Cass. civ. Sez. II, Sent., 08-05-2012, n. 7002

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

G., A.M. ed P.A., nonchè Al., An. ed A.A., assumendosi proprietari di un terreno sito in (OMISSIS), acquistato per successione ereditaria di Co.Do., convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Cassino M.R. e C.D., E., M.C., A., A. I. ed El., nonchè P.M., a. e F., eredi di C.C., affinchè fosse accertata la loro proprietà sul fondo, dichiarata l’inefficacia dell’atto di donazione notaio Gamberale dell’8.9.1983 costituente il titolo d’acquisto dei convenuti, e condannati questi ultimi al risarcimento dei danni.

Nel resistere in giudizio i convenuti, ad eccezione di P. M., a. e F., che rimanevano contumaci, proponevano domanda riconvenzionale di usucapione del terreno.

Il Tribunale, pronunciando anche nei confronti di C. T., erede di M.R., deceduta nel corso del giudizio di primo grado, rigettava la domanda principale ed accoglieva quella riconvenzionale.

Gravata dai P. – A., tale sentenza era riformata dalla Corte d’appello di Roma, la quale dichiarava proprietari del fondo in contestazione gli appellanti.

Qualificata la domanda principale in termini di mero accertamento della proprietà, con accessoria richiesta di darmi ed assente ogni pretesa restitutoria, e ritenuti applicabili i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di azione di rivendica, la Corte capitolina, rilevato che il più remoto titolo di provenienza degli attori era costituito dall’acquisto effettuato da Co.Au. con un atto rogato dal notaio Merola il 13.11.1916, giudicava contrastanti fra loro le deposizioni assunte in punto di usucapione del terreno da parte degli appellati. Quindi, richiamato l’indirizzo del S.C. secondo cui l’onere dell’attore in rivendica non è di regola attenuato nel caso in cui il convenuto domandi o eccepisca in via riconvenzionale l’usucapione della proprietà del bene rivendicato, salvo lo stesso attore provi che il bene è appartenuto ai suoi danti causa in epoca anteriore all’inizio del possesso allegato dal convenuto, che tale appartenenza non sia stata interrotta dal possesso del convenuto medesimo e che il bene gli sia pervenuto in virtù di un valido titolo d’acquisto, rilevava che nella specie sussistevano tutti gli elementi contemplati da detta giurisprudenza.

Per la cassazione di tale sentenza sono stati proposti separati ricorsi principali, uno da C.E., M.C. ed A., un altro da L. e C.P. e E. A., quali eredi di C.D.. La cassazione della sentenza è stata chiesta, con distinti ricorsi incidentali, anche da C.A.I. ed El..

Resistono con controricorso P.A., P.A. M., Al.Al., Al.An. e A. A., quali eredi di P.E., e P. M., quest’ultima quale erede di Pi.Al., a sua volta erede di P.G..

Nel procedimento promosso da L. e C.P. e E.A., hanno proposto ricorso incidentale E., M. C. e C.A., riproducendo le medesime censure dell’impugnazione principale.

Non hanno svolto attività difensiva C.T. e P. M., a. e F..

I ricorsi sono stati riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., con decreto del Presidente di sezione in data 31.1.2011.

Le parti ricorrenti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1. – Il primo motivo del ricorso principale di E., M. C. e C.A. – che corrisponde al primo motivo del ricorso incidentale proposto nel procedimento instaurato da L. e C.P. e E.A. e al primo motivo del ricorso incidentale di Ca.El. – denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

L’attore che agisca in mero accertamento della proprietà soggiace ai medesimi oneri probatori che caratterizzano l’azione di rivendica, per cui occorre che egli provi l’acquisto a titolo originario proprio o dei danti causa ovvero dimostri il possesso continuato ultraventennale da parte di questi ultimi. Nel caso specifico gli attori non hanno fornito alcuna prova al riguardo, essendosi limitati a dedurre l’acquisto a titolo derivativo iure hereditario dalla sig.ra Co.Do., erede di Co.Au., del pari acquirente del diritto di proprietà sul bene a titolo derivativo.

