Cass. civ. Sez. II, Sent., 19-04-2012, n. 6140 Servitù coattive di acquedotto e di scarico di acqua

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 1989 M.P. e M.G. convennero dinanzi al Tribunale di Alessandria il Consorzio Acque Striate, L.A. ed i consorziati Ma.Gi., Z.P., A.N., G.F., B. F., C.F., B.L., B.M. e G.A. esponendo di essere proprietari di terreni a vantaggio dei quali il loro dante causa, L.A., aveva costituito, con l’atto di trasferimento del 1971, una servitù di acquedotto per la fornitura di acqua potabile; che al fine di gestire tale servizio gli istanti, insieme agli altri proprietari interessati, avevano costituito, nel 1985, il Consorzio Acque Striate; che gli altri consorziati avevano successivamente, nel 1988, deliberato lo scioglimento del Consorzio e realizzato un nuovo impianto, su cui avevano allacciato le loro utenze, tranne quelle degli istanti. Ciò premesso, chiedevano che fosse dichiarata l’illegittimità della delibera di scioglimento del Consorzio ed i convenuti condannati a conferire al Consorzio il nuovo impianto realizzato, previa eventuale costituzione di un consorzio coattivo;

in via subordinata, che fosse dichiarata l’esistenza del loro diritto di servitù e, in ogni caso, che i convenuti fossero condannati al risarcimento dei danni.

I convenuti, ad eccezione del Consorzio, si costituirono in giudizio opponendosi alle domande e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna degli attori a cessare qualsiasi attività di prelievo delle acque.

Il Tribunale, esaurita l’istruttoria anche mediante espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio, dichiarò in parte inammissibile e rigettò per il resto tutte le domande proposte.

Interposto gravame principale da parte degli attori e incidentale da parte di alcuni convenuti, con sentenza n. 1457 del 2 novembre 2009 la Corte di appello di Torino rigettò l’appello principale e, in accoglimento di quello incidentale, condannò gli attori ad astenersi dal prelevare l’acqua dalla sorgente esistente sul fondo di proprietà dei convenuti. A sostegno di questa decisione il giudice di secondo grado, per quanto qui ancora interessa, affermò che l’atto con cui il L. aveva ceduto gli immobili divenuti di proprietà degli attori non conteneva alcuna clausola costitutiva di una servitù di presa d’acqua e di acquedotto in favore dei fondi ceduti, atteso che, tenuto conto anche del diverso tenore degli atti di cessione dei terreni limitrofi posti in essere all’epoca dal L., la disposizione contrattuale invocata dagli attori si limitava a mantenere le servitù esistenti, "così come fin d’ora praticate", espressione che identificava tali servitù, essendo il terreno ceduto all’epoca non urbanizzato, non già in quelle attive, all’epoca non esistenti, bensì con le servitù passive costituite sul fondo in favore di terzi; che doveva altresì escludersi che la servitù in discorso fosse stata costituita per destinazione del padre di famiglia, in mancanza del presupposto dell’esistenza di opere apparenti attestanti l’asservimento del fondo rimasto in proprietà al venditore in favore di quello ceduto; che l’acquisto da parte dei convenuti dei diritti di presa d’acqua e la realizzazione di un nuovo impianto di acquedotto non aveva recato alcun danno agli attori, tenuto conto che essi avevano continuato a ricevere acqua anche dopo il 1988 dall’impianto originario e non avevano dedotto nè provato pregiudizi ulteriori.

Per la cassazione di questa decisione, notificata il 19 febbraio 2010, con atto notificato il 16 aprile 2010, ricorrono M.P. e M.G., affidandosi a cinque motivi.

Resistono con distinti controricorsi Ma.Gi. e Z. P., G.R., B.B., A.N., G.F. e B.M..

