Cass. pen., sez. IV 07-12-2005 (10-03-2005), n. 44621 STUPEFACENTI – Attività illecite – Vendita – Mancato accordo tra acquirente e venditore – Trattamento sanzionatorio – Ravvisabilità del reato di messa in vendita.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo 1 – La corte di appello di Milano, con sentenza dell’11 aprile 2002, confermava la sentenza del 9 luglio 2001 del tribunale di Milano che aveva affermato la penale responsabilità di G.C.O., condannandola alle pene di legge, per il reato di cui all’art. 110 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, in quanto, in concorso con G.U., T.E. e M.J., aveva illecitamente acquistato, a fini di spaccio, da H.E. grammi 1345 di cocaina, con l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6, : in Milano il 25 marzo 2000. 2 – La Corte territoriale, nel confermare la sentenza, respingeva la tesi, già prospettata dinanzi al tribunale, secondo la quale, essendo mancata, nella specie, la traditio dello stupefacente – per l’intervento, prima che avvenisse la consegna della droga, delle Forze dell’ordine, che si erano appostate nei pressi a seguito di quanto appreso dall’ascolto di telefonate intercettate – doveva ritenersi il reato di tentato acquisto e non il reato di acquisto di stupefacente. La Corte di merito, premesso che, sul punto, "il giudice di primo grado aveva compiutamente ad esaurientemente dato conto del proprio orientamento, conforme al prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, come riconosciuto, con indubbia lealtà intellettuale, dalla stessa difesa", osservava che non poteva mettersi in dubbio che la volontà del legislatore, nel formulare il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, fosse stata quella di "anticipare" la soglia della punibilità in materia di circolazione degli stupefacenti, quella, cioè, di tutelare la salute pubblica "attraverso la previsione di penale rilevanza, a titolo di reato consumato, di situazioni normalmente idonee a venire in considerazione in termini di tentativo" ed era "indicativa di tale ratio la previsione di una serie di fattispecie, quali la messa in vendita e l’offerta, ravvisabili anche senza un rapporto materiale tra l’agente e la sostanza stupefacente". "Nè poteva dubitarsi" – aggiungeva la Corte della ragionevolezza della scelta operata dal legislatore – e, quindi, della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa sotto il profilo dell’irragionevolezza dell’identico trattamento sanzionatorio riservato a fattispecie ontologicamente diverse, quali l’acquisto con traditio e l’acquisto senza traditio – "dal momento che il legislatore aveva tenuto conto di un principio di esperienza secondo il quale la semplice circolazione della droga, attuata in vista di una fornitura a destinatario determinato secondo un accordo già delineato nel suo contenuto essenziale, è idonea ad attentare alla salute della collettività ancor prima che lo stupefacente sia pervenuto nelle inani del cessionario finale attraverso una traditio materiale". "Nè" – aggiungeva la corte – "l’estensione alla fattispecie della cessione degli stupefacenti del principio consensualistico, di cui all’art. 1376 c.c., rappresenta un’incongruenza di carattere sistematico, apparendo, invece, unico approccio ermeneutico conforme alla ratio punitiva alla base della normativa di cui nella presente sede deve rendersi applicazione", non potendo negarsi che "l’illiceità, dal punto civilistico, di un contratto di vendita avente ad oggetto la droga non oblitera il dato di partenza secondo il quale ci si trova in presenza di un accordo di volontà convergenti su un oggetto e su una causa volta a volta determinati, in relazione alla cui qualificazione in termini di consenso contrattualmente vincolante nessuna funzione costitutiva della fattispecie gioca la consegna della cosa". La Corte rilevava, poi, che, "in relazione alla fattispecie di cui è processo, era fuori discussione la compiutezza del pactum sceleris intervenuto tra il venditore della sostanza drogante e la Burlando, in una con i suoi complici, ché quella determinata quantità di cocaina sequestrata all’H. era ormai gravata da un vincolo di destinazione a favore dei suoi destinatari residenti in Italia, talmente concreto e immodificabile da indurre l’H. a sobbarcarsi i rischi, molteplici, concreti, di un trasporto, non breve, dall’Albania". 