Ciò posto, la Corte d’appello ha erroneamente applicato alla fattispecie l’orientamento giurisprudenziale, per cui tale onere probatorio di regola non è attenuato allorchè il convenuto domandi o eccepisca in via riconvenzionale di aver usucapito la proprietà del bene oggetto di rivendica, a meno che il convenuto non invochi un acquisto per usucapione il cui dies a quo sia successivo alla data del titolo del rivendicante. Nel caso specifico, infatti, tutti i convenuti in rivendica, ben lungi dall’invocare una prescrizione acquisitiva successiva al titolo di proprietà degli attori (costituito dalla successione mortis causa di Co.Do., apertasi il 22.4.1978), hanno dedotto un possesso il cui dies a quo risaliva addirittura al 1934 o al 1958, e dunque di gran lunga anteriore al titolo dedotto dagli attori. Pertanto la Corte territoriale ha trascurato la carenza di elementi che consentissero di ritenere attenuato l’onere della prova a carico degli attori, così violando l’art. 2697 c.c., ovvero ha erroneamente applicato tale giurisprudenza del S.C..

1.1. – Il motivo è infondato.

Contrariamente a quanto assumono i ricorrenti (che sul punto innestano anche una censura di carenza motivazionale, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5: v. pag. 13 del ricorso) la giurisprudenza richiamata dalla Corte d’appello afferma che "qualora il convenuto sostenga, in via riconvenzionale, di aver acquistato per usucapione la proprietà del bene rivendicato, si attenua l’onere probatorio posto a carico dell’attore in rivendicazione, poichè esso si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell’appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere, nonchè alla prova che quell’appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto" (Cass. n. 5161/06 e precedenti conformi, tutte richiamate a pag. 7 della sentenza impugnata, cui adde Cass. nn. 9303/09, 13882/10, 22598/10);

e come consentono gli stessi ricorrenti, tale indirizzo scaturisce dalla circostanza che in tali ipotesi il convenuto ammette implicitamente che il proprietario precedente del bene fosse l’attore o, il che è lo stesso, i danti causa di quest’ultimo.

Affinchè si attenui l’onere probatorio tipico della rivendica, ciò che rileva non è, come vorrebbe parte ricorrente, che il titolo derivativo dell’attore sia anteriore al dies a quo prospettato dal convenuto come data di inizio della possessio ad usucapionem, ma che sia anteriore l’appartenenza del bene ai danti causa dell’attore.

Pertanto, se questi ha acquistato il bene dopo l’inizio del possesso del convenuto, ma i suoi danti causa ne erano proprietari da epoca anteriore, l’onere probatorio si attenua nei sensi anzi detti, con la conseguenza che, mancata la prova dell’usucapione, la domanda di rivendica deve essere accolta.

1.1.1. – Nella specie, la Corte capitolina – con accertamento di fatto in parte qua non censurato quanto alla motivazione che lo sostiene – ha premesso che la catena di trasmissione della proprietà a titolo derivativo che conduce agli attori inizia con l’atto d’acquisto di Co.Au. per notaio Merola in data 13.11.1916 (v. pag. 6 della sentenza), atto che è precedente l’inizio della possessio ad usucapionem da parte convenuta, che gli stessi ricorrenti indicano (evidentemente avvalendosi di quanto emerso in sede testimoniale: v. pag. 14 del ricorso che richiama l’accertamento contenuto a pag. 6 della sentenza) nel 1934 o comunque nel 1958, e dunque la decisione d’appello è del tutto coerente alle esatte premesse di diritto operate.

