte a giustificazione del rinvio a giudizio degli imputati. Infatti, come poi i giudici di merito rileveranno, non poteva essere particolarmente valorizzato il dato della mancata acquisizione di tracce relative ai due imputati sul luogo del delitto, atteso che gli stessi operarono con guanti ed organizzarono l’operazione omicidiaria – secondo il loro stesso iniziale racconto – in modo tale da introdursi, appena usciti dalle scale condominiali del locus commissi delicti, nel loro locale adibito a lavanderia, distante trenta passi dal portone della casa delle vittime, lavarsi e cambiarsi di abito, raccogliendo il tutto in un fardello che venne poi lasciato all’interno del cassonetto ubicato vicino al cimitero che il R. (di professione netturbino), sapeva essere il primo sito che sarebbe stato smaltito il mattino seguente.
Realtà che veniva ritenuta ampiamente giustificativa la rilevata assenza di tracce dei due imputati sul luogo del delitto.
Nessuna violazione è ancora ravvisarle nella scelta operata dalla corte territoriale per non avere accolto la richiesta di integrazione probatoria ex art. 603 c.p.p. avanzata dalla difesa (motivo sub 4):
sul punto è bene ricordare che in tema di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in sede di appello, secondo il consolidato orientamento di questa Corte (ex pluribus Sez. 1^, 27.5.2010, n. 27542, Galluccio), l’art. 603 menzionato reca diversità di previsione a seconda che si tratti di prove preesistenti o concomitanti al giudizio di primo grado, emerse in un diverso contesto temporale o fenomenico, ovvero di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio.
Nel primo caso il giudice d’appello deve disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, nel secondo deve rinnovare l’istruzione, osservando i soli limiti del diritto alla prova e dei requisiti della stessa.
Relativamente alla prima ipotesi, in considerazione del principio di presunzione di completezza dell’istruttoria compiuta in primo grado, la rinnovazione del dibattimento in appello è istituto di carattere eccezionale, a cui va fatto ricorso solo se il giudice nella sua discrezionalità, non sia in grado di decidere allo stato degli atti, con il che in caso di rigetto dell’istanza avanzata, la motivazione può essere implicita e desumibile dalla struttura argomentativa della sentenza d’appello, con cui viene evidenziata la sussistenza di elementi sufficienti all’affermazione della responsabilità dell’imputato.
Nella presente fattispecie la corte ha correttamente opinato nel senso che si avesse riguardo a prove non sopravvenute (fatta eccezione per le dichiarazioni di Ce.Ya.) valutandone non necessaria l’acquisizione per addivenire alla decisione, dimostrando in positivo, con spiegazione immune da vizi logici, la sufficiente consistenza e l’assorbente concludenza delle prove già acquisite (su cui si tornerà trattando delle singole doglianze).
La censura di mancata ammissione di una prova decisiva si risolve, una volta che il giudice abbia indicato in sentenza le ragioni della non ammissione della prova ex art. 603 c.p.p., in una verifica della logicità e congruenza della relativa motivazione correlata al materiale probatorio raccolto ed apprezzato e l’impugnata sentenza ha motivato diffusamente sulle ragioni della raggiunta completezza dell’indagine probatoria: non va dimenticato che l’esercizio del potere di rinnovazione dell’istruttoria si sottrae, per la sua natura discrezionale, allo scrutinio di legittimità, nei limiti in cui la decisione del giudice di appello presenti, come nel caso di specie, una struttura argomentativa che evidenzi la sussistenza di fonti sufficienti per addivenire ad un compiuto giudizio di responsabilità (Sez. 6^, 21.5.2009, n. 1026, Messina).
Quanto invece alla prova nuova, rappresentata dalle dichiarazioni di Ce.Ya., è stato ampiamente dimostrato come il prevenuto, ancorchè risultato compagno di cella del M.A., non potesse fornire alcun contributo informativo utile, attesa la sua assoluta estraneità ai fatti di causa, ragion per cui suona come ineccepibile la scelta di disattendere la richiesta difensiva.
Quanto ai vizi rilevati sull’intervenuta sottovalutazione delle dichiarazioni di F. rese in sede di indagini, con valorizzazione delle sole dichiarazioni rese in dibattimento, laddove le prime erano parte del compendio probatorio, per esser state acquisite ex art. 431 c.p.p. sull’accordo delle parti, va sottolineato che la corte territoriale non si è affatto nascosta che nella prima fase il F. avesse manifestato difficoltà a ricordare, avesse fornito dati confusi e contraddittori sull’identità del suo aggressore (peraltro mai indicato come soggetto di origine nordafricana, quanto indicato come soggetto dalla carnagione olivastra, con occhi scuri, capelli folti e neri), ma ha compiutamente argomentato come il teste abbia plausibilmente spiegato le sue difficoltà non tanto nel fare affiorare il ricordo momentaneamente offuscato a causa del trauma, quanto la sua difficoltà a credere che ad inveire su di lui fosse stato il R., suo vicino di casa che riteneva persona per bene e che dichiarava di aver riconosciuto distintamente nel momento in cui aprì la porta di casa C., tanto da essersi chiesto cosa ci facesse in quel luogo.
La spiegazione fornita dal testimone va esente da qualsivoglia censura di implausibilità, ragione per cui va respinta anche la critica secondo cui la corte territoriale avrebbe sottovalutato l’importanza del passaggio di conversazione, in cui il F. si sarebbe espresso, secondo l’accusa con la frase "E’ stato R. O." e secondo la difesa con la frase "E stato uscendo":
correttamente i giudici di secondo grado, consci della necessità di operare una valutazione complessiva e non atomizzata dei singoli elementi, hanno attribuito al dato un’infima rilevanza, poichè la spiegazione fornita dal testimone sulla sua difficoltà a credere che potesse esser stato il R. ad averlo aggredito, nonchè la dolorosa fermezza con cui questi ebbe a ribadire le sue affermazioni, hanno offerto un solidissimo ancoraggio, che non poteva ammettere letture alternative al fatto che F. ebbe a riconoscere subito il R., ma che non riuscì sulle prime a darsi spiegazione della sua presenza in quel luogo.
Nessun vizio di illogicità è dato riscontrare come vorrebbe la difesa, posto che il giudizio di affidabilità sulla testimonianza non è necessariamente legato al momento in cui la testimonianza sia resa, ma va espresso alla luce di una complessiva ponderazione che tenga conto anche delle ragioni per le quali il ricordo sia stato esternato con difficoltà: sul punto il F. è stato ritenuto credibile, perchè ha plausibilmente spiegato la temporanea rimozione del ricordo del R. sul luogo del massacro, senza accreditare neanche lontanamente la tesi difensiva dell’esser stato lo stesso pesantemente condizionato dagli investigatori. Nessuna sfasatura in termini di logicità e congruenza del ragionamento è dato cogliere in questo passaggio della decisione, tanto più che la corte territoriale ha anche sottolineato come sia stata proprio la circostanza di essersi trovato di fronte a soggetti conosciuti che sollecitò il R. a colpire anche i due ignari spettatori che, per dirla con una sua espressione, "non si erano fatti i fatti loro".
Ad opinare diversamente non poteva portare il fatto che in una pagina della Bibbia, il R., una volta intrapresa la scelta di contrastare la confessione resa, abbia scritto che il F. era stato pagato per accusarli (motivo sub 10): sul punto la corte di merito ha trascurato ogni valutazione del dato, ritenendolo del tutto inconsistente nell’economia del ragionamento probatorio, trattandosi di ulteriore dato espressivo solo della volontà del R. di cambiare ad un certo punto la strategia difensiva. Nè poteva ritenersi risolutivo in sede di ragionamento probatorio, il fatto che fosse stata rinvenuta traccia da schizzo del sangue del F. sul muro dei gradini della rampa di scale che dal pianerottolo dei C. portava alla casa del F. stesso, atteso che la traccia è stata considerata del tutto compatibile con la ricostruzione operata, secondo cui il F. fu colpito sul pianerottolo di casa C., dove poi venne rinvenuto.
Nè possono avere pregio i motivi sub 6, 7, 8, 9 ed 11 che ancora si incentrano sulla dichiarazione del testimone F., in quanto ai limiti dell’ammissibilità, avendosi riguardo a mera ripetizione di doglianze già espresse nei gradi precedenti, su cui è intervenuta adeguata motivazione (v. pagg. 191 e segg. sent. di primo grado e pagg. 73 e segg. della sentenza di appello). Va ricordato che correttamente i giudici di merito hanno ritenuto del tutto legittimi, (quanto doverosi), i ripetuti interventi degli investigatori presso il testimone, ricoverato in gravissime condizioni in ospedale, con difficoltà a parlare perchè operato alle corde vocali, onde apprendere da lui (unico teste oculare) indicazioni utili per indirizzare le indagini. Ciò che è stato sottolineato nelle sentenze di merito è che, anche ammesso il carattere suggestivo delle domande rivolte dai carabinieri, il teste sia avanti ai pubblici ministeri, che avanti ai giudici, ha sempre tenuto fermo di aver avuto distinti in mente i tratti del R. come suo aggressore, ma di aver esitato a menzionarlo fin ab initio, perchè voleva capire come fosse stato possibile che un normale condomino, con cui non aveva mai avuto nessun contrasto, si fosse accanito così brutalmente su di lui e su sua moglie.
La valorizzazione di questa versione non espone la motivazione della sentenza ad alcuna seria critica di illogicità o contraddittorietà.
Non potevano portare la corte ad opinare diversamente le dissertazioni della difesa, accreditate da una consulenza di esperto in neurofisiologia che sono state correttamente ritenute a rilevanza del tutto soccombente, a fronte di un ricordo di realtà nitida (presenza del R. mentre esce da casa C.), ma semplicemente incomprensibile, come ha lucidamente rappresentato l’interessato F. ("perchè come le ripeto io, sempre fin dal primo istante che mi sono svegliato la persona che mi ha colpito era lui, questo era fuori di dubbio, questa era la sicurezza che avevo assoluta però non capivo il perchè…"). Nè ha pregio la censura sulla asserita nullità delle dichiarazioni del F. per il loro carattere indotto, atteso che come è stato annotato, fu lo stesso testimone ad avere smentito di aver subito un qualsivoglia condizionamento, ma di esser stato sollecitato ad esternare un ricordo vivo fin dal primo istante di una realtà che faceva fatica ad accettare perchè non comprendeva, non solo perchè a questa Corte non è consentita una rivalutazione dei singoli contributi, ma perchè la censura è ancorata a dati di fatto divergenti dalle emergenze disponibili.
