Cass. civ. Sez. II, Sent., 15-03-2012, n. 4148 Accessione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione del 16/9/1982 il Ministero della difesa conveniva in giudizio i fratelli D.P., + ALTRI OMESSI chiedendone la condanna al pagamento della somma di lire 20.300.000 a titolo di indennizzo ex artt. 936 e 1150 c.c. per l’acquisizione, da parte loro, di un fabbricato realizzato dal Ministero attore su un fondo di loro proprietà;

esponeva di avere occupato il terreno dei convenuti in forza di ordinanza emessa ai sensi della L. n. 2359 del 1865, art. 76 dal Generale Comandante della 4^ zona aerea e che, venute meno le ragioni dell’occupazione, non essendo intervenuta espropriazione, aveva restituito il terreno sul quale era stata costruita tra, l’altro, una palazzina, di 4 vani e accessori, adibita ad alloggio del Comandante della base aerea di Gioia del Colle; trattandosi di bene acquisito dai proprietari, chiedeva il relativo indennizzo ai sensi delle norme sopra richiamate.

I convenuti si costituivano, chiedevano il rigetto della domanda e in via riconvenzionale chiedevano il risarcimento dei danni derivanti dalla costruzione, oltre alla rimozione di ulteriori manufatti.

In corso di giudizio il Comune di Mottola pagava ai D. lire 64.000.000 per l’esproprio della palazzina. Dopo la morte di D. P. si costituivano, nel giudizio riassunto, i suoi eredi D. D.F., D.G.M. e D.R.. Il Tribunale di Lecce, con sentenza del 23/5/2005 rigettava sia la domanda principale ritenendo priva di valore la costruzione, sia la domanda riconvenzionale di risarcimento per intervenuta prescrizione.

Il Ministero della difesa proponeva appello al quale resistevano, ad eccezione di D.G., rimasto contumace, i convenuti appellati ( D.D.F., G.M. e R. quali eredi di D.P.) i quali proponevano appello incidentale deducendo l’esistenza di atti interruttivi della prescrizione del credito risarcitorio che, comunque, non poteva essere azionato in pendenza di trattative per la definizione delle rispettive pretese.

La Corte di Appello di Lecce con sentenza del 14/9/2009:

accoglieva l’appello principale e condannava gli appellati, prò quota, al pagamento dell’indennità liquidata in Euro 2.980,04, pari all’incremento di valore del bene, oltre rivalutazione e interessi dal 10/9/1968 (data di consegna del bene ai proprietari del terreno) fino al 30/6/2009 e così, complessivamente li condannava al pagamento di Euro 106.588,03, oltre interessi dal 30/6/2009 al saldo;

rigettava l’appello incidentale e condannava i soccombenti al pagamento delle spese del doppio grado.

La Corte di Appello rilevava:

– che l’immobile acquisito dai proprietari del terreno aveva un suo valore indipendentemente dalla mancanza della licenza edilizia, nella specie non necessaria ai sensi della L. n. 1159 del 1942, art. 31, comma 2; non era rilevante la mancanza di decreto di abitabilità, mancando la prova che l’immobile non fosse nelle condizioni di ottenerlo e perchè, comunque, la mancanza non aveva impedito la cessione al Comune e l’introito, da parte dei convenuti, del relativo indennizzo;

– che, secondo le risultanze del verbale di consegna, l’immobile necessitava di alcuni interventi di manutenzione e/o ristrutturazione, ma non era un rudere;

– che nell’anno 1999 e, quindi, a distanza di oltre 30 anni dalla riconsegna del bene, all’immobile era stato attribuito dal Comune di Mottola, ai fini dell’esproprio, il valore di lire 64.000.000 (lire 400.000 a mq per 160 mq);