2. – Il secondo motivo – cui corrisponde la seconda censura del ricorso incidentale proposto da Ca.El. – denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 191 e 194 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè la contraddittoria o insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

La Corte d’appello nel valutare le testimonianze raccolte, giudicandole in contrasto fra loro, quanto alla data di inizio del possesso (1934 o 1958) e al fatto che altri testi hanno riferito di aver accompagnato l’avv. Pegazzani a riscuotere il fitto o a ricevere beni in natura, ha ritenuto che la coltivazione del fondo da parte dei C. con alberi da frutto e altre colture, così come riferita da alcuni testi, fosse confutata dal fatto che il c.t.u., in sede di accesso ai luoghi, avesse rilevato che il terreno risultava incolto, abbandonato e inedificato, giudicando tale elemento "decisivo ed assorbente" per escludere che fosse stata raggiunta la prova dell’intervenuta usucapione. Si tratta di una circostanza – sostengono i ricorrenti – priva di rilevanza probatoria, spontaneamente riferita dal c.t.u. al di fuori dell’incarico ricevuto ed extra petita, e valorizzata ai fini della decisione come se la consulenza tecnica fosse un mezzo di ricerca di elementi e circostanze in contrasto con quanto emerso dall’assunzione dei mezzi di prova. Altri elementi, per contro, avrebbero dovuto indurre un diverso esito, in conformità alla decisione di primo grado, quali la percezione da parte dei M. – C. dei contributi di cui alla L. n. 968 del 1953 e di quelli di bonifica ex D.L.P. n. 31 del 1946, elementi erroneamente ritenuti non significativi dalla Corte d’appello, per insufficiente identificazione del terreno cui si riferivano, in quanto il relativo capitolato testimoniale, confermato dalla teste M., che aveva riferito della percezione di contributi pubblici di bonifica da parte dei C., faceva preciso riferimento al terreno sito in (OMISSIS).

2.1.- Anche tale motivo è infondato.

Infatti, il giudice può trarre argomenti da ogni emergenza agli atti, inclusa, ovviamente, la relazione del c.t.u. atteso che il consulente tecnico d’ufficio può essere sia "deducente", quando cioè valuta fatti altrimenti accertati o dati per esistenti dalle parti, sia "percipiente", allorchè accerta l’esistenza dei fatti dedotti dalle parti a fondamento delle proprie tesi difensive (sulla possibilità che il c.t.u. svolta tanto l’una, quanto l’altra funzione, cfr. Cass. nn. 6155/09 e 3990/06), e che la consulenza tecnica c.d. "percipiente" può essere essa stessa fonte oggettiva di prova, con l’unico limite per cui essa non può valere ad esonerare le parti dai rispettivi oneri probatori (v. Cass. n. 24620/07;

conforme, n. 10871/99; in senso del tutto analogo, cfr. nn. 6155/09, 3990/06, 27002/05, 10871/99 e S.U. 9522/96).

2.2. – Quanto, poi, agli altri elementi di prova citati, a tacere che la parte non può dolersi del fatto che l’accertamento del giudice di merito abbia valorizzato alcune, piuttosto che altre emergenze istruttorie, è sufficiente osservare che la specificità del capitolo di prova non si comunica alla risposta del teste, che se generica va apprezzata come tale.

2.2.1. – Al riguardo la Corte capitolina ha rilevato, con motivazione sufficiente e indenne da vizi di logica giuridica, che "quanto alla percezione di contributi pubblici da parte dei C., di cui parla il teste M., il riferimento si appalesa generico e, pur collegandolo ai documenti prodotti in atti (missive dell’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura di Frosinone in data 28.1.1965, non risulta esaustivo, giacchè non viene indicato a quale terreno si fa riferimento, con precisione identificati va" (v. pag. 7 sentenza impugnata).

3. – Col primo motivo del ricorso principale presentato da L. e C.P. e da E.A. si deduce la violazione del principio del tantum devolutum quantum appellatimi, nonchè la violazione del giudicato formatosi per difetto di impugnazione e del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 324, 342, 346, 329 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art.360, n.4 c.p.c, e l’omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto la Corte d’appello, a) ha mutato d’ufficio, assente ogni motivo di gravame al riguardo, "la qualificazione sostanziale della domanda ritenuta dal primo giudice", con conseguente violazione del giudicato interno formatosi sul punto; b) ha omesso di indicare il criterio logico che l’ha condotta a trascurare l’opportuna verifica della sussistenza delle condizioni dell’azione di accertamento della proprietà, verifica che le avrebbe consentito di cogliere l’esattezza dell’accertamento compiuto dal giudice di prime cure, e in particolare di considerare che anche a voler attribuire alla domanda la qualificazione di azione di mero accertamento della proprietà, quest’ultima è soggetta al medesimo rigore probatorio previsto per l’azione di rivendicazione.