Assorbito è quindi anche il motivo relativo alla inutilizzabilità delle dichiarazioni del F. rese in dibattimento, non essendo stato consentito alla difesa di interrogare il teste non già sulla base dell’annotazione, bensì sulla base della trascrizione delle sommarie informazioni del teste disposta dalla difesa, in primis perchè corretto è stato l’operato della corte territoriale nell’aver limitato le contestazioni della difesa in relazione agli atti contenuti nel fascicolo del pm, perchè così dispone il comma 1 dell’art. 500 c.p.p., e poi perchè il ricorrente non ha specificato in che misura le lamentate lacune o illogicità ricavabili dal testo della sentenza sarebbero state evitate, qualora si fosse provveduto alla contestazione del contenuto delle trascrizioni, disposte tra l’altro successivamente all’esame del testimone e rivelatesi inidonee a svalutare il peso dell’affermazione ripetuta dal F. in dibattimento, quanto alla sua netta percezione del R. come suo aggressore. Con il che sono state logicamente spiegate dai giudici di merito le ragioni per cui non siano state valorizzate le primissime indicazioni del testimone, intervenute in presenza del difensore e dei figli, al punto che va ritenuta preclusa ogni ulteriore valutazione nel presente scrutinio di sola legittimità.
Nessuna contraddittorietà o manifesta illogicità è dato riscontrare nella sentenza impugnata, neppure quanto alla ritenuta consistenza del dato probante rappresentato dalla traccia ematica rilevata sull’auto del R. (motivi sub 12, 13, 14, 15 e 16).
Intanto deve essere rilevato che la presenza di traccia sul battitacco della portiera dell’auto dei due imputati è un dato storico, raccolto il 26.12.2006, che i giudici di merito non potevano sottovalutare e che la traccia era particolarmente nitida, tanto da consentire di esaltare con estrema puntualità il profilo genetico.
Il vettore della traccia è stato plausibilmente ritenuto il R., per il semplice fatto che solo lui ebbe a salire a bordo dell’auto lato guida, se non prima (come è stato ritenuto per fuggire dal locus commissi delicti), quanto meno la sera dopo il fatto quando venne invitato in caserma; i controlli di polizia sull’auto vennero sempre effettuati senza salirvi a bordo, in ragione delle modeste dimensioni dell’auto stessa (trattandosi di auto Seat Arosa).
Sulle modalità di trasporto della traccia, il R. offrì una sua ipotesi (la goccia gli sarebbe caduta dai capelli al momento della fuga dalla corte di Via Diaz, la sera del fatto), a cui fu contrapposta altra ipotesi dai giudici di secondo grado (la goccia poteva esser stata trasportata da un piede, sporcatosi al momento del cambio di abiti, sempre la sera del fatto) altrettanto plausibile: il punto non è stato correttamente ritenuto di particolare incidenza nel percorso valutativo, poichè il dato storico era inconfutato (presenza della traccia sull’auto dell’imputato), ragion per cui nel presente contesto, non era indispensabile individuare con certezza assoluta il mezzo di veicolazione della traccia per poterne apprezzare la portata probante.
I giudici di merito hanno ritenuto, con motivazione esente da vizi logici o incongruenze, che la nitidezza della traccia induceva ad opinare nel senso che la stessa fosse stata portata direttamente dal luogo del delitto, escludendo che potesse esser frutto di contaminazione del luogo del delitto, oggetto di operazioni di lavaggio dei pavimenti per l’eliminazione dei segni dell’eccidio, ragion per cui sul punto non è consentito ritornarvi in detta sede, attesa la concludenza del ragionamento.
Quanto all’esclusione operata sulla seria ipotizzabilità che la traccia sia stata portata da terze persone, diverse dal R., ovvero dal R. stesso, ma a seguito di trasferimento secondario o terziario del sangue dalla sua sede originaria, i giudici di merito hanno ancorato il loro ragionamento al fatto che trattandosi di traccia di alta qualità, con una componente ematica prioritaria, si doveva escludere che potesse aver subito tanti passaggi e che fosse stata esposta a fattori degradanti. Non solo ma i giudici rilevavano altresì come subito dopo la strage, tracce residue di sangue nel cortile non ne furono rilevate, proprio a causa dell’elevatissimo grado di compromissione dell’ambiente che rese vano ogni tentativo di rinvenire orme, impronte, tracce di sangue, a partire dall’ingresso della palazzina del ghiaccio verso l’esterno, giungendo a ritenere del tutto plausibilmente, sulla base delle indicazioni di natura scientifica offerte dal CT del Pm, che la traccia tanto nitida sul battitacco dell’auto fu molto verosimilmente trasportata in stretta concomitanza temporale con l’eccidio e fu, altrettanto verosimilmente, di diretta derivazione dalla scena del delitto, conclusioni queste assolutamente in linea con quanto poi emerso per altre vie.
Gli argomenti spesi dalla difesa per condurre ad un’alternativa valutazione, anche supportati dai contributi del consulente di parte, non possono trovare alcun riscontro in questa sede di pura legittimità. Nè migliore fortuna sortiscono gli argomenti spesi dalla difesa per accreditare la scarsa affidabilità di quanto riferito dai verbalizzanti sugli autori e sulle modalità della perquisizione operata all’interno dell’auto, avendo i giudici di primo grado fornito adeguata e plausibile spiegazione del fatto che il verbale della perquisizione sia stato di fatto sottoscritto da operatori che pur avendo partecipato alle complesse operazioni che si resero necessarie dopo il massacro, non operarono direttamente all’atto perquisizione, in considerazione dell’avvicendamento dei singoli nelle varie operazioni, avvicendamento che comportò che la sottoscrizione dei singoli atti talora venisse fatta da coloro che erano momentaneamente presenti al momento del completamento della scritturazione del verbale, piuttosto che coloro che parteciparono all’operazione stessa. Per quanto discutibile come prassi, la corte territoriale ha ritenuto che tale modus operandi fosse comprensibile in ragione della concitazione del momento, ma che soprattutto non consentisse di ipotizzare – come ha adombrato la difesa – una presa di distanza dall’atto oltremodo sospetta degli autori di quell’atto medesimo, con valutazione che è logicamente accettabile e sulla quale – proprio per il substrato di coerenza logica che la sorregge – non è dato controvertere.
Manifestamente infondato è poi il motivo con cui è stata nuovamente eccepita la nullità o inutilizzabilità dell’atto di polizia, consistito nel prelievo della traccia, ancorchè la corte territoriale abbia correttamente affermato che in quel momento il R. non era formalmente indagato – ancorchè fosse sospettato – e che quindi non era necessaria la presenza del difensore e che gli accertamenti tecnici, proprio perchè irripetibili, vennero doverosamente compiuti nelle forme di cui all’art. 360 c.p.p., a nulla rilevando che la suddivisione e la preparazione dei prelievi sia avvenuta in precedenza: sul punto va ricordato che il primo momento, quello del prelievo del DNA dal materiale biologico rinvenuto, poichè consiste in un mero rilievo non comportante valutazioni, non ha carattere di accertamento tecnico.
Infatti, l’accertamento tecnico non può avere riguardo alla raccolta o al prelievo di dati, bensì al loro studio ed alla loro valutazione critica (Sez. 1^, 31.10.2007, n. 14852, Piras e altri).
Infondati sono anche i motivi sub 17, 18, 19, 20, 21, 22 e 23 che attengono alle confessioni rese dai due imputati. Sul fatto che le confessioni dei due imputati siano state frutto di una deliberazione non coartata, ancorchè necessitata dalla incombenza degli eventi, i giudici di merito hanno fornito nella sentenza esaustiva motivazione, in aderenza alle emergenze disponibili, costituite soprattutto dalle stesse indicazioni dei due imputati, captate a distanza, allorquando si manifestarono più sereni, una volta liberatisi del pesante macigno che li opprimeva ed a fronte dei loro commenti sulla disponibilità nei loro confronti manifestata dagli investigatori, mai accusati di invadenza psicologica a loro danno (v. sent. 1^ grado dialoghi tra B.R. e R.O.: "Guarda che non sono cattivi.. No io veramente ho trovato delle brave persone… Forse stiamo meglio adesso che prima…. Io sono contenta di aver fatto quello che abbiamo fatto". Detto passaggio non sconta i deficit motivazionali e le forzature normative che sono stati rilevati, poichè se è vero, come la corte ha osservato, che indubitabilmente gli imputati siano stati sottoposti ad una pressante, ma non vietata sollecitazione a fornire quanto a loro conoscenza, attesa la gravità dei fatti che imponeva venisse fatta piena luce, dall’altro non può essere ritenuto che sia stata operata pressione psicologica tale da limitare la libertà di autodeterminazione, posto che la sollecitazione ad aprirsi in vista del conseguimento di benefici non può affatto essere assimilata alla coartazione psicologica vietata:
detto passaggio argomentativo sviluppato da pag. 42 in avanti della sentenza impugnata, è stato condotto con lucidità e coerenza, in aderenza ai dati disponibili e non consente riletture nei termini offerti dalla difesa, secondo cui i due imputati sarebbero stati vittima di una vera e propria circonvenzione, ad opera dei due militari che intervennero in carcere per operare i rilievi dattiloscopici. Non poteva portare ad opinare in tale senso – come in effetti non portò- il fatto che nella conversazioni in carcere tra i due, prima della decisione di confessare, i medesimi abbiano ribadito la loro innocenza, trattandosi di colloquio condotto nella piena consapevolezza di essere ascoltati a distanza. Attitudine dimostrativa della libertà di determinazione in cui si mossero gli imputati (seppure nella drammaticità della loro condizione) è stata riconosciuta ad alcuni passi di colloqui intercorsi tra i due, che spesero apprezzamento per l’opera di aiuto loro prestata dai militari intervenuti, nonchè alle annotazioni di gratitudine verso il mar.