3 – Il difensore ricorre per Cassazione con due motivi. 1 – Denuncia, con il primo, "errata applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ed art. 56 c.p. in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b)". Deduce che "l’errare in cui incorre la corte di appello è di ritenere che le altre fattispecie di pericolo, diverse ovviamente dalla detenzione della sostanza stupefacente, quali l’offerta e la messa in vendita, siano completamente svincolate da un rapporto materiale tra l’agente e la sostanza stupefacente", senza, quindi, tenere in alcun conto che la Corte di Cassazione, con sentenza del 7 aprile 1995, Frantone, ha affermato che, affinché sussista il delitto di offerta o messa in vendita è necessario che l’agente "abbia l’effettiva disponibilità della sostanza, essendo questo il naturale presupposto dell’offerta in vendita" e che, "in caso contrario, sarebbe violato il principio di legalità sancito dall’art. 1 c.p. e quello di offensività che la norma sottende". "Del pari" – prosegue il ricorrente – "il mero accordo per l’acquisto di sostanza stupefacente, non seguito dalla sua consegna, costituisce soltanto una possibilità astratta di circolazione dello stupefacente e, pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte di appello, non può, da solo, essere lesivo dell’interesse protetto", sicché "non può non concludersi che, in ossequio al principio di offensività, si ha la consumazione del reato di acquisto di stupefacenti nel momento in cui avviene la consegna dello stupefacente dal venditore all’acquirente". "D’altro canto – si aggiunge – se il legislatore ha inteso tutelare la salute pubblica reprimendo la diffusione e la circolazione della droga, l’interprete deve valutare in concreto come incidono i comportamenti delittuosi in relazione alla lesione del bene giuridicamente protetto e proprio in relazione al pericolo concreto derivante dalla diffusione e messa in circolazione della droga non si può razionalmente sostenere che l’acquisto a cui non segua la consegna materiale della res illecita sia equivalente all’ipotesi in cui, invece, la consegna sia avvenuta, perché in un caso la droga viene sottratta alla circolazione e, quindi, non si realizza il pericolo di un’ulteriore diffusione della sostanza, mentre nel secondo caso il pericolo di un’ulteriore diffusione esiste concretamente". "Nè può richiamarsi – precisa il ricorrente – il principio consensualistico, di cui all’art. 1376 c.c., quale unico approccio ermeneutico conforme alla ratio punitiva par ritenere, in questa ipotesi, – acquisto senza traditio – la consumazione del reato di acquisto di stupefacenti". "Infatti, l’orientamento giurisprudenziale che fa leva su tale principio per ritenere la consumazione del reato non considera che, come ha posto in evidenza Cass., 1 giugno 1998, Cerman ed altri, il diritto civile è finalizzato a definire e regolamentare i rapporti giuridici dallo stesso ritenuti meritevoli di protezione in quanto leciti, tanto che esclude qualsiasi efficacia di tutti quei negozi giuridici che abbiano una causa illecita o che siano stipulati in frode alla legge o per motivi illeciti comuni ad entrambi, il che, a ben vedere, è l’esatto contrario di quanto accade nei casi di vendita di stupefacenti, essendo questa talmente non voluta dalla legge da essere non solo resa civilisticamente nulla sulla base delle disposizioni dell’art. 1418 c.p., comma 2, artt. 1343, 1544 e 1345 c.p., ma addirittura sanzionata penalmente in caso di comunque avvenuta trasferimento della proprietà dello stupefacente, donde la conclusione, che il momento consumativo del reato di acquisto di sostanze stupefacenti, non potendosi ricorrere agli istituti civilistici, va individuato non nell’accordo delle parti, ma nella traditio dello stupefacente e nella corresponsione del prezzo". 