– che pertanto il patrimonio dei D., in conseguenza dell’acquisizione del manufatto si era effettivamente incrementato;

che, sulla base della documentazione proveniente dalla P.A. ed esaminata dal CTU, il costo complessivo per la costruzione dell’alloggio alla data di ultimazione lavori (Gennaio 1963) doveva stimarsi in Euro 2.982,07 e, applicato, in aumento, il coefficiente ISTAT di svalutazione fino alla consegna ai proprietari e il coefficiente di deprezzamento dell’immobile per lo stesso intervallo temporale, l’incremento di valore del fondo doveva essere stimato in lire 5.770.160, pressochè eguale al costo di costruzione riferito al 1963;

che il termine di prescrizione del credito risarcitorio azionato dai convenuti non poteva farsi decorrere solo a partire dall’atto di citazione del primo grado perchè il diritto poteva essere fatto valere già nel 1968, dopo la consegna dell’immobile; egualmente infondata era l’allegazione per la quale sarebbe stata interrotta la prescrizione per effetto della nota del 7/2/1975 dell’Amministrazione della Difesa; la nota, infatti, quantificava le voci di danno rappresentate dai D., e rimaneva un atto meramente interno finalizzato ad una eventuale transazione, come tale inidoneo a interrompere la prescrizione. D.D.F., D. G.M. e D.R. (eredi di P.) D.A. e D.M.V., nonchè C.G. e D. M.M., queste ultime quali eredi di D.G. già contumace in appello, propongono ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi e ha depositato memoria. Resiste con controricorso il Ministero della Difesa.

Motivi della decisione

Occorre premettere che il ricorso è stato proposto avverso sentenza depositata in 14/9/2009 e pertanto non si applica la disciplina del quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., abrogato dalla L. n. 69 del 2009 con effetto dal 4/7/2009. 1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 936 c.c.; sostengono che la norma è applicabile solo per le opere fatte da un terzo sul fondo altrui e, invece, l’Amministrazione della Difesa non poteva essere considerata "terzo" perchè aveva titolo e diritto di eseguire i lavori avendo proceduto all’occupazione del suolo per esigenze militari; i proprietari, invece, non avevano titolo per opporsi alla costruzione e agli stessi non poteva imporsi un arricchimento contro il loro volere; inoltre, l’Amministrazione non poteva essere ritenuta in buona fede in quanto era a conoscenza che il terreno apparteneva ad altri.

1.1 Il motivo è manifestamente infondato laddove contesta che l’Amministrazione della Difesa, che aveva occupato in via di urgenza il terreno e vi aveva costruito una palazzina, possa essere considerato terzo ai sensi dell’art. 936 c.c.; al riguardo deve rilevarsi che è terzo il soggetto che ha eseguito l’opera senza essere vincolato al proprietario del suolo da alcun rapporto giuridico da intendersi come rapporto contrattuale e, nella fattispecie, essendo intervenuta l’occupazione per provvedimento dell’autorità, nessun rapporto contrattuale legava l’Amministrazione con il proprietario del suolo, semplicemente assoggettato, per atto di imperio, all’occupazione, che è successivamente cessata per il venir meno delle esigenze che l’avevano resa necessaria.

Questa Corte ha costantemente affermato il principio per il quale deve ritenersi terzo nei confronti del proprietario del suolo che fa sua l’opera per accessione e come tale legittimato a far valere nei confronti dì questo il diritto di credito di cui all’art. 936 c.c., colui che avendo eseguito le accessioni venga a risultare privo del titolo che lo abilita a farle (cfr., tra le tante, Cass. 11.3.1974 n. 640) e tanto deve ritenersi non solo quando il titolo sia stato dichiarato nullo, ma anche nella ipotesi di risoluzione del contratto, con effetto retroattivo della pronuncia "inter partes".

(Cass. 3/6/1993 n. 6207).

Ai fini dell’art. 936 cod. civ. deve considerarsi "terzo" colui il quale non abbia avuto alcun rapporto con il proprietario del suolo, onde tale qualità va riconosciuta anche all’occupante, di cui sia stato risolto il contratto che gli consentiva di costruire sul suolo o di eseguirvi miglioramenti, stante l’efficacia retroattiva della risoluzione tra le parti (Cass. 17/12/1993 n. 12804).

In sostanza, laddove manchi, come nella fattispecie, un titolo idoneo a disciplinare il rapporto tra il soggetto che ha realizzato la costruzione sul fondo altrui e il proprietario del fondo, i diritti e i doveri tra i due soggetti restano disciplinati dall’art. 936 c.c. che, d’altra parte, costituisce applicazione particolare del principio di cui all’art. 1150 c.c. e del più generale principio del nostro ordinamento per il quale non è consentito un arricchimento senza causa ai danni di un altro soggetto.