F. che vennero vergate sulla Bibbia dalla mano del R., con corretta procedura valutativa, che impone l’ancoraggio ai dati più obiettivi, quali quelli documentali, a scapito di quelli meramente congetturali.
La corte territoriale ha con adeguato argomentare escluso qualsivoglia forzatura o coartazione psicologica, con il che non è consentito parlare di ricadute in termini di corretto contraddittorio e di corretta formazione della prova, proprio in ragione del fatto che i contributi dichiarativi del R. sono stati accompagnati da annotazioni vergate di proprio pugno a pieno contenuto confessorio – quanto meno nel primo periodo di detenzione – che hanno portato i giudici di merito a ritenere sgombrato il campo dai sospetti avanzati dalla difesa sulla genuinità ed affidabilità delle dichiarazioni rese in sede di confessione.
Deve ancora essere rilevato che la regola-ponte utilizzata dai giudici di merito per ritenere molto poco plausibile che un soggetto si autoaccusi, ancorchè innocente di delitti tanto efferati, è regola di giudizio efficace, correttamente utilizzata, peraltro non isolatamente nel quadro della complessiva valutazione, per addivenire ad escludere la strumentalità della confessione (v. pag. 51 sent. di 1^ grado: "E’ contro ogni principio di ragionevolezza potere anche solo ipotizzare che due persone contemporaneamente scelgano di autoaccusarsi di crimini efferatlssimi pur sapendo di essere innocenti… a fronte di false prospettazioni premiali…").
Detta regola è stata utilizzata unitamente ad altri canoni di giudizio, facenti leva prima di tutto sulla obiettività del dato documentale, rappresentato dalle annotazioni sulla Bibbia vergate dal R., in cui lo stesso manifestava l’acredine verso la famiglia M.A. – C.R., ma chiedeva perdono per quanto fatto e da una lettera scritta al sacerdote don Ba., a chiara significazione confessoria (a tacere poi delle confessioni rese al compagno di cella Ta.), nonchè sulla particolarità di taluni contributi informativi offerti dai due imputati, espressivi di un patrimonio conoscitivo in possesso solo di chi avesse attivamente partecipato al delitto.
L’intreccio di questi parametri valutativi ha consentito ai giudici di merito di operare con prudenza il passaggio dal fatto noto al fatto ignoto, con operazione inferenziale assolutamente corretta, che preclude in detta sede le valutazioni alternative sollecitate dalle difese.
Quanto ancora alle numerose incertezze manifestate dai due imputati in termini di "non so" e "non ricordo", il dato non è stato correttamente estremizzato in termini di inaffidabilità del ricordo, come suggerivano le difese, attesi i profili della personalizzazione del ricordo, la non facilità del ricordo sui particolari del narrato e la particolare difficoltà per soggetti acculturati come la B. a riferire i singoli passaggi della rappresentazione, attese le comprensibili difficoltà espressive, senza contare che la corte territoriale non si è affatto nascosto che il R. aveva annotato sulla Bibbia che la verità esternata era parziale, di talchè è assolutamente legittimo il pensiero dei giudici di merito sulla reticenza dei due coniugi imputati, vuoi per evitare di appesantire la loro condizione, vuoi per una comprensibile riserva mentale, vuoi per una non completa fiducia negli investigatori.
Ciò detto, deve però essere ribadito che la valutazione di affidabilità dei dati dichiarativi deve essere operata prima di tutto sulla ossatura della rappresentazione ed i giudici di merito hanno opportunamente valorizzato la convergenza delle due confessioni sui nuclei centrali delle rivelazioni, con procedura conforme ai criteri di valutazione della prova, esaltando taluni profili che sono stati dettagliati da pag. 86 della sentenza di primo grado e da pag.
61 della sentenza di secondo grado. Profili che non possono essere ricondotti a congetture e quindi screditati come vorrebbe la difesa:
sul punto questa Corte ritiene che il motivo sub 22 è assolutamente generico, in quanto riproduttivo di deduzioni svolte nel precedente grado di giudizio, deduzioni che il giudice di appello ha analiticamente esaminato e su cui è intervenuta puntuale motivazione da pag. 62 in avanti, che è stata del tutto trascurata.
Le valutazioni sul merito operate dalla corte territoriale sono sorrette da motivazione congrua ed immune da manifesta illogicità e quindi si sottraggano alla disamina in detta sede.
Manifestamente infondato è ancora il motivo di gravame sub n. 23, secondo cui sarebbe stata omessa la motivazione sulle proteste di innocenza dei due imputati, atteso che entrambe le sentenze di merito hanno dimostrato, con un incedere logico ed argomentativo ineccepibile, la gravosità del compendio probatorio portato dall’accusa che inevitabilmente si opponeva alle comprensibili proteste di innocenza elevate nelle primissime fasi procedimentali ed in quella processuale, successiva all’udienza preliminare dai due imputati, ragion per cui non può essere seriamente ravvisato alcun vuoto motivazionale al riguardo.
Quanto alla valutazione delle prove scientifiche (motivo sub 24), ancora deve essere sottolineato che i giudici dell’appello hanno affrontato con rigore e prudenza da pag. 80 in avanti le incongruenze rilevate dalla difesa, non prima di aver sottolineato che i coniugi avevano operato con guanti (il che spiegava la mancanza di tracce sulle maniglie delle porte, atteso che i guanti vennero subito dopo il massacro sfilati), che avevano preparato nella loro abitazione tutto l’occorrente per un cambio integrale di vestiti da effettuare velocemente, con raccolta del materiale immondo da eliminare nel cassonetto in un fardello da smaltire, operazione resa possibile dal fatto che la loro abitazione distava solo trenta passi dal portone del locus commissi delicti; che ad impedire la visuale in casa R. era stato posizionato il camper di costoro, che il tutto avvenne nell’arco di pochi minuti attorno alle 20,20/ 20,25, quindi in orario di scarsa visibilità, che consentì ai coniugi di sottrarsi alla vista dei vicini, che del tutto eccezionalmente la loro auto era stata quella sera parcheggiata fuori della corte.
Circostanze queste che fornivano plausibile spiegazione alla rilevata mancanza di tracce dei due coniugi nel locus commissi delicti e del loro passaggio nella corte e dunque precludevano di tirare le affrettate conclusioni patrocinate dalla difesa, secondo cui l’assenza di tracce degli imputati andava interpretata nel senso di estraneità degli stessi al fatto.
Sugli altri argomenti scientifici che secondo la difesa sosterrebbero l’innocenza dei R., la corte ha argomentato avvalendosi – come è doveroso fare – dei dati obiettivi disponibili di sicuro riferimento; per accreditare il fatto che la Ch. sia stata colpita sul pianerottolo dei C., la corte territoriale ha ancorato il suo opinare all’emergenza che in quel luogo venne rinvenuta la sua protesi dentaria e per provare che la stessa sia stata inseguita fino all’interno del suo appartamento dove venne trovata esanime, ha valorizzato il dato delle numerose ferite alla schiena riportate, nonchè la traccia lasciata sul muro delle scale.
Tale ricostruzione basata su dati incontestabili che si intrecciano con la versione del F. di esser sceso sul pianerottolo dei C. seguito dalla moglie e di aver visto il R. che sorprendentemente usciva dalla abitazione di questi ultimi, appare inattaccabile e non poteva ritenersi indebolita da alternative spiegazioni fondate su dati del tutto evanescenti, di incerta natura (macchie da schizzo o imbrattamento in casa F., strappo o taglio della tenda del salotto di casa F., ordine o disordine in casa F.) e soprattutto di dubbia significazione.
Anche sul punto l’argomentare della sentenza non merita censura in quanto in linea con il dettato normativo che come si è detto sopra impone di pronunciare condanna quando il dato probatorio acquisito lasci fuori solo eventualità remote, la cui realizzazione non trova adeguata conferma nelle emergenze processuali.
Quanto al motivo concernente il vizio di motivazione sugli appunti dei due imputati (sub 25), va detto che la difesa si duole in particolare che siano state esaminate solo alcune delle annotazioni riportate dal R. sulla Bibbia, e ripropone una serie di appunti in cui ricorrono il concetto di croce, la prospettiva della sanzione ingiusta, la proclamazione della loro innocenza, la volontà di lottare per l’affermazione della verità, la fermezza di non volere pagare per quanto non abbiano (lui e la moglie) commesso.
Sul punto deve essere osservato che la corte territoriale non ha operato strabica mente, come sostiene la difesa, poichè da pag. 45 in avanti della sentenza sono stati elencati gli appunti manoscritti del R., riportando sia quelli di aperta confessione, che quelli di invettiva per essere stato incastrato e per essere vittima di un gioco perverso: la disamina che la corte ha fatto non sconta alcun vizio di carenza o di settarietà, se vero è che alle indubbie confessioni, sono state affiancate le richieste di perdono, i rimpianti per occasioni mancate di intervento delle forze dell’ordine richiamati quasi a giustificare il peggio che capitò, il dolore per la perdita di quanto avevano costruito, le note di vittimismo e la volontà di combattere per contrastare le accuse con nuovi argomenti e strumenti difensivi.
La Corte non si è affatto nascosta il carattere bifasico delle riflessioni dell’uomo che segnarono i due momenti, quello della confessione e quello della ritrattazione. Ciò su cui però è stato fatto leva è in primo luogo il fatto che la ritrattazione non venne mai dal R. indicata quale manifestazione di verità nei suoi appunti ed il dato che egli non diede mai ragione del perchè scrisse di aver ucciso, di aver tolto il dono della vita a M.Y., alla madre, alla nonna ed a Ch.Va. se era effettivamente estraneo ai fatti. La mancanza di risposta a questo decisivo interrogativo ha portato la corte territoriale a svalutare la portata delle riflessioni successive a contenuto difensivo, con un passaggio motivazionale che non può essere censurato e che ha tratto ulteriore incisività con il richiamo alla lettera scritta a don Ba., in cui ancora venne ribadito il senso di colpa ("non ci siamo ancora resi conto di ciò che abbiamo fatto, il perdono, il pentimento si contrappongono all’odio ed alla rabbia… ").