2 – Denuncia, con il secondo motivo, "eccezione di incostituzionalità del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, per violazione del principio di ragionevolezza sancito nell’art. 3 Cost., nella parte in cui l’anzidetto art. 73 citato, comma 1, prevede, secondo l’interpretazione fornita dalla prevalente giurisprudenza della corte di cassazione, l’ipotesi di reato consumato e non di reato tentato nel caso in cui all’accordo delle parti non segua da parte del venditore, materiale detentore, la consegna all’acquirente della sostanza stupefacente oggetto della vendita". Il ricorrente, con i motivi nuovi, ex art. 585 c.p.p., comma 4, denuncia "mancata concessione dell’attenuante ad effetto speciale di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, deducendo che, ai fini dell’applicazione dell’attenuante in questione, il giudice deve considerare e valutare anche la incensuratezza/personalità dell’imputato, rientrando l’incensuratezza tra le circostanze dell’azione per il rilievo che diverso è l’allarme sociale che dal fatto deriva se a commetterlo è chi ha precedenti specifici e chi, invece, non ne ha, incidendo la maggiore o minore capacità a delinquere del reo sull’entità del fatto e sulla sua qualificazione normativa" e "la O., che ha avuto un ruolo del tutto marginale, è assolutamente incensurata". Motivi della decisione 1 – Il primo motivo è infondato. 1 – Il richiamo del principio consensualistico, di cui all’art. 1376 c.c., sul quale si fonda la giurisprudenza della Corte di Cassazione, condivisa dalla sentenza impugnata – la giurisprudenza, assolutamente prevalente, che ritiene che il reato di acquisto di sostanze stupefacenti si consumi momento dell’accordo delle parti in ordine alla quantità e alla qualità dello stupefacente e al prezzo, dovendosi prescindere dalla traditio, dalla consegna della cosa – si presta, indubbiamente, ai rilievi, che si leggono nel ricorso, dal ricorrente mutuati, come si è visto, da una nota sentenza della Corte di Cassazione. é, invero, innegabile che, come afferma Cass., 1 giugno 1998, C. ed altri, "il diritto civile sia finalizzato a definire e a regolamentare i rapporti giuridici dallo stesso ritenuti meritevoli di protezione in quanto leciti; tanto che esclude qualsiasi efficacia di tutti quei negozi giuridici che abbiano una causa illecita o che siano stipulati in frode alla legge o per motivi illeciti comuni ad entrambi i contraenti (artt. 1418 c.c., comma 2, artt. 1343, 1344 e 1345 c.c.) il che, a ben vedere, è l’esatto contrario di quanto accade nei casi di vendita di stupefacenti per motivi non terapeutici, essendo questa vendita talmente non voluta dalla legge da essere non solo resa civilisticamente nulla sulla base delle anzidette disposizioni, ma addirittura sanzionata penalmente in caso di comunque avvenuto trasferimento della proprietà dello stupefacente". Ebbene, se ciò è esatto, non ne consegue, però, come ritiene la sentenza appena citata, che "il momento consumativo del reato di acquisto di stupefacente deve essere individuato non nell’accordo delle parti, ma nella traditio e nella corresponsione del prezzo", e ciò perché, al di là del ricorso al principio consensualistico, quale disciplinato dall’art. 1376 c.c., è lo stesso legislatore che, elencando, nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, le condotte, soggette alla sanzione penale, nelle quali ravvisa la "produzione e il traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope", esige si ritenga che il reato di acquisto di sostanza stupefacente si consuma prescindendo dalla consegna della res, si consuma, cioè, nel momento in cui interviene l’accordo tra le parti sulla quantità e qualità della sostanza e sul prezzo. Il collegio, dunque, condivide l’affermazione, propria di una voce della dottrina, che, riesaminando la questione alla luce della sentenza della 6 sezione della Corte di Cassazione del 2 luglio 2002, P.M./G. ed altri – sentenza, come si può agevolmente notare, emessa, in distinto processo, nei confronti di coloro