CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – 6 aprile 2011, n. 7885. In tema di buona fede della p.a.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Motivi della decisione

Con il primo motivo le ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione della legge 689/81. Deducono di essere esenti da qualsiasi addebito, non sussistendo a loro carico alcun profilo di dolo o di colpa. Sostengono infatti che la violazione contestata è frutto di semplice errore, dovuto ad ignoranza incolpevole circa la qualifica di dipendente pubblico del Ba., componente del collegio sindacale. La doglianza non è fondata. Secondo la sentenza invece le società erano pienamente a conoscenza del rapporto di pubblico impiego relativo alla persona alla quale era stato conferito l’incarico nell’ambito della compagine societaria. Si rileva altresì che una volta integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della legge 689/81, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza.

Ha precisato in proposito questa S.C. che…" in tema di sanzioni amministrative, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è necessaria e al tempo stesso sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, giacché la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa. Ne deriva che l’esimente della buona fede, applicabile anche all’illecito amministrativo disciplinato dalla legge n. 689 del 1981, rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa – al pari di quanto avviene per la responsabilità penale, in materia di contravvenzioni – solo quando sussistano elementi positivi idonei a ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e risulti che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso". (Cass. n. 13610 del 11/06/2007). Con il 2 motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione del D.L. 79/1997 e del D.Lgs. 29/1993 in relazione all’art. 360 comma 1, n.3 CPC. Si sostiene l’infondatezza della pretesa sanzionatoria in quanto basata su norme di legge entrate in vigore in epoca successiva alla prestazione professionale de qua. L’obbligo di comunicazione alla P.A. è stato infatti previsto solo dal D.Lgs. n. 80 del 1998, che dunque non può avere effetto retroattivo essendo entrato in vigore in epoca successiva alla prestazione professionale intercorsa tra il Ba. e le odierne società ricorrenti.

La doglianza non può essere accolta e presenta dei profili di novità. Infatti la sentenza non si è pronunciata sulle predette questioni ed andava in ipotesi denunciata la violazione dell’art. 112 c.p.c. L’esame della censura in ogni caso presuppone un accertamento di fatto sull’epoca della prestazione dell’attività svolta dal dipendente pubblico in favore delle società ricorrenti, che non risulta indicata né nella sentenza, né nel ricorso. Secondo l’amministrazione controricorrente, l’incarico in parola era iniziato nel 1997 e cessato nell’ottobre del 1998, in realtà tale obbligo era già previsto nel testo originario dal DLgs n. 29/93 art. 58, 6 comma, secondo cui : " Ai fini della compiuta attuazione dell’anagrafe delle prestazioni, disciplinata dall’articolo 24 della legge 30 dicembre 1991, n. 412, i soggetti pubblici o privati che conferiscono un incarico al dipendente pubblico sono tenuti a farne immediata comunicazione alla amministrazione di appartenenza". L’obbligo di informare il datore di lavoro pubblico dell’attività extraprofessionale del dipendente pubblico esisteva dunque fin dal 1993, mentre quello di richiedere l’autorizzazione dell’amministrazione di conferire l’incarico risale al marzo del 1997 (DL 28 marzo 1997 n. 79).

In conclusione il ricorso dev’essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali che liquida in complessivi Euro 1.500,00, di cui Euro 1300,00 per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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