La portata di questi dati probanti non poteva che condurre a ritenere del tutto remota, l’eventualità che il R. avesse confessato un quadruplice omicidio in un momento di leggerezza e nella seria convinzione che la risposta punitiva dello Stato sarebbe stata del tutto indulgente, come dallo stesso abbozzato nel momento della ritrattazione.
I motivi sub 26, 27, 28, 29 e 30 sono manifestamente infondati.
Come già correttamente rilevato in sentenza, il gip aveva ritenuto la sussistenza della violazione di legge ex art. 104 c.p.p. per gli interrogatori resi dagli indagati, il giorno 8.1.2007 e per quelli resi nella prima parte del 10.1.2007, mentre nei momenti successivi gli interrogatori erano stati resi dagli indagati dopo aver conferito con il difensore; lo stesso interrogatorio avanti al gip del 12 gennaio avvenne dopo che gli indagati avevano avuto il colloquio con il difensore nel pomeriggio del 10 gennaio, con il che nessuna forzatura era apprezzabile, senza contare che ammesso e non concesso che si fosse profilata una nullità, la stessa non venne eccepita (con conseguente effetto sanante) prima del compimento delle formalità di apertura dell’atto.
La presenza dei carabinieri intervenuti per le indagini dattiloscopiche nei momenti precedenti l’interrogatorio, non può rivestire alcuna incidenza sulla legittimità dell’interrogatorio stesso, non avendo i medesimi operato alcuna raccolta di dichiarazioni. Quanto poi alla ritenuta incompatibilità dell’unico difensore nel patrocinio di entrambi, la corte ha correttamente scritto a pag. 39 che i due indagati al momento dell’assunzione della difesa protestarono entrambi la loro innocenza, che a partire dal 10.1.2007, ciascuno dei due si assunse l’esclusiva paternità dell’eccidio, senza con ciò profilare alcun conflitto di interessi, che si sarebbe materializzato ove uno avesse accusato l’altro.
Va ricordato che ad integrare la incompatibilità non è sufficiente la diversità di posizioni giuridiche o di linee di difesa tra più imputati, ma occorre che la versione difensiva di uno di essi sia assolutamente inconciliabile con la versione fornita dagli altri assistiti, così da determinare contrasto radicale e insuperabile, tale da rendere per il difensore impossibile sostenere tesi tra loro logicamente inconciliabili (Sez. 1^, 7.10.2009, n. 41305, Gjoka).
Sul punto è bene aggiungere che il comune difensore degli allora indagati, non appena si accorse che poteva profilarsi una situazione di incompatibilità, lo fece presente alla B., che per sua scelta optò per la strada dell’ammissione dei fatti; condividendo la svolta difensiva del marito e rimuovendo così sul nascere il profilo di incompatibilità emergente. In ogni caso deve essere ricordato che la nullità derivante dall’inosservanza dell’art. 106 c.p.p. sarebbe classificabile come di ordine generale a regime intermedio, in quanto riconducibile alla previsione dell’art. 178 c.p.p., lett. c), con il suo conseguente assoggettamento al regime di cui all’art. 182 c.p.p., comma 2 (Sez. 1^, 31456/2008 succitata).
Sul punto ha correttamente rilevato la sentenza impugnata che non furono elevate eccezioni prima che si procedesse all’interrogatorio.
Il fatto che gli interrogatori dei due si siano in parte sovrapposti con la mancata annotazione delle sospensioni nei rispettivi verbali redatti, non configura profili di nullità, tanto più che gli interrogatori vennero registrati e quindi è possibile risalire alle pause intercorse per motivi investigativi.
E’ poi del tutto privo di fondatezza, come già rilevato dalla corte territoriale, l’asserita violazione dell’art. 199 c.p.p., per non esser stato dato avviso ai due coindagati della facoltà di astenersi dal deporre, avendosi riguardo a prossimi congiunti: la norma stabilisce infatti che l’avviso deve essere dato ai testimoni e non anche agli indagati o imputati per una ragione fin troppo evidente, che sta nel fatto che questi ultimi, a differenza del testimone, hanno diritto a mentire.
Non sono fondati i motivi sub 31), con cui è stata dedotta la violazione dell’art. 192 c.p.p. nel percorso valutativo della prova, quanto alla posizione di B.R., che sarebbe stata coinvolta a detta della difesa, per trascinamento, atteso che le prove che furono maggiormente valorizzate dall’accusa (testimonianza F. e traccia sull’auto) avrebbero avuto esclusivo riferimento al R. e non potevano essere fondanti l’accusa mossa alla medesima. Ma anche sul punto la valutazione operata dai giudici di merito è stata fondata su una base inferenziale solida, – che prescinde dalle dichiarazioni postume del F., obiettivamente vischiose quanto alla B., ovvero dal dato della lieve e fresca ferita riscontrata sulla mano sinistra dell’imputata e coperta da cerotto -, facente leva sui seguenti dati fattuali di sicuro riferimento:
1) la natura ed i tempi dell’aggressione che coinvolgeva più soggetti da fronteggiare e che quindi inevitabilmente comportava la presenza di almeno due soggetti operanti, come era stato conclamato nell’immediatezza, dai rilievi medico legali;
2) l’accertato uso di tre armi non da fuoco, di diverso tipo (due da taglio ed un corpo contundente) che presupponevano più mani;
3) le ferite accertate inferte da parte di soggetto mancino, quale è la B., sul povero m.Y., sulla schiena della Ch. e sull’addome delle altre due donne.
Su questo significativo supporto si sono innestate le confessioni del R. e della B., pressochè contestuali (seppure quella del R. abbia preceduto di poco quella della B.), frutto di comune determinazione – che mal si concilierebbe con l’estraneità della donna – e la sovrapponibilità di versione su un coinvolgimento di entrambi, accumunati da un fine assolutamente condiviso, che era quello di farla finita con una situazione di conflittualità con la famiglia M. – C. che li aveva visti soccombenti nell’ultimo periodo.
La corte territoriale in questo quadro molto bene delimitato (dati obiettivi, contributi dichiarativi e comunanza di movente), ha poi valorizzato i contributi offerti dalla donna con incidenza dimostrativa, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sua partecipazione, rappresentativi della mimica dei colpi infetti al piccolo m.Y. urlante (mimica ritenuta molto più efficace delle parole, attese le difficoltà espositive della donna), sull’intervenuto uso di cuscini effettivamente trovati a fianco delle vittime, sulla predisposizione di una pira fatta di libri per alimentare il fuoco appiccato, sull’intervenuto distacco dell’erogazione dell’energia elettrica operato selettivamente sul contatore di casa C., contributi che per il loro numero e la loro puntualità è stato plausibilmente escluso fossero stati appresi dalle notizie giornalistiche.
E’ dunque agevole osservare come anche sul punto sia stata compiuta un’autonoma e penetrante valutazione delle emergenze, al di fuori di qualsivoglia travisamento delle fonti conoscitive, con corretta applicazione dei canoni ermeneutici di cui all’art. 192 c.p.p., attraverso un tracciato espositivo che ha posto in chiaro il rigore logico del processo di convincimento sulla colpevolezza dell’imputata, che ben si sottrae alle censure avanzate dalle difese.
Anche i motivi relativi al vizio di motivazione sulle cause della morte delle vittime (32 – 33 – 34) sono manifestamente infondati, in quanto si ritorna ad adombrare, senza alcun ancoraggio certo, ma in base a mere congetture e supposizioni, che la B. sia stata insufflata dai carabinieri intervenuti per i rilievi dattiloscopici prima delle sue dichiarazioni e che soprattutto abbia scodellato indicazioni apprese dalla carta stampata e dallo stesso provvedimento di fermo che ben descriveva il fatto di sangue, a danno del piccolo M.Y. e di sua madre, con il che fallace sarebbe stato averle ritenute circostanze frutto di un patrimonio conoscitivo esclusivo di chi sia autore del reato: le argomentazioni sono infarcite di considerazioni in fatto che non hanno ingresso in detta sede e involgono valutazioni in fatto parimenti non consentite.
Va comunque ricordato che i giudici di merito hanno dato atto che la morte dei piccolo M.Y. pacificamente avvenne a seguito dei colpi inferti con la mano sinistra ed in particolare a seguito di coltellata mortale in zona sottomandibolare sinistra, essendo stata impegnata la destra dell’aggressore ad afferrare il braccio per immobilizzare il piccolo con la faccia sulla seduta del divano.
Sono state evidenziate le escoriazioni sul braccio destro, le cinque escoriazioni sul volto, le due ferite di taglio trasversale sulle dita della mano sinistra significative, queste ultime, di una minima azione di difesa operata dal piccolo, prima di essere colpito a morte sul divano del soggiorno ove venne rinvenuto dai soccorritori: sulla base di dati scientifici non discutibili (collimanti, con la riproduzione della condotta descritta a gesti dalla B. come da lei tenuta) è stata ricostruita la causa della morte del piccolo, il cui iter non può oggi essere rimesso in discussione alla luce di insignificanti circostanze, quali l’esser stato o meno il piccolo in piedi sul divano al momento dell’aggressione, circostanze che nessuna incidenza rivestono nel percorso ricostruttivo. Nè maggiore fortuna rivestono le doglianze sulla ricostruzione della causa della morte di C.R., posto che la asserita rilevata presenza di gocce di sangue della donna nella porta interna del uso appartamento ritenuta riferibile alla C. dai consulenti della difesa, al di là dell’evanescenza del dato proprio sulla natura e provenienza delle macchie, non potè prestarsi ad accreditare la tesi semplicistica secondo cui l’aggressore dovesse per forza trovarsi di fronte alla C. quando questa entrò in casa, visto che è stato accertato che gli aggressori entrarono quando la C. R. fece per uscire di casa per andare a riarmare il contatore, la ricacciarono all’interno e la neutralizzarono, colpendola sul cranio, con evidente fuoriuscita di sangue a schizzo che ben potrebbe essere finito sulla porta di ingresso, laddove il corpo dell’aggressore non era tale da interferire fino a fungere da schermo totale. Veniva correttamente valorizzato dai giudici di merito che sia la C.R. che la madre, avevano riportato anche ferite all’addome da colpi inferti da mano sinistra di scarsa profondità, poichè questo dato comprovava che la B., come era stato precisato dagli imputati, dopo aver finito il bambino, aiutò il marito nell’attacco mortale alle due signore: la puntualità di tale riscontro di natura obiettiva ha correttamente consentito di superare qualsivoglia rilievo.