che sono concorsi nel reato contestato alla O. e nella quale era stata sollevata la medesima questione, ha sottolineato, dopo essersi soffermata sulle fattispecie di messa in vendita, di offerta, di vendita, di cessione di stupefacente e sulla fattispecie di tentativo di vendita e di cessione, ritenendo il tentativo non configurabile, che anche per il momento consumativo della condotta di acquisto di sostanze stupefacenti occorre prescindere da ogni considerazione sull’applicabilità o meno delle nozioni e dei principi civilistici, dovendo ricercarsi la soluzione, ancora una volta come per le fattispecie dianzi richiamate, nel testo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, costruito in termini onnicomprensivi, testo nel quale si prevede, accanto alla condotta dell’acquisto, quella della detenzione". "La detenzione – si prosegue – non implica necessariamente un contatto fisico immediato con la sostanza stupefacente, ma va intesa come disponibilità di fatto di questa ed, evidentemente, la condotta di acquisto, per conservare un autonomo spazio applicativo, non può che riguardare quelle situazioni, prodromiche alla detenzione, in cui il soggetto acquirente non ha ancora materialmente o di fatto acquisito la disponibilità della sostanza". "Ne discende – si precisa – che, per ritenere l’acquisto consumato è sufficiente, ma necessario, l’accordo sulla quantità e qualità della sostanza e sul prezzo da pagare tra acquirente e venditore, senza che siano richieste la traditio e la corresponsione del prezzo". "Sufficiente, perché, appunto, con la traditio – ed eventualmente il pagamento del prezzo ? la condotta ravvisabile sarebbe quella della detenzione, non a caso costruita come onnicomprensiva e residuale; necessario, perché, in difetto di un accordo nei termini suesposti, – accordo incontestabilmente avvenuto nella fattispecie, come si evince dalla relativa affermazione, a suo tempo testualmente citata, che si lecite a pag. 11 della sentenza impugnata – potrebbe discutersi semmai della applicabilità della fattispecie tentata, non ostandovi le obiezioni concettuali relative alle condotte di vendita e di cessione". Una volta, quindi, intervenuta la traditio, corredata magari dalla corresponsione del prezzo, non si pone più un problema di qualificabilità del fatto come acquisto, vertendosi, pacificamente, in ipotesi di detenzione illecita che assorbe la minore condotta di acquisto. 2 – Può, a questo punto, obiettarsi che, se si ritiene che il reato di acquisto di sostanza stupefacenti si perfeziona – si consuma – nel momento in cui interviene l’accordo tra venditore e acquirente sulla quantità, sulla qualità e sul prezzo, prescindendo dalla traditio, resta, però, il problema della condotta del venditore, al quale, se non consegnasse lo stupefacente, potrebbe essere contestato il reato di tentata vendita, con la conseguenza che l’accordo, se non perfezionato con la traditio potrebbe dare vita a due fattispecie, di reato tentato per il venditore e di reato consumato per l’acquirente, in relazione alle quali non si comprenderebbe davvero perché mai la semplice diversità di ruoli, in un rapporto sinallagmatico sostanzialmente paritario, dovrebbe produrre, sul piano della rilevanza penale, conseguenze così disomogenee. Ma, l’obiezione in questione è agevolmente superabile se si riflette che, per la citata voce della dottrina, il tentativo di vendita o di cessione di stupefacente non è, a ragione, – lo si è già accennato- configurabile, avendo il legislatore, nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, anticipato, quanto alla vendita e alla cessione di sostanze stupefacente, la soglia della punibilità con la previsione delle condotte di messa in vendita e di offerta, che, sicuramente antecedenti alla vendita e alla cessione, si connotano, diversamente dalla vendita e dalla cessione, per la non avvenuta "dazione" e, secondo la giurisprudenza, per la non "immediata disponibilità" della droga, essendo sufficiente la semplice "dichiarazione dell’agente" purché realizzabile e non priva di serietà. In questo