Infondata e comunque "fuori tema" è pure la tesi per la quale si verificherebbe arricchimento senza consentire al proprietario di sottrarsi alla locupletazione: l’arricchimento, nella specie, è un evento che si verifica indipendentemente da un atto di volontà e, comunque, è documentalmente provato dall’ammontare dell’indennità incamerata dai proprietari per l’esproprio della costruzione; i proprietari hanno, dunque, volontariamente tratto dalla costruzione una significativa utilità economica.

In conclusione è priva di fondamento la tesi per la quale in caso di occupazione di fondi da parte dell’Amministrazione della Difesa, non si possano applicare i principi stabiliti dall’art. 936 c.c. nel caso in cui l’Amministrazione abbia realizzato una costruzione sul fondo, successivamente riconsegnato ai proprietari insieme con la costruzione.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono nuovamente violazione e falsa applicazione dell’art. 936 c.c.; sostengono che non sarebbe sorto il diritto all’indennizzo perchè il fondo non avrebbe avuto un aumento di valore, tenuto conto dei danni complessivamente arrecati dalle altre opere; aggiungono che nella valutazione dell’incremento o decremento di valore del fondo per effetto della costruzione avrebbe dovuto essere considerato l’incremento o il decremento apportato da tutte le costruzioni e opere nel loro complesso.

2.1 Il motivo è inammissibile nella parte in cui pone a proprio fondamento la censura della valutazione di merito (adeguatamente motivata) relativa all’arricchimento tratto dall’opera realizzata dal Ministero della difesa e, quindi, non attiene alla violazione o falsa applicazione della norma di legge, ma alla motivazione (come detto adeguata) che ha indotto il giudice ad applicarla.

La censura sul criterio di valutazione applicato (che, a detta dei ricorrenti, non terrebbe in considerazione il decremento di valore del fondo subito per effetto dì altre opere e attività poste in essere, sul fondo, dall’Amministrazione della Difesa) è nuova perchè non risulta posta nelle fasi di merito e comunque è infondata perchè l’incremento di valore deve essere calcolato in relazione alla specifica costruzione, mentre gli eventuali danni (non dipendenti dalla costruzione e che trovano titolo nella violazione del principio del neminem ledere) devono essere fatti valere con la domanda risarcitoria che, infatti, era stata proposta ed è stata rigettata.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono nuovamente violazione e falsa applicazione dell’art. 936 c.c. nonchè violazione del R.D. n. 1265 del 1934, art. 221; sostengono che l’alloggio stimato ai fini dell’indennizzo era privo del certificato di abitabilità e che pertanto era privo di valore in quanto inidoneo ad assolvere la sua funzione economico sociale e che nella determinazione dell’indennizzo non poteva prescindersi da tale mancanza.

3.1 Il motivo è manifestamente infondato: i ricorrenti richiamano giurisprudenza non pertinente rispetto alla presente fattispecie.

La giurisprudenza richiamata riguarda, infatti, la rilevanza della mancanza del certificato di abitabilità (ora agibilità) sotto il profilo dell’inadempimento contrattuale, della risoluzione del contratto di vendita o dell’eccezione di inadempimento, ma non è affermata l’incommerciabilità del bene; al contrario, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che la vendita di un immobile privo della certificazione del abitabilità non costituisce illecito e non è nulla, pur incidendo sull’adempimento contrattuale (v. da ultimo, in motivazione, Cass. 21/9/2011 n. 19204; in precedenza v. Cass. 29/11/2007 n. 24957; Cass. 29/3/1995 n. 3687;

Cass. 6/12/1984 n. 6403).

La censura relativa all’incidenza di tale mancanza sull’ammontare dell’indennizzo attiene alla motivazione della sentenza che nel presente motivo non ha formato oggetto di specifica censura ex art. 360 c.p.c., n. 5, e anche a volere ritenere implicitamente dedotto il vizio di motivazione, la censura, sotto questo profilo è infondata perchè il giudice di appello ha specificamente e adeguatamente motivato in merito all’irrilevanza della mancanza della certificazione di abitabilità (v a pag. 9 della sentenza impugnata laddove si afferma che la mancanza di abitabilità non ha, in concreto, impedito la cessione al Comune e il relativo indennizzo).

4. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono il vizio di omessa motivazione perchè il giudice di appello ha determinato l’incremento di valore apportato al fondo sulla base di una CTU che avrebbe calcolato il valore limitandosi a dividere per nove il costo complessivo per la costruzione di nove alloggi senza avere accertato che gli stessi avessero identiche caratteristiche e che il costo di costruzione fosse eguale per tutti, mentre da un computo metrico risulterebbe che i movimenti terra necessari per ogni singola costruzione sarebbero di entità diversa e che le aree di sedime sarebbero diverse con la conseguenza che le nove palazzine dovevano avere dimensioni diverse e costi per opere di fondazione diverse in relazione alle diverse nature del terreno.

Si sostiene che la Corte di Appello avrebbe acriticamente aderito alle conclusioni del CTU senza considerare le obiezioni del CTP. 4.1 Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza perchè non riporta, quanto meno nelle parti di rilevanza, il testo della consulenza tecnica di ufficio censurata al fine di consentire a questa Corte, cui è inibito l’accesso alla visione degli atti della fase di merito, di valutare la rilevanza delle doglianze del C.T.P. rispetto ai contenuti della C.T.U. che neppure risultano riportati, nei termini descritti dai ricorrenti, nella sentenza impugnata.

5. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono nuovamente violazione e falsa applicazione dell’art. 936 c.c. nonchè violazione degli artt. 2934 e 2943 c.c.; sostengono che fino a quando il complessivo ed eventuale incremento di valore del fondo per effetto delle varie costruzioni ivi realizzate non fosse stato determinato, non avrebbe potuto stabilirsi neppure il decremento di valore e, quindi, il danno risarcibile; aggiungono che la nota del 7/2/1975 dell’Amministrazione della difesa, ancorchè nota interna, doveva comunque costituire prova presuntiva di un atto interruttivo della prescrizione e che anche una semplice dichiarazione del creditore ha efficacia interruttiva, e che anche le trattative per comporre bonariamente una vertenza possono comportare l’interruzione della prescrizione quando dal comportamento di una delle parti risulti il riconoscimento del credito.

5.1 Il motivo è manifestamente infondato: la prescrizione comincia a decorrere da quando sussiste la possibilità legale di far valere il diritto, mentre le difficoltà meramente di fatto, come quelle relative alla determinazione del valore dell’opera e dei danni subiti per l’occupazione non sono idonee a impedire la decorrenza dei termini.

Circa la valenza della nota interna a costituire prova presuntiva di una atto interruttivo della prescrizione, la censura è inammissibile per difetto di autosufficienza in quanto non è riportato il contenuto della nota dalla quale dovrebbe desumersi un riconoscimento da parte del debitore, mentre la Corte di Appello ha adeguatamente motivato attribuendo alla nota, non destinata al presunto creditore, lo scopo di realizzare una eventuale definizione delle rispettive pretese e non, quindi, una specifica finalità ricognitiva del debito.

Pertanto la decisione impugnata è conforme ai principi affermati da questa Corte secondo i quali il riconoscimento dell’altrui diritto, al quale l’art. 2944 cod. civ. ricollega l’effetto interruttivo della prescrizione, richiede, in chi lo compie, una specifica intenzione ricognitiva, occorrendo a tal fine la consapevolezza del riconoscimento desunta da una dichiarazione univoca, tale da escludere che la dichiarazione possa avere finalità diverse o che lo stesso riconoscimento resti condizionato ad elementi estranei alla volontà del debitore e che l’atto sia destinato direttamente al creditore (cfr. Cass., n. 4562 del 2004; Cass., n. 12531 del 2004;

Cass. n. 16576 del 2008).

Il ricorso deve quindi essere rigettato; le spese, liquidate come in dispositivo, tenuto conto dell’importanza dell’opera prestata e della complessità dell’incarico espletato, seguono la soccombenza dei ricorrenti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti a pagare al Ministero controricorrente le spese di questo giudizio di cassazione che liquida in Euro 3.000,00 oltre alle spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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