Quanto poi alla morte della Ch., i giudici di merito hanno rilevato che la stessa presentava più ferite da difesa, diversi colpi risultano inferti sulla schiena, alcune da mano mancina (si badi), dati obiettivi questi che consentivano di ritenere che la sua aggressione sia durata di più, che la stessa abbia cercato di scappare, una volta colpita sul pianerottolo dove perse la dentiera, tanto da aver lasciato una traccia appoggiando una mano sul muro delle scale.
Il dato della presenza in casa F. di macchie di sangue, di ciocche di capelli, di cui una sulla tenda, di tenda tagliata o strappata, nonchè il dato delle lacerazioni sul piumino della donna, sono emergenze che correttamente la corte ha ritenuto di scarsa incidenza valutativa a favore della difesa, perchè suscettibili di spiegazione alternativa come dimostrato a pag. 81 e 82 della sentenza e tali da spostare molto poco il baricentro della valutazione.
Pertanto non poteva esserne rilevata una attitudine dimostrativa addirittura dell’innocenza degli indagati (come si sono lanciati a dire i consulenti tecnici di parte, in un eccesso di ruolo), a fronte di un orizzonte probatorio già molto ben delineato da una linea netta tracciata da contributi di risolutiva valenza e significazione, non suscettibile di essere compromessi dal fatto che Ch., pacificamente colpita mentre fuggiva alla morsa dei suoi aggressori, sia stata attinta anche quando stava rientrando in casa dove altrettanto incontrovertibilmente si spense avvelenata dall’ossido di carbonio, forse dopo aver addirittura cercato di aprire una finestra.
Il tutto in ossequio al principio più volte sottolineato della doverosa visione d’insieme e non parcellizzata degli elementi di prova, che il giudice deve avere, onde evitare fughe interpretative sul particolare.
Quanto poi alla ricostruzione operata dai giudici di merito sui tempi dell’allontanamento dei coniugi R. dalla loro abitazione, confortata dalle loro stesse rivelazioni, non vi sono spazi per contrapporre valutazioni alternative, come suggerito dalla difesa, tra l’altro sulla base di ipotesi remote basate su singoli dati di non univoca interpretazione (presenza di sangue Ch. in casa C., o sul terrazzino, verosimilmente trasportato dai soccorritori che aprirono le finestre per dissolvere l’ossido di carbonio), ovvero di incontrollabile verifica, ma soprattutto di alternativa spiegazione (presenza di tre soggetti adocchiati da Ma. e ch. la sera della strage).
La difesa nei motivi sub 35 e 36 ritorna sulla mancata intervenuta percorrenza in sede di indagine di piste alternative e sulla mancata motivazione sul vizio rilevato, ma i motivi sono parimenti inammissibili, in quanto mirano a provocare una nuova valutazione su dati di fatto che i giudici di merito non hanno affatto trascurato, ma che hanno sottovalutato quanto alla loro potenzialità dimostrativa, con argomentare che non è manifestamente illogico e quindi si sottrae alla disamina in sede di legittimità.
E’ stata infatti fornita adeguata motivazione sulla impraticabilità di alternativi fronti di indagine per la insussistenza di concreti spunti investigativi, attesa la inconsistenza del dato riferito da Ma. e ch., quanto alla presenza di un terzetto davanti a Via Diaz 28, ancorchè detto terzetto comprendesse il fratello di C.R., che non aveva rapporti facili con la sorella, poichè nulla di più era emerso.
Veniva aggiunto che occorreva ad estranei alla corte disporre delle chiavi per accedere alla palazzina teatro del massacro e che a fortiori, per entrare nell’alloggio del massacro, prima dell’arrivo dei C., occorreva disporre di chiavi, attesa l’insussistenza di segni di scasso della serratura. Non solo, ma i giudici hanno, con opinare del tutto lineare, sostenuto l’implausibilità del fatto che gli aggressori siano stati uditi dall’inquilino del piano sottostante, per la semplice ragione che gli aggressori in attesa della preda, ben difficilmente avrebbero fatto notare la loro presenza a chi abitava nell’alloggio sottostante, come pretese di accreditare il teste ba., che indicò come sicuramente provenienti dall’alloggio dei C. i rumori da lui uditi, riconducigli invero con altrettanta o meglio maggiore plausibilità, all’alloggio del Ra. (soggetto non udente), adiacente a quello del C. in cui era risultato sopraggiunto il figlio, nonchè la assoluta irragionevolezza in ipotesi quale quella affacciata, che si dovesse interrompere il flusso di energia elettrica dalle ore 17,40, atteso che tale eventualità si sposa solo con la necessità di provocare, una volta entrato, la riuscita del soggetto preso di mira.
Pertanto, le prospettazioni difensive sono state prese in considerazione, ma per essere valutate assolutamente non dirimenti, con argomenti logici e concludenti, su cui non è dato ritornarvi sopra. Veniva ancora aggiunto che era stato considerato anche l’ambiente insano frequentato dal M.A., coinvolto in traffici di stupefacente, come luogo di germoglio dell’azione criminosa, ma nessuno spunto emerse per accreditare questa ipotesi. Nè erano suscettibili di valorizzazione l’intervento di Ce.Ya., che non poteva essere teste diretto sui fatti oggetto del processo e come tale avrebbe solo ritardato la definizione del processo medesimo, ovvero le ragioni di conflittualità che erano emerse tra M. A. e suo cugino e meno che meno i dubbi sollevati dal M. A. sulla responsabilità di B. e R., (verosimilmente da ricondurre alla contrapposizione a prescindere del M.A. agli organi di giustizia, in conseguenza del suo arresto), non potendo ovviamente darsi credito alla rappresentazione delle rivelazioni fatte da soggetto sconosciuto in Tunisia.
Anche la ricostruzione sui tempi dell’eccidio, sul tempo occorso per la fuga, sulla plausibilità di aver potuto guadagnare la fuga senza dare nell’occhio, grazie ad un accurato piano per il dopo eccidio, assolutamente compatibile con il racconto dei due è stata condotta con rigore logico e non si presta a rivalutazioni, risultando ancorata a dati di fatto congruamente valutati.
Anche i motivi attinenti la ritenuta capacità di intendere e volere dei due imputati (motivo sub 37) sono infondati.
Intanto deve essere premesso che è espressione dell’insindacabile apprezzamento di merito la motivata decisione di rigetto della richiesta di accertamento dell’incapacità di intendere e volere dell’imputato al momento del fatto, alla luce di risultanze documentali o di emergenze di causa che non consentano di ipotizzare che all’epoca dei fatti i prevenuti potessero essere affetti da infermità mentale tale da renderli anche solo parzialmente incapaci di intendere e volere (Sez. 5^, 8.4.2008, n. 29906, Notaro).
Va poi aggiunto che sulla base di un consolidato orientamento a cui questa corte intende dare continuità, la perizia sollecitata dalla difesa nei due gradi di giudizio, per il suo carattere neutro, è sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa alla discrezionalità del giudice e pertanto non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo provvedimento di diniego non è censurabile sotto il profilo di omessa acquisizione di prova decisiva: l’unico profilo da prendere in considerazione è quello del vizio di motivazione sull’intervenuta non necessità di disporre la perizia richiesta (Sez. 1^, 1.10.2009, n. 40177, Gaudino).
Sempre alla luce di questo arresto è stato osservato, in uniformità ai contenuti della sentenza delle Sezioni Unite 9163/2005 in proc. Raso, che ai fini della sussistenza del vizio di mente, totale o parziale, occorre una patologia molto seria che comporti degenerazione della sfera volitiva o intellettiva del soggetto, occorre una patologia consistente in uno stato clinicamente definibile come morboso, "dotato di una storia clinica capace di produrre un’alterazione dei processi volitivi ed intellettivi e di fare in conseguenza escludere o comunque scemare grandemente, pur senza escluderla del tutto, la capacità di intendere, ossia la capacità del soggetto di rendersi conto del valore delle sue azioni e quindi apprenderne il disvalore sociale, o di volere, ossia l’attitudine del soggetto di autodeterminarsi in relazione ai normali impulsi che ne motivano l’azione e comunque in modo coerente con le rappresentazioni apprese"; con la precisazione che quanto alla consistenza della riduzione della capacità deve ritenersi che "la diminuzione debba essere notevole, così da alterare in modo veramente grave i processi psichici, pur potendo residuare nel soggetto una limitata capacità di autodeterminazione e di rappresentazione della realtà".
Orbene, le corti di merito hanno fatto corretta applicazione di questi principi, giungendo ad escludere che fossero presenti in B. e R. alterazioni di tipo psichico tali da compromettere i processi cognitivi e volitivi, pervenendo ad escludere sulla base di una scansione di argomenti aderenti ai dati disponibili e logicamente corretti, che gli stessi fossero affetti da scompensi acuti o deliranti, essendo stato ricondotto l’efferato gesto ad un meccanismo reattivo generato da sentimenti di odio, grettezza, individualismo, covati per lungo tempo.
La corte territoriale ha aderito alla ampia motivazione assunta dai primi giudici a confutazione della necessità di operare un accertamento psichico sugli imputati, con operazione che è assolutamente consentita e quindi si sottrae alle censure mosse.