contesto di anticipazione della soglia di punibilità ricavare uno spazio por il tentativo di vendita e di cessione di stupefacente sarebbe, pertanto, concettualmente impossibile anzitutto e, in secondo luogo, senz’altro irragionevole, che sarebbero punite con la pena, meno severa, prevista per il reato tentato condotte – la vendita a la cessione – che, presupponendo la immediata disponibilità dello stupefacente, dovrebbero essere ritenute più gravi della messa in vendita o della offerta, per le quali, secondo la giurisprudenza prevalente, non è richiesta la disponibilità immediata dello stupefacente e, ciò nonostante, sono costruite come fattispecie di reato consumato e sanzionato con le relative pene. La citata dottrina aggiunge, a questo punto, – e la puntualizzazione non può non essere, anch’essa, condivisa – che, non essendo configurabile il tentativo di vendita o di cessione di stupefacente, per poter ricondurre queste fattispecie – le quali, altrimenti, resterebbero impunite – nell’ambito della "messa in vendita o dell’offerta" deve negarsi che l’elemento distintivo della messa in vendita o dell’offerta sia costituito dall’assenza di disponibilità immediata della droga, dovendo, invece, farsi rientrare in tali fattispecie anche le condotte, quali la vendita e la cessione, caratterizzate dall’immediata ed effettiva disponibilità dello stupefacente. Stupefacente che l’agente ha, con la vendita o con la cessione, non seguite da traditio, "messo sicuramente in commercio" (si pensi agli artt. 474, 516 e 517 c.p.) ponendo in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a venderlo o a cederlo e non riuscendo nell’intento per una qualsivoglia ragione", come si verifica in tutti i casi di tentativo, il quale, peraltro, par la vendita a per la cessione di droga, non è – giova ripeterlo – configurabile in quanto tale, data la anticipazione della soglia di punibilità con la previsione delle fattispecie di messa in vendita e di offerta. 2 – Da tutto ciò emerge anche la mani festa infondatezza della questione di legittimità costituzionale, essendo innegabile la ragionevolezza del legislatore sia allorché, per i delicatissimi interessi che vuole tutelare, quali, tra tutti, la salute e la vita delle persone, specialmente dei giovani, anticipa, nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, la soglia della punibilità prevedendo, oltre le condotte di vendita e di cessione, le condotte di messa in vendita e di offerta e rendendo, così, non configurabile il tentativo di vendita e di cessione di droga, sia allorché, prevedendo la condotta di detenzione – che assorbe la minore condotta di acquisto – manifesta il suo giudizio di disvalore nei confronti di quest’ultima condotta rendendola punibile nel momento dell’accordo tra venditore ed acquirente prescindendo dalla traditio. 3 – Il motivo nuovo è inammissibile, essendo giurisprudenza delle SS.UU. che "i motivi nuovi a sostegno della impugnazione, previsti tanto nella disposizione di ordine generale contenuta nell’art. 585 c.p.p., comma 4, quanto nelle norme concernenti il ricorso per Cassazione in materia cautelare – art. 311 c.p.p., comma 4, – ed il procedimento in camera di consiglio nel giudizio di legittimità – art. 611 c.p.p., comma 1, – devono avere ad oggetto i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di gravame ai sensi dell’art. 581 c.p.p., lett. a), (SS.UU., 20 aprile 1998, n. 4683, Rv. 210259) e è certo sia che la questione della attenuante ad effetto speciale, di cui al .P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, costituisca un punto della decisione, sia che questo punto non sia stato enunciato nell’originario atto di gravame, così come non lo era stato nell’originario atto di appello. 4 – Ciò premesso, il ricorso deve essere rigettato; la questione di legittimità costituzionale deve essere dichiarata manifestamente infondata.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, dichiarando manifestamente infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale.

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