3.1. – Tale motivo è inammissibile per due ordini di ragioni, perchè, quanto al preteso vizio ex art. 360 c.p.c., n. 4, non indica quale sarebbe stata la qualificazione giuridica dell’azione operata dal giudice di primo grado, incorrendo così in un difetto di autosufficienza che rende superfluo prendere partito tra le due contrapposte tesi sul potere di qualificazione d’ufficio in grado d’appello (per la negativa, v. Cass. nn. 24339/10, 20730/08 e 15859/02; per l’affermativa, sia pure nei limiti posti dal divieto di mutare il petitum e la causa petendi della domanda, v. nn. 19090/07, 4008/06, 1939/03 e 27285/06); e in quanto, prospettando un error in procedendo (e dunque un vizio riconducibile al n. 4 e non al n. 5 dell’art. 360 c.p.c.), indica un pregiudizio inesistente, visto che la Corte d’appello ha affermato esattamente quello che i ricorrenti lamentano non sia stato ritenuto, ossia che l’azione di mero accertamento della proprietà soggiace alle stesse regole che governano l’onere probatorio nell’azione di rivendica. Ed è proprio applicando la relativa elaborazione giurisprudenziale che la Corte d’appello è pervenuta all’attenuazione dell’onere probatorio.

4. – Col secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 116 c.p.c., nonchè dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c, n. 3, nonchè l’insufficiente e illogica motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Trascritto il contenuto delle testimonianze rese, parte ricorrente lamenta che la Corte d’appello nel valutarne il contenuto abbia immotivatamente assegnato preferenza a quelle indotte da parte appellante, così attribuendo ad esse "un valore legale diverso da quello tipico". Oltre a ciò, la Corte territoriale sarebbe incorsa in un errore logico, in quanto ha ritenuto rilevante, ai fini della domanda riconvenzionale di usucapione, lo stato di possesso anteriore al 2003, epoca dell’accertamento compiuto dal c.t.u., senza considerare che a tale data l’acquisto della proprietà per usucapione si era già da tempo consolidato in favore dei C..

4.1. – Il motivo è infondato.

Esso non considera che nel sistema processuale vige il principio non del valore legale della prova, ma del libero convincimento del giudice nell’apprezzarne la portata e la concludenza ( art. 116 c.p.c., comma 1), sicchè non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, nel senso che (fuori dai casi di prova legale) esse, anche se hanno carattere indiziario, sono tutte liberamente valutabili dal giudice di merito per essere poste a fondamento del suo convincimento, del quale il giudice deve dare conto con motivazione il cui unico requisito è l’immunità da vizi logici (v. ex multis, Cass. nn. 413/06, 14972/06 e 1747/03).

Questa la motivazione svolta sul punto dalla Corte d’appello: "Le testimonianze assunte si presentano contrastanti tra loro. Alcuni testi ( M.P., D.N.E., D.N.F.) parlano, in ordine al terreno di cui trattasi, di possesso da parte dei C. risalente al 1934 ( M.) o al 1958 ( D.N. E.). Inoltre precisano che i medesimi C. vi avevano piantato alberi da frutta ( M.) ed altre colture, come grano e simili ( D.N.E.). Parimenti D.N.F. parla di coltivazione del terreno. Ma il dato della coltivazione non trova riscontro in sede di accesso del c.t.u. il quale rileva che "il terreno, incolto e abbandonato, risulta inedificato e libero da opere o altro soprassuolo" (c.t.u. pag. 4). E ciò pone in serio dubbio il possesso prospettato dagli odierni appellati. Gli altri testi riferiscono di avere accompagnato sul terreno de quo l’Avv.to Pegazzani a riscuotere il fitto ( L.C.) o a ricevere beni in natura" (v. pagg. 6-7 sentenza impugnata).