Il modus opinandi dei giudici di primo grado, recepito da quelli dell’appello, è assolutamente corretto, non potendo ricondursi al solo dato dell’efferatezza del reato la necessità – a prescindere – di accertamento psichiatrico, che si giustifica per contro solo alla luce di dati oggettivi accreditanti la malattia.
E’ stato molto efficacemente sottolineato che l’equazione reato molto grave = disturbo mentale non è istituibile perchè frutto di stereotipo preconcetto e proprio per il carattere neutro da cui la perizia è connotata, sta alla discrezionalità del giudice il ricorso a detto strumento, laddove le emergenze disponibili non si prestino ad una chiara lettura, posto che nel nostro ordinamento al perito non è riconosciuto il ruolo di obbligatorio supporto del giudice, non discendendo dall’art. 220 c.p.p. un obbligo assoluto ed incondizionato per il giudice di avvalersi dell’ausilio di persone esperte nei vari rami del sapere. La decisione di ricorrere alla scienza del perito rientra nel potere discrezionale che compete al giudice, potere che trova il suo limite – come sempre – nella motivazione del suo provvedimento sulla inidoneità degli elementi disponibili ai fini della pronuncia sul thema decidendum.
Tale obbligo di motivazione è stato ampiamente assolto, atteso che è stato puntualmente e correttamente rilevato che:
1) nessuno dei due imputati accennò al benchè minimo disturbo di natura psichica, che avesse comportato degenerazioni della loro sfera intellettiva o volitiva;
2) nessun dato anamnestico confortava anche solo lontanamente profili di patologia mentale, non avendo nè R., nè B. mai sofferto nel corso della loro vita di patologie psichiatriche;
3) il comportamento da loro tenuto a partire dalla commissione del fatto risultava ampiamente espressivo non solo di capacità di orientarsi nel tempo e nello spazio, ma di perfetta padronanza della realtà, intesa come capacità di comprendere la realtà e di determinarsi di conseguenza nel modo ritenuto più efficace ai loro fini;
4) il lungo periodo di osservazione psichiatrica a cui entrambi gli imputati furono sottoposti dal momento del loro ingresso in carcere non aveva portato a rilevare alcuno scompenso, atteso che i loro diari clinici, in cui erano state annotate 46 visite psichiatriche per B. e 42 visite psichiatriche per R., – condotte da psichiatri esterni all’amministrazione carceraria -, non contenevano alcun rilievo di sintomatologie o quanto meno di anomalie riconducibili a infermità di natura psichiatrica;
5) in tutto il lungo periodo di osservazione nè B., nè R., furono mai sottoposto a terapie farmacologiche, al di là della somministrazione di semplici ansiolitici, di cui è assolutamente normale l’uso in una condizione quale quella del ristretto in carcere.
In presenza di un quadro di dati obiettivi di univoca interpretazione, i giudici hanno correttamente ritenuto che non vi fosse il benchè minimo substrato che potesse accreditare un’indagine di natura psichiatrica, con motivazione adeguata e ancorata appunto a dati fattuali di non incerta interpretazione, senza con ciò operare alcuna indebita invasione di campo nel sapere scientifico, ma anzi accreditando le risultanze dell’osservazione psichiatrica condotta in carcere, da figure professionali esterne all’amministrazione.
La conclusione che nel presente processo la perizia non era atto dovuto, ha una perfetta dignità in termini di rigore motivazionale, tanto che non necessitava affatto (e non necessita) del supporto della consulenza del prof. V., entrata invero surrettiziamente nel processo, in quanto costui non venne accreditato come consulente del pm nel processo di primo grado.
Opportunamente la corte territoriale non si è avvalsa di detto contributo (tutt’altro che centrale neppure nella valutazione del primo giudice), per ribadire il giudizio sulla non ricorrenza dei presupposti per disporre perizia psichiatrica, con ciò offrendo iperclara motivazione sul proprio opinare, diversamente da quanto sostenuto dalle difese, che lamentano la non congruenza tra le due motivazioni di merito e l’incomprensibilità del percorso motivazionale.
Nè ricorre alcun vuoto di motivazione, come addotto, quanto alla mancata valutazione delle osservazioni in senso contrario offerte dalle psicologhe c. e Me. e dalla relazione dei proff.
Bo., R. e Be., posto che i contributi in termini di sapere scientifico consegnati dai prevenuti sono stati correttamente ritenuti assolutamente teorici e non attagliati alla particolarità dei singoli casi, atteso che a parte la psicologa Me. (che peraltro non ha offerto indicazioni che andassero al di là di crisi di ansia e di pianto o qualche lieve episodio di autolesionismo, incubi notturni registrati in relazione alla B., ovvero un’ideazione di tipo rigido nel R.) che non integrano profili di sofferenza psichiatrica, tutti gli altri professionisti non ebbero mai a procedere a diretta valutazione degli imputati.
Nessun dato obiettivo, al di là di mere indicazioni accademiche, è stato conferito negli atti, per accreditare la sussistenza del presupposto per disporre perizia, che come è stato ricordato, è un dato di malattia.
Dunque l’addebito che il giudice si sia sostituito al perito, incorrendo in una palese violazione di legge non trova alcun fondamento, essendo al contrario stato esattamente interpretato lo stretto ambito nel quale il giudice deve avvalersi del sapere tecnico, ambito che non può essere espanso a dismisura, sulla base solo di un dato di efferatezza del crimine o di visuale ristretta del mondo, caratterizzante i due interessati. Il paventato disturbo delirante in capo alla B. e la psicosi indotta a carico del R., elaborati nelle relazioni dei consulenti di parte sono stati ritenuti frutto di ipotesi di studio non supportate da dati anamnestici non ricorrenti nella documentazione clinica del periodo di osservazione e come tali sono stati del tutto sottovalutati dai giudici con operazione coerente con il dato normativo e con adeguato supporto motivazionale, che si sottrae a rivisitazioni imperniate su una alternativa valutazione, improponibile nell’odierna sede.
Vale la pena di ricordare che l’orientamento di questa Corte si è espresso nel senso di ritenere che possano sicuramente essere ritenuti di significazione quanto al profilo di interesse – contrariamente a quanto assunto dalle difese – i comportamenti tenuti prima e dopo il fatto dagli imputati, preordinati alla loro difesa, e non rientranti nella routine quotidiana (posteggio dell’auto fuori dalla corte, cena a Como la sera del fatto, ricerca del cassonetto più incontrollabile per lo smaltimento degli abiti sporchi di sangue e delle armi, estremo controllo di sè nelle fasi precedenti l’arresto ed altrettanta capacità di autodeterminazione nelle fasi successive, particolarmente difficili e tali da mettere a dura prova l’equilibrio di chiunque), chiaramente espressivi di non interrotto contatto con la realtà e di razionale lucidità (v., sent.
31456/2008, succitata).
Dati di fatto che i giudici di merito hanno valorizzato, per confutare come teorici ed incompleti i contributi offerti dai consulenti della difesa.
Parimenti infondato è il motivo sub 38.
Secondo la difesa, sarebbe stata limitata la difesa degli imputati a seguito della mancata autorizzazione data al consulente psichiatrico di parte di accesso presso gli imputati in carcere, ma sul punto i giudici del merito non avrebbero motivato su questo profilo di violazione, riconducendo poi scarso significato alle consulenze psichiatriche, proprio a causa della mancanza di ancoraggio a dati ricavabili dall’esame diretto degli imputati.
In proposito deve essere rilevato che secondo la previsione dell’art. 233 c.p.p., quando non è disposta perizia ciascuna parte può nominare consulenti tecnici che possono esporre al giudice il proprio parere, ma secondo il dettato del comma 1 bis della disposizione citata, in tale situazione, è rimessa al giudice la facoltà – e non l’obbligo – di autorizzare il consulente tecnico di una parte ad esaminare le cose sequestrate, ad intervenire alle ispezioni, ad esaminare l’oggetto delle ispezioni a cui abbia preso parte: come è di immediato rilievo, la norma non prevede affatto che il giudice possa autorizzare il consulente tecnico a prendere contatto con l’imputato detenuto in carcere, se non successivamente alla disposizione di perizia (comma 2 art. citato, secondo cui, successivamente alla disposizione di perizia, ai consulenti tecnici già nominati sono riconosciuti i diritti e le facoltà previsti dall’art. 230 c.p.p.). Il giudice non avrebbe potuto autorizzare l’accesso in carcere del consulente, prima della nomina del perito, secondo l’iperclaro testo della norma citata, che nel contemperamento degli interessi privilegia l’accertamento d’ufficio a quello di sola parte, limitando in detta fase le prerogative della difesa, in previsione di una disamina completa, sotto l’egida del perito e con l’apporto del Ct di parte. Nessun profilo di illegittimità è dato dunque riscontrare nell’incedere dei giudici di merito, con il che la ritenuta insufficienza motivazionale ed il ritenuto scollamento tra la decisione di non disporre perizia e le ordinanze sulla necessità di salvaguardare la spontaneità degli imputati in vista della perizia, ammesso e non concesso che ricorrano, non avrebbero ricadute nel percorso valutativo.
E’ invece fondato il motivo sub 39, atteso che la corte di primo grado non avrebbe potuto utilizzare il parere del prof. V., consulente tecnico del pm, peraltro non accreditato come tale nel processo con nomina ex art. 233 c.p.p., mai presentato al dibattimento, il cui elaborato è stato veicolato sotto forma di memoria del Pm: sul punto deve essere rilevato che se è vero che la parte può legittimamente presentare memorie scritte allegando consulenza, è altrettanto vero che è dato al giudice di valutarla ed utilizzarla ai fini della decisione, anche in mancanza del previo esame del CT se le parti non ne abbiano contestato il contenuto (Cass. sez. 4^, 16.12.2004, n. 7663): ora, nel caso di specie, l’elaborazione del prof. V. giunse a confutazione delle tesi difensive e dunque non poteva essere recepita senza il preventivo esame del suo autore nel contraddittorio. Ciò detto va subito aggiunto che il peso della consulenza nella valutazione operata non fu affatto centrale come sostenuto dalle difese, ma del tutto residuale, per quanto riguarda la valutazione operata in primo grado e fu del tutto trascurato nel giudizio di secondo grado, di talchè il controllo che questa Corte deve operare sulla persistenza della motivazione e sulla resistenza logica del ragionamento sul punto, non può che concludersi con il rilievo della scarsa incidenza di detto profilo nella complessiva valutazione che ha fatto perno sulla insussistenza di dati anamnestici giustificativi l’espletamento della perizia e sulla astrattezza dei contributi offerti dai consulenti tecnici di parte, non fondati su dati di malattia.