Le altre parti intimate non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. i ricorrenti oppongono la nullità della sentenza impugnata nella parte in cui li ha condannati ad astenersi dal prelevare l’acqua dalla sorgente presente sul fondo di proprietà dei convenuti, assumendo che essa, risolvendosi in una pronuncia condannatoria conseguente ad un’actio negatoria servitutis, è nulla in quanto emessa in difetto del requisito dell’integrità del contraddittorio nei confronti di tutti i proprietari dei terreni soggetti a tale statuizione, atteso che essi risultano intestati, oltre che a loro, anche alle loro mogli, Z.L. e C.S., le quali non hanno partecipato al giudizio.

L’eccezione va disattesa.

Costituisce jus receptum nella giurisprudenza di questa Corte che il difetto di integrità del contraddittorio – che, non costituendo una eccezione in senso stretto, può essere dedotto per la prima volta nel giudizio di legittimità – può essere dichiarato soltanto a condizione che la prova di esso emerga univocamente dagli atti ritualmente acquisiti nel giudizio di merito, da cui risulti in modo chiaro che il processo non si è svolto nei confronti di tutte le parti necessarie (Cass. n. 27521 del 2011; Cass. n. 26388 del 2008;

Cass. n. 23628 del 2006). Nel caso di specie, da nessun atto del processo di merito emerge invece, nè i ricorrenti forniscono elementi in tal senso, il dato della comproprietà dei terreni dei ricorrenti in favore di altri intestatari, risultando tale fatto allegato per la prima volta soltanto nel ricorso per cassazione. Ne deriva l’inammissibilità dell’eccezione, la quale comporterebbe un accertamento di un fatto nuovo, mai dedotto nel pregresso giudizio di merito, operazione non consentita in sede di giudizio di legittimità.

Passando all’esame del ricorso, i primi due motivi, esposti congiuntamente dai ricorrenti, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e 1366 cod. civ., ed insufficiente e contraddittoria motivazione, investono il capo della decisione del giudice di appello che ha escluso che con l’atto di trasferimento del 1971 fosse stato costituito a vantaggio del fondo degli attori un diritto di servitù di acquedotto. In particolare, i ricorrenti criticano l’argomentazione della decisione impugnata che ha dedotto la conclusione accolta dal confronto dell’espressione usata nel menzionato contratto di cessione del 1971 con quelle, ben più precise, utilizzate dal medesimo venditore, don L. A., in occasione delle vendite, nel 1964 e 1996, di altri lotti di terreni limitrofi, valorizzando in tal modo fonti estranee all’atto contrattuale di riferimento, in violazione della regola di interpretazione letterale del contratto. Il giudice di merito è inoltre caduto in errore laddove ha ritenuto che la clausola contrattuale che richiamava il diritto di servitù di acquedotto andasse riferita alle servitù passive, in contrasto con l’altra clausola che garantiva che il terreno venduto era esente da trascrizioni pregiudizievoli e qualsiasi gravame, e per non avere considerato che nel contratto si dava atto dell’intenzione degli acquirenti di costruire su di esso fabbricati di civile abitazione, disapplicando nell’uno e nell’altro caso la regola interpretativa della valutazione complessiva del contratto. Non risulta, inoltre, che la Corte territoriale abbia valutato il comportamento successivo delle parti, in particolare le lettere in cui il L. si era impegnato a compiere le opere necessarie per trasformare l’acquedotto esistente in altro di carattere consortile, capace di fornire acqua in modo adeguato ai numerosi utenti a cui aveva venduto i lotti di terreno edificabile, da cui risultava che fin dall’atto di trasferimento il cedente aveva inteso costituire un diritto di acquedotto in favore degli acquirenti.

Entrambi i motivi sono infondati.

Va premesso che con la clausola contrattuale di cui si discute, le parti contraenti avevano dichiarato che "continuano a sussistere così come sin d’ora praticate, le servitù di asso, di acquedotto con fornitura di acqua potabile di scarico sia per Acque bianche che nere nel canale naturale corrente quasi al limite del confine ovest dei terreni venduti".