Dunque, la Corte territoriale non ha attribuito valore preminente alla prova testimoniale di parte appellante, ma al contrario ha rilevato il contrasto tra questa e quella di parte C.; ha ritenuto tale contrasto non superabile; e da ciò ha tratto la logica conseguenza che la domanda riconvenzionale non poteva ritenersi provata, proprio in applicazione – implicita, ma non per questo meno chiara – della regola dell’art. 2697 c.c., di cui parte ricorrente lamenta, senza fondamento, la violazione. Inoltre, il richiamo a quanto rilevato sui luoghi dal c.t.u. non significa che la Corte abbia inteso valutare il possesso al 2003, ma solo che l’assenza in tale epoca di segni di coltivazione valeva a confermare, nel contesto delle restanti emergenze processuali, l’inattendibilità di una pregressa, effettiva coltivazione del fondo.

Tale apprezzamento di fatto appare sufficiente ed immune da vizi di logica giuridica, e come tale si sottrae, pertanto, al sindacato sulla motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, sollecitato con la censura in esame.

5. – Col terzo motivo è dedotta la violazione del principio di tutela del terzo acquirente di buona fede, decorsi cinque anni dalla trascrizione dell’atto impugnato, e la violazione dell’art. 2652 c.c., n. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, assumendo che in materia sottratta alla disponibilità delle parti il giudice è tenuto a rilevare d’ufficio la decadenza allorchè risulti documentalmente acquisita al processo la prova del decorso del termine di decadenza entro cui far valere il diritto. Nello specifico, sostiene parte ricorrente, la Corte d’appello non ha colto che la trascrizione dell’acquisto da parte dei convenuti dell’appezzamento per cui è causa, avvenuta l’8.9.1983, era di molto precedente il quinquennio anteriore alla trascrizione della domanda di nullità della donazione, introdotta dagli attori con atto di citazione notificato il 3.5.1991, di guisa che ha trascurato di rilevare che il diritto dei convenuti si era consolidato in virtù di un’autonoma fattispecie legale, realizzatasi con l’atto d’acquisto compiuto in buona fede e tempestivamente trascritto.

5.1. – Il motivo è inammissibile in quanto si sostanzia di una questione nuova (sull’inammissibilità nel giudizio di cassazione di questioni nuove o nuovi temi implicanti indagini ed accertamenti di fatti non operati dal giudice di merito, cfr. ex pluribus, Cass. nn. 19164/07 e 8662/05), di cui non risulta (a stregua della sentenza impugnata ed assente una puntuale ed autosufficiente indicazione da parte ricorrente) la trattazione nel giudizio d’appello. Inoltre, si tratta di questione non rilevabile d’ufficio, atteso che la decadenza da facoltà di natura sostanziale è soggetta al potere dispositivo della parte ( art. 2969 c.c.), salvo sia diversamente previsto dalla legge, il che non è riscontrabile nell’art. 2652 c.c..

6. – C.A.I. propone motivi d’impugnazione incidentale del tutto analoghi a quelli dedotti in via principale da L. e C.P. e da E.A., per cui valgono e si richiamano, a confutazione, le considerazioni fin qui svolte.

7. – Infine, va rilevato che il ricorso incidentale proposto da E., M.C. e C.A. nel procedimento n. 20552/10 ripete integralmente le censure svolte in via principale nel procedimento n. 19307/10, per cui se ne deve dichiarare l’inammissibilità trattandosi d’impugnazione meramente riproduttiva di altra validamente introdotta.

8. – La reiezione di tutti i ricorsi comporta la condanna di tutti i ricorrenti – principali e incidentali -, in solido tra loro per la comunanza di interesse sostanziale, al pagamento in favore dei P. – A. delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi principali, nonchè quelli incidentali di A.I. ed Ca.El., dichiara inammissibile il ricorso incidentale proposto con controricorso da E., M. C. e C.A., e condanna tutti i ricorrenti, principali e incidentali, in solido tra loro, al pagamento in favore dei P. – A. delle spese, che liquida in Euro 3.700,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali di studio, IVA e CPA come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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