Non ha pregio il motivo sub 40, chiaramente inammissibile in quanto meramente ripetitivo non solo di doglianze già ampiamente trattate nei precedenti gradi e su cui intervenne approfondita motivazione, ma ripetitivo di deduzioni già trattate nel ponderoso atto di ricorso, frutto dell’esasperata parcellizzazione degli elementi di prova e di una valutazione di ciascuno, isolata dal suo complesso. Il difetto di motivazione lamentato su singoli dettagli è assolutamente inconferente, trattandosi di aspetti del tutto trascurabili, di incidenza assolutamente soccombente rispetto al peso degli elementi giustamente valorizzati e assunti come pietre miliari dell’impalcato probatorio.
Neppure sono fondati i motivi articolati nel ricorso del Prof. D’Ascola, poichè per quanto la corte territoriale, dimostrando la giusta sensibilità alle argomentazioni della difesa, abbia in diversi passaggi condiviso i rilievi difensivi, ha peraltro riconosciuto a detti passaggi un valore secondario e non dirimente nell’economia della valutazione, senza con ciò incorrere in alcuna frattura o salto logico, essendo stata data ampia ragione della permanenza di un intreccio di elementi probanti, non intaccato dal diverso opinare su aspetti di obiettiva marginalità, di talchè non è assolutamente consentito parlare di crepa nel tessuto motivazionale, che avrebbe dovuto portare a incrinare la certezza su cui è basata l’affermazione di responsabilità penale, con conseguente pronuncia in termini di mancato raggiungimento della prova di condanna.
Quanto alla attendibilità delle confessioni dei due imputati, pur a fronte della successiva ritrattazione, è stato già osservato come il ragionamento seguito dalla corte territoriale debba essere ritenuto lineare e fortemente ancorato a corrette regole ponte di valutazione che non possono essere rivisitate, avendo i giudici di primo e di secondo grado fondatamente escluso che la volontà dei due imputati sia stata condizionata da un alternarsi di false prospettazioni (in senso negativo ad opera del pm, se non avessero chiarito la loro condotta ed in senso positivo ad opera dei carabinieri, se avessero collaborato), facendo leva su dati obiettivi ( annotazioni sulla Bibbia, confessione a terzi, richieste di perdono, corrispondenza del racconto confessorio alle emergenze processuali in più di un particolare), sulla implausibilità che entrambi abbiano contemporaneamente confessato fatti tanto gravi non commessi, sulla mancanza di ragionevole spiegazione del perchè si sarebbero attribuiti entrambi fatti tanto gravi ancorchè innocenti, non potendo essere ritenuta appagante la semplice affermazione del R. che quel tipo di scelta sembrava il male minore dopo il lavaggio del cervello ( di cui peraltro a tempo debito non si era mai lamentato) che aveva subito.
Il fatto che R. sia stato messo di fronte alla gravità della sua condizione, non può essere assimilato a condizionamento psicologico, perchè come è stato correttamente sostenuto, non integra alcuna forma di coercizione morale, rispondendo alla doverosa prospettazione delle conseguenze a cui va incontro l’indagato.
La circostanza che la corte abbia pretermesso che il pm abbia brutalmente fatto presente al R. che su di lui pendeva l’ergastolo e che la moglie sarebbe stata trasferita in altro carcere con difficoltà di incontro, va ricondotta al fatto che la realtà prospettata – a parte il tono più o meno deciso con cui può essere espressa- era una previsione del futuro non dipinta a fosche tinte, da cui non poteva essere tratta quella certezza di forzatura psicologica che la difesa ha voluto affermare.
Sulla testimonianza del F., il secondo ricorso insiste sul fatto che la prova in oggetto non poteva ritenersi connotata dai crismi della certezza, in quanto la corte territoriale avrebbe ammesso che il F. non aveva descritto minutamente il viso del suo aggressore a causa della concitazione del momento e per il fatto che era faccia a terra, così introducendo una nota pacificamente di dubbio tra le argomentazioni che avrebbero dovuto sorreggere la decisione su una prova cruciale: ma la prospettazione difensiva non è aderente al percorso motivazionale, avendo la corte dato per certo che il F. aveva riconosciuto perfettamente il R. prima di essere aggredito mortalmente e che solo perchè non riuscì a darsi una spiegazione della ragione di tanta crudeltà, fece molta fatica a collegare la persona del R. alla brutalità subita e stentò a riferire sul punto. Ragion per cui le sollecitazioni degli investigatori a ricordare se conoscesse o meno R.O., lungi dal potere essere ritenute suggestive, sono state correttamente inquadrate come un contributo a liberare il teste dal timore di non ben ricordare, alla luce della linearità di spiegazione offerta dall’interessato che ha ripetuto senza tentennamenti in dibattimento la sua versione, portando correttamente la corte a privilegiare dette esternazioni, rispetto a quelle rese in fase di indagini allorquando – come egli stesso ebbe a spiegare – stentava a ricomporre il ricordo e a collegare i due momenti.
Al dato testimoniale è stato riconosciuto il crisma della certezza, a nulla rilevando che sia stato per converso riconosciuto come non sicuro il fatto che la frase "E’ stato R.O." sia stata effettivamente pronunciata, senza con ciò minare il rigore logico dell’iter valutativo. Come è già stato sottolineato la corte ha ampiamente argomentato sulla solidità dell’impalcato e la sentenza va immune dalle censure di violazione di legge avanzate.
Sulla insussistenza di forzatura psicologica nei confronti dei due imputati, al di là delle inevitabili previsioni di un non felice futuro, assolutamente non assimilabili ad una condizione di assenza di libertà dell’interrogando, si è ampiamente argomentato nelle pagine che precedono, trattandosi di motivi comuni agli altrui due difensori. Basti sottolineare a dimostrazione della non mutuabilità nel caso di specie dei principi espressi sia dalla Corte Costituzionale che dalla CEDU e citati dalla difesa, che il presupposto di dette pronunce è la prospettazione di un male ingiusto posta in essere dagli organi inquirenti per estorcere una confessione, laddove nel caso di specie, come è stato sottolineato, la prospettazione del pm agli indagati ebbe ad oggetto il male "giusto" (perchè previsto dall’ordinamento) conseguente all’imputazione ed all’addebito di aver tolto la vita a quattro persone e di averne gravemente lesa una quinta. Nè può essere, per tutto quanto sopra detto, anche solo ipotizzato che sul F. siano state poste in essere tecniche manipolative suggestive per fare affiorare il ricordo, atteso che i giudici di merito hanno evidenziato come sia emerso chiaramente dalle registrazioni, che al F. venne semplicemente chiesto se ricordava le fattezze del R., lasciando poi al teste l’elaborazione del suo ricordo ed il successivo collegamento tra figura del R. che usciva da casa C. e la subita aggressione. Corretto è quindi l’opinare dei giudici di merito che non hanno colto alcuna forzatura e quindi nessun effetto a cascata di nullità derivata per violazione del contraddittorio è ravvisabile.
Con riferimento al dato della capacità di intendere e volere dei due imputati, si rimanda a quanto sopra ampiamente argomentato, non prima di aver ribadito come la corte territoriale, ha in realtà ricondotto le ragioni del suo opinare, quanto alla insussistenza di spunti idonei a suffragare l’ipotesi della ridotta o scemata capacità di intendere e volere dei due imputati, non già a valutazioni soggettive (che la difesa desume da un ultimo passaggio della motivazione, del tutto residuale) prive di base scientifica, ma al contrario, all’assenza di notazione anamnestiche nel lungo periodo di osservazione psichiatrica (caratterizzato da più di 40 visite psichiatriche per ciascuno come è stato sopra detto) a cui i due sono stati sottoposti, che è un dato obiettivo. Seppur ponendosi nell’accezione ampia di malattia suggerita dalla richiamata sentenza della Sezioni Unite di questa Corte nel processo Raso, i giudici di merito hanno argomentato l’assenza di spunti idonei ad accreditare il concetto di malattia, che è il presupposto per dover disporre l’accertamento peritale, non essendo sufficienti a marcare tale necessità la sproporzione del movente, la efferatezza del crimine, la particolarità del carattere dei due imputati e del tipo di vita condotta dalla coppia, nè le alterazioni o disarmonie della personalità in termini di maggiore o minore freddezza.
La sottovalutazione degli argomenti portati dai prof. Bo., R. e Be. è stata giustificata dalla corte con la semplice considerazione della necessità di privilegiare i dati offerti da un lungo periodo di osservazione, rispetto a quelli contenuti nella dissertazione dei suddetti professionisti, infarcita di teoria e mere ipotesi di scuola che per quanto apprezzabili sotto un profilo speculativo, non possono avere incidenza valutativa e men che meno prevalere sui dati dell’osservazioni prolungata e mirata:
infatti sebbene l’indagine clinica finalizzata alla cura non collimi con i metodi psichiatrico forense, certamente non la si può ritenere così scollata rispetto alla seconda, come hanno cercato di accreditare i professionisti menzionati.
L’opinare della corte giustificato dall’ancoraggio a dati obiettivi piuttosto che a dati probabilistici, non può essere messo in discussione, come è già stato evidenziato. Nè base scientifica poteva essere accreditata, come non fu per le ragioni ampiamente dettagliate, alle dichiarazioni della psicologa Me. e a quelle della dott.ssa c. che ebbero a rappresentare una realtà non collimante con le indicazioni riportate nei dettagliati resoconti dei colloqui clinici che sono stati acquisiti ipotizzando (la c.), del tutto astrattamente, una psicosi reattiva e (la Me.) non meglio precisate disturbi psichici, peraltro asseritamente segnalati all’equipe psichiatrica che teneva in osservazione i due, ma che non risulta abbiano avuto alcun seguito nelle annotazioni.