La Corte di merito, nell’interpretare detta clausola, ha ritenuto che con essa le parti non avessero voluto costituire una servitù di presa d’acqua e di acquedotto a vantaggio dei terreni venduti ed a carico di quello rimasto di proprietà del cedente, rilevando che il riferimento alle servitù di passo e di acquedotto "fin d’ora praticate "impediva di ravvisare in tale previsione l’intenzione di costituire nuove servitù e che, non essendo il terreno ceduto all’epoca urbanizzato, la servitù di acquedotto vantata dagli attori non era all’epoca esistente; ha quindi aggiunto che il contratto di costituzione di servitù, che in quanto costitutivo di un diritto reale su beni immobili deve essere stipulato in forma scritta, deve indicare in modo chiaro gli elementi identificativi di tale diritto, requisito che, invece, non si rinviene nella clausola in discorso, che è assolutamente generica nell’indicare il contenuto dell’asserita servitù.

Queste argomentazioni appaiono adeguate e congrue a sorreggere la soluzione accolta ed immuni da vizi logici e di motivazione.

Va premesso al riguardo che, com’è noto, l’interpretazione dell’atto negoziale è accertamento di fatto demandato, come tale, in via esclusiva al giudice di merito e censurabile in cassazione soltanto sotto il profilo della violazione delle regole ermeneutiche e dell’obbligo di motivazione. In particolare, la denunzia della violazione delle regole in materia di ermeneutica contrattuale richiede la specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati e del modo attraverso cui si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione esige la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice di merito, con la precisazione che, per sottrarsi a censura, quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni (Cass., 22.5.2006, n. 10131;

Cass., 17.7.2003, n. 11193).

Così definito l’ambito del sindacato esercitatile da questa Corte, si ritiene che le censure sollevate dal ricorso non siano fondate.

In particolare, quanto alla prima censura, essa non merita accoglimento in quanto il riferimento fatto in sentenza agli altri atti di vendita posti in essere dal dante causa degli attori assume, nel percorso motivazione della sentenza, un ruolo al più concorrente con le altre ragioni sopra espresse, ma non centrale nè decisivo, apparendo la conclusione accolta sostenuta dalle argomentazioni sopra riferite, che appaiono da sola in grado di giustificarla.

La seconda censura, che lamenta la disapplicazione della regola della valutazione complessiva del contratto, è pure infondata, avendo la Corte di merito osservato che la clausola secondo cui i terreni venivano venduti esenti da gravami pregiudizievoli era di mero stile e dovendo comunque tale espressione essere intesa, proprio in virtù del criterio ermeneutico invocato, facendo salve le servitù ed i pesi menzionati anche indirettamente nell’atto. La dedotta destinazione del terreno all’edificazione di fabbricati di civile abitazione integra invece una circostanza palesemente irrilevante, atteso che, come ha correttamente osservato la Corte distrettuale, l’edificabilità del terreno ceduto appare un dato indifferente ai fini della risoluzione della questione dell’esistenza della previsione contrattuale della servitù di acquedotto, non potendo il relativo diritto ritenersi costituito per il solo fatto che il negozio di cessione ha per oggetto un terreno edificabile.

Condivisibile è inoltre la considerazione del giudice a quo che l’estrema genericità della clausola in discorso impedirebbe di ravvisare in essa un atto costitutivo di servitù, tenuto conto della sua natura di negozio formale, nonchè, deve aggiungersi, di atto soggetto a trascrizione. Ed invero questa Corte ha già avuto modo di sottolineare l’esigenza che nell’atto costitutivo di una servitù siano specificamente indicati tutti gli elementi del relativo diritto, sia pure precisando che essi non debbono essere oggetto di analitica descrizione, essendo sufficiente che essi possano desumersi dall’atto e quindi siano individuabili secondo i normali strumenti ermeneutici (Cass., n. 4241 del 2010; Cass. n. 1516 del 2000).

Infondata appare infine anche la censura che lamenta l’insufficiente considerazione da parte del giudice di merito del comportamento successivo delle parti, quale emergerebbe dalla corrispondenza tra loro intercorsa dopo la conclusione del contratto. Su punto deve invero rilevarsi che il contenuto di tali missive, riprodotto nel ricorso per cassazione, non appare di per sè univoco nel senso prospettato dai ricorrenti e comunque non si presenta incompatibile con l’osservazione della Corte di appello secondo cui tale corrispondenza dimostrava soltanto che era intenzione del cedente L. costituire in futuro un consorzio in grado di rifornire d’acqua le abitazioni che sarebbero sorte sui lotti di terreno venduti, ma non anche la volontà di costituire, fin dagli atti di cessione, diritti di servitù in favore degli acquirenti.

Il terzo e quarto motivo di ricorso, esposti congiuntamente, denunziano violazione e falsa applicazione dell’art. 1062 cod. civ. in relazione all’art. 1362 cod. civ., commi 1 e 2, ed insufficiente e contraddittoria motivazione, lamentando il rigetto della domanda di accertamento della servitù per destinazione del padre di famiglia. I motivi, in particolare, criticano l’affermazione della Corte di merito che ha escluso tale titolo di servitù per la mancanza del requisito dell’apparenza delle opere destinate al suo esercizio, assumendo che tale valutazione non ha tenuto conto delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, che dava atto che, già prima del 1970, vi erano derivazioni che portavano acqua nella vasca di accumulo posta nel fondo poi acquistato dagli attori. La Corte invero ha rilevato la presenza di opere visibili, ma ha ritenuto che esse, per la loro consistenza materiale, non stessero a dimostrare l’apparenza della servitù. Così ragionando ha però violato l’art. 1062 cod. civ., il quale non prevede affatto che tutte le opere necessarie per l’esercizio della servitù siano visibili, essendo sufficienti che quelle aventi tale carattere siano incompatibili con un uso diverso da quello proprio della servitù. Nel caso di specie, pertanto, a fronte di un complesso di opere destinate al rifornimento dell’acqua, ancorchè destinato ad essere integrato mediante allaccio alle nuove utenze, il requisito dell’apparenza non avrebbe potuto essere disconosciuto.

I motivi sono infondati.

La Corte di appello ha escluso che il diritto vantato dagli attori fosse riconducibile all’acquisto per destinazione del padre di famiglia per difetto del requisito dell’apparenza delle opere che sarebbero state destinate al suo esercizio. Al riguardo ha osservato che tali opere, consistenti in bocchette di presa seminterrate, in una vasca di carico, interrata solo in parte, ed in altre tubazioni interrate, erano solo in parte visibili e che comunque, per la loro consistenza, non costituivano segni univoci diretti a manifestare l’esistenza di un peso a carico del fondo servente, aggiungendo, con riguardo alla vasca, che essa era compatibile anche con l’esistenza di una servitù solo passiva a carico del fondo degli attori.

Tale giudizio deve ritenersi immune dalla cesure di falsa applicazione di norme di diritto e di difetto di motivazione denunziate.

Con riferimento al primo profilo, la conclusione accolta dal giudice di merito appare conforme al consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui il requisito dell’apparenza della servitù, necessario ai fini del relativo acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia ( art. 1062 cod. civ.), postula la presenza di opere di natura permanente, direttamente destinate all’esercizio della servitù, atte a rivelare in maniera non equivoca, per la loro struttura e funzione, l’esistenza del peso gravante sul fondo servente (Cass. n. 13238 del 2010; Cass. n. 21087 del 2006; Cass. n. 22290 del 2004). Il rilievo critico dei ricorrenti, secondo cui l’apparenza non deve riguardare tutte le opere destinate all’esercizio della servitù, non ha d’altra parte pregio, atteso che il giudizio della Corte di merito non ha tratto spunto dalla mera presenza di opere prive del carattere di visibilità, ma si è correttamente appuntato sulla idoneità del complesso delle opere esistenti a manifestare la presenza in modo non equivoco dell’asservimento del fondo rimasto in proprietà del cedente a vantaggio di quello ceduto.