Nè coglie nel segno la lunga dissertazione sulla separazione dei piani dell’imputabilità rispetto alla capacità processuale, atteso che la corte territoriale non è affatto incorsa in alcuna confusione di piani, ma ha semplicemente ritenuto – con piena legittimazione- di poter evincere l’assenza di elementi giustificativi di indagine psichiatrica dal perfetto controllo mantenuto dai due nella fase precedente e successiva al delitto, segno inequivocabilmente confermativo della lucidità dei due, al di là delle considerazioni sul grado culturale e sulla loro capacità di esternazione, che attengono a tutt’altro profilo. Non sono dunque apprezzabili i rilievi, neppure sotto gli angoli visuali prospettati nel secondo ricorso.
Quanto alla richiesta di inutilizzabilità della relazione del prof. V. sono invece condivisibili le argomentazioni difensive, come già sopra esposto, essendo stato veicolato un atto scritto del consulente del pm, mai accreditato come tale e non sottoposto al contraddittorio tra le parti; peraltro la relazione non ha avuto alcuna incidenza nel percorso valutativo dei giudici di secondo grado, per cui l’incidente di percorso dei giudici di primo grado non fa discendere alcuna conseguenza sulla legittimità delle conclusioni espresse in punto capacità di intendere e volere degli imputati (vedi sul punto anche motivazioni a pag. 61).
Quanto alla dedotta violazione per mancato espletamento della perizia è già stato scritto che la corte ha ritenuto con argomentare assolutamente ineccepibile (e dunque non censurabile in sede di legittimità) la mancanza dei presupposti per l’espletamento di una perizia, ben interpretando il disposto normativo che non fa affatto discendere un obbligo incondizionato per il giudice di avvalersi dell’ausilio di persone esperte e ponendosi in linea con l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la perizia è atto sottratto alla disponibilità delle parti.
Non può ancora essere apprezzato il motivo sviluppato sulla traccia ematica, poichè anche sul punto è stato sottolineato come la diversa provenienza ritenuta dalla corte di secondo grado della macchia rilevata sul battitacco della Seat Arosa del R., non metteva affatto in discussione che la traccia andasse attribuita al R..
Le argomentazioni difensive che certamente colgono nel segno quanto a cattiva gestione della verbalizzazione dei carabinieri, non possono però non considerare il dato univoco che è emerso dalle varie deposizioni, secondo cui la perquisizione sull’auto del R., la sera dopo l’eccidio, fu condotta dal carabiniere Mo., ancorchè non firmatario dell’atto.
La valutazione della corte non può affatto essere considerata come disconoscimento della portata probatoria del verbale (essendo stata fornita spiegazione assolutamente plausibile del perchè a firmare i verbali siano talora chiamati coloro che non sono autori degli atti, ma semplicemente sono presenti al momento della compilazione), ma riconoscimento della prevalenza della realtà quanto ad autori dell’atto sull’apparenza, operazione logica del tutto legittima laddove plausibilmente spiegate ne siano le ragioni.
Quanto poi alla genesi della traccia riportabile alla Ch. rilevata sull’auto del R., si fa riferimento a quanto già trattato: sul punto specifico dedotto dall’avv. d’Ascola, quanto al fatto che in sentenza sarebbe stato dimenticato di trattare la circostanza che la traccia venne rilevata a notevole distanza temporale rispetto al fatto, vi è a dire che i giudici di merito (soprattutto quelli di primo grado) hanno invece valorizzato questo dato per affermare la diretta derivazione dal luogo del fatto e la sua riportabilità al momento precedente l’intervento dei vigili del fuoco; i giudici hanno quindi opinato nel senso che se così non fosse stato la traccia non avrebbe potuto presentare quelle caratteristiche di non contaminazione che furono evidenziate: non sono incorsi in passaggi motivazionali frutto di arbitrari convincimenti, laddove hanno disatteso le tesi patrocinate dai consulenti, che accreditavano una eventualità remota astrattamente formulabile come possibile in rerum natura, ma la cui concreta realizzazione nella presente fattispecie non trova riscontro nelle emergenze processuali. Meno che meno lo trova nelle dichiarazioni del Ct dott. Pr. (che esaminò la traccia, dunque più di ogni altro aveva titolo ad esprimersi sul grado di contaminazione) che come uomo di scienza non si è espresso in termini di certezza (paradigma che la scienza non adotta mai) e con estrema prudenza ha riferito che non è facile avere contaminazioni come quella ipotizzata dai Ct di parte, che la traccia sull’auto non poteva essere stata riportata dopo molti giorni di esposizione all’esterno, che la traccia era molto concentrata e che verosimilmente il DNA non fu danneggiato.
Non ricorrono profili di dubbio, come sostenuto dalla difesa, accreditanti una pronuncia assolutoria.
Anche il motivo con cui si richiede l’annullamento della sentenza nel punto in cui è stata dichiarato la colpevolezza della B., è infondato.
Come già sopra esposto, le due corti di merito hanno evidenziato l’autonomia degli elementi d’accusa della donna, rispetto al contestato circolo vizioso in cui le loro confessioni si sono esternate, atteso che se vi è stato condizionamento dell’uno sull’altra quanto alla volontà di confessare, le indicazioni confessore sono intervenute in ambito asettico, al di là delle doverose contestazioni nel momento in cui si registrava divergenza sostanziale tra i due racconti. Non solo, ma sono stati evidenziati la comunanza di movente e la necessaria partecipazione di almeno due persone per la consumazione di quel tipo di aggressione come i dati obiettivi (tipo di lesioni inferte, registrazione di colpi da mano mancina, uso di almeno tre armi) hanno conclamato. Dati questi che hanno consolidato la portata del dato dichiarativo ed hanno profilato una realtà processuale che non lasciava alcuno spazio al dubbio ragionevole.
Infine, quanto all’intervenuto diniego di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale si fa pieno rimando a quanto sopra scritto, risottolineando come rientri nella discrezionalità del giudice la valutazione sulla completezza del quadro istruttorio e laddove la scelta sia supportata da adeguata motivazione, la valutazione si sottrae alla contestazione in sede di legittimità.
Quanto al profilo sollevato con la memoria difensiva, già adombrato nei motivi sviluppati dalle difese Bordeaux e Schembri, sulla nullità della sentenza per mancata immediata decisione sulla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (sollecitata per l’espletamento di perizie, ivi compresa quella psichiatrica e per l’audizione di testimoni, tra cui Ce.Ya., che rappresentava a una prova nuova), le difese hanno citato un precedente arresto di questa corte (Sez. 1^, 14.10.2010, 43473), con cui venne censurata la esclusione a priori della prova; hanno poi argomentato di esser state mutilate nella loro azione difensiva, in ragione del fatto che non intervenne immediata decisione sulle richieste istruttorie e la discussione venne condotta senza conoscere l’opinione della Corte territoriale sul punto.
In proposito va osservato che il richiamo all’arresto di questa corte non si attaglia perfettamente al caso di specie, per la semplice ragione che nella presente fattispecie l’audizione del teste Ce.
Y., prova sopravvenuta al giudizio diversamente dal caso preso in esame dalla sentenza citata – fu ritenuta del tutto superflua e irrilevante (in quanto testimonianza de relato).
Il principio fissato da questa Corte sulla necessità che venga deliberato immediatamente sulle richieste di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, per non creare incertezza alle parti in ordine al materiale in discussione, è un principio sicuramente apprezzabile e condivisibile, ma non è un principio rigido, dovendosi ammettere piena legittimità all’operato della corte che riservò la decisione in ragione della stretta connessione delle richieste al merito del processo, con l’Intesa che ove la corte avesse deciso all’esito della discussione di disporre integrazioni istruttorie, si sarebbe proceduto alla riapertura della discussione.
Detto ciò e quindi fatta salva la legittimità dell’operato della corte territoriale, deve essere peraltro rilevato che nessuna ricaduta potrebbe avere l’eventuale nullità prodottasi (ammessa e non concessa), atteso che la prova nuova non era da assumere e quindi l’argomentare delle difese non avrebbe potuto fare riferimento a questo ulteriore contributo (a differenza dell’ipotesi trattata nella sentenza richiamata, in cui la corte di legittimità sanzionò prima di tutto la mancata corretta valutazione sulla acquisibilità dei verbali delle dichiarazioni rese da testimoni in separato processo e che impose di effettuare con ordinanza dibattimentale prima della chiusura del dibattimento).
Il rilievo è quindi destinato a perdere di incività.
Infine quanto al secondo motivo richiamato nei motivi aggiunti, sulla mancata acquisizione ex art. 431 c.p.p., delle bobine delle intercettazioni, si rimanda a quanto dettagliato sopra con il richiamo all’art. 49 Disp. Att. c.p.p. Va solo aggiunto che nessuna nullità ebbe a verificarsi, atteso che vennero acquisite e trascritte le conversazioni di interesse indicate dalla difesa come rilevanti.
In conclusione, ricorsi vanno quindi rigettati con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Gli stessi vanno anche condannati alla rifusione in solido delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che si ritiene di liquidare nella complessiva somma di Euro 5.600,00 a favore dei CA. (importo da calcolare in relazione a tre persone, Ca.Ca., Ca.Pi. e Ca.Gi. su una base di Euro 4000,00 per il primo, aumentata di 800,00 Euro per ciascuno degli altri due) ed in pari misura a favore dei F., secondo lo stesso sviluppo di calcolo, essendo costituiti F.M., F.E. e F.A., oltre che spese generali, IVA e CPA come per legge, per entrambe le parti civili.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione in solido delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che liquida nella somma complessiva di Euro 5.600,000 (cinquemilaseicento) a favore dei CA. e nella complessiva somma di Euro 5.600,00 (cinquemilaseicento) a favore dei F., oltre per ambedue le parti civili, spese generali, IVA e CPA come per legge.
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