Non vi è dubbio poi che il giudizio così manifestato dal giudice di merito integri un apprezzamento di fatto, censurabile in sede di legittimità, in relazione al convincimento espresso, solo sotto il profilo della motivazione. A tale riguardo deve però rilevarsi che le ragioni addotte dalla Corte a sostegno della propria soluzione appaiono senz’altro adeguate a sorreggerla, coerenti con le risultanze di fatto richiamate e non contrastate da elementi con esse incompatibili o contraddittori. Il richiamo svolto dei ricorrenti alla consulenza tecnica d’ufficio è a tal fine inconferente, atteso che gli accertamenti in essa contenute, per come riportate nel ricorso, si limitano a riferire dell’esistenza di tubazioni, senza fornire alcun ragguaglio in ordine alla loro visibilità, cioè alla loro rilevanza in termini di opere apparenti per l’esercizio della servitù.

Il quinto motivo di ricorso denunzia insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamentando che la Corte di appello abbia respinto la domanda di risarcimento dei danni sul presupposto di fatto che gli attori avevano continuato a ricevere acqua dall’acquedotto originario anche dopo il 1988. Il giudice di secondo grado non ha però considerato che, dando esecuzione al disposto della pronuncia qui impugnata, laddove ordina agli attori a non prelevare acqua dalla sorgente esistente sul fondo acquistato dai convenuti, i ricorrenti non avranno d’ora in poi possibilità di accedere alla sorgente, sicchè il danno derivante dalla violazione del contratto di consorzio a carico degli attori deve essere considerato in re ipsa. La motivazione del giudice di merito è il risultato pertanto di una chiara contraddizione.

Il motivo appare inammissibile.

Le censure con esso sollevate appaiono invero generiche ed anche confuse, dal momento che i ricorrenti lamentano il rigetto della domanda di risarcimento del danno senza alcuna allegazione del fatto costitutivo dell’altrui illecito, che indicano genericamente nella violazione da parte dei convenuti degli obblighi nascenti dal contratto di consorzio. In realtà le doglianze scontano una evidente mancanza di linearità e coerenza logica della stessa sentenza impugnata, che da un lato appare negare che l’acquisto da parte dei convenuti in proprio del diritto di presa d’acqua e la costruzione del nuovo acquedotto per approvvigionare i propri fondi costituisse una condotta di per sè illecita, come tale generatrice di un danno a carico degli attori, e dall’altro ha escluso l’esistenza del danno, per avere gli appellanti continuato a ricevere l’acqua dal vecchio acquedotto anche dopo l’attivazione di quello nuovo. Poichè tuttavia le censure si appuntano su quest’ultima statuizione, senza investire la prima, è evidente l’inammissibilità del motivo, dovendosi considerare definitiva l’affermazione del giudice di secondo grado laddove ha ritenuto che la condotta dei convenuti non fosse, di per sè, fonte di responsabilità a loro carico. In ogni caso, il mezzo è generico, in quanto, si ripete, non indica in modo appropriato i fatti costitutivi della pretesa risarcitoria di cui lamenta il mancato accoglimento.

Parimenti inammissibile appare il vizio di contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata se riferito alla statuizione che ha condannato gli odierni ricorrenti ad astenersi dal prelievo dell’acqua dalla sorgente posta sul fondo di proprietà dei convenuti, tenuto conto che tale statuizione discende dal rigetto della domanda degli attori di riconoscimento della servitù di acquedotto, situazione che di per sè esclude che essi possano far valere una pretesa di risarcimento del danno per il mancato o insufficiente approvvigionamento idrico.

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza dei ricorrenti.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge, per ciascun gruppo di controricorrenti.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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