Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. R.A., quale erede di V.T., conveniva in giudizio D.C.M.A., O. F., B.F.G. e FATA Assicurazioni, per sentirli condannare al risarcimento dei danni derivati al V. dal sinistro stradale verificatosi il (OMISSIS).
Il Tribunale di Teramo accoglieva parzialmente la domanda e, accertato il concorso di colpa del D.C. in misura del 70% e dell’ O. in misura del 30%, in qualità di conducenti di ciascuno dei due veicoli coinvolti nel sinistro, ha dichiarato prescritto il diritto della attrice al risarcimento dei danni nei confronti dell’ O., ha condannato D.C. e B., quest’ultimo quale proprietario del veicolo, al pagamento della somma di Euro 119.723,04 in favore dell’istante, detratti gli acconti, oltre accessori, ha dichiarato la FATA responsabile di mola gestio, ed ha infine condannato tutti i convenuti in solido alla rifusione del 80% delle spese di lite sostenute dalla R..
2. Proponeva appello la R., lamentando – per quanto ancora rileva -la errata valutazione dell’eccezione di prescrizione in favore dell’ O., il quale, costituitosi, eccepiva in via preliminare l’estinzione del giudizio, perchè non riassunto a seguito della dichiarazione di decesso del B., proponendo, tra l’altro, propri motivi di appello incidentale in ordine alla esclusiva responsabilità del D.C. con riferimento al sinistro e la conseguente condanna del predetto, in solido con il B., al risarcimento del danno, liquidato per l’intero ed in proprio favore, al netto degli acconti e maggiorato degli accessori. Si costituivano, altresì, P.L., G. e B. N., rispettivamente moglie e figlie del B., le quali deducevano il proprio difetto di legittimazione passiva, avendo rinunciato, a seguito della morte del loro congiunto, all’eredità relitta. All’udienza del 17 aprile 2007 il procuratore della R. dichiarava di rinunciare all’appello nei confronti delle eredi del B., chiedendone l’estromissione.
3. Con la sentenza oggetto della presente impugnazione, depositata il 4 maggio 2010, la Corte d’Appello dell’Aquila, pronunciando sull’appello principale della R. e su quello incidentale dell’ O.:
3.1. rigettava, preliminarmente, l’eccezione di estinzione del giudizio, sollevata dall’ O. perchè infondata. L’interruzione del giudizio, a seguito della dichiarazione di morte della parte effettuata dal procuratore della stessa, è prevista allo scopo di compulsare gli eredi della parte medesima e di permetterne la costituzione in giudizio. Tale effetto, nel caso di specie, non era stato pregiudicato, ma al contrario garantito in via preventiva, attraverso l’avvenuta originaria notifica dell’atto di appello anche nei confronti di P.L., B.G. e B. N., le quali si sono costituite in giudizio (di appello) per mezzo del loro procuratore e vi hanno fin dall’inizio partecipato, pertanto nessuna riassunzione si era resa necessaria nei loro confronti;
3.2. era infondato e doveva essere rigettato l’unico motivo di appello incidentale proposto dall’ O., circa la responsabilità esclusiva del D.C.;
3.3. era, invece, fondato il primo motivo di appello principale, relativo all’erronea declaratoria di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni azionato nei confronti dell’ O.. Con sentenza del Tribunale penale di Pescara n. 876/83, il D.C. e l’ O. venivano assolti per insufficienza di prove in ordine alla responsabilità del sinistro oggetto di lite, "non essendo stata raggiunta la prova di chi dei due imputati abbia avuto il diritto di precedenza nell’attraversamento dell’incrocio … ", con chiaro riferimento all’elemento psicologico del reato. A seguito di impugnazione, la Corte di Appello di L’Aquila con sentenza n. 84/85, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato colpevole il D.C. -condannandolo alla pena di mesi otto di reclusione ed al risarcimento dei danni in favore di R. A., salvo provvisionale di L. 15.000.000 – e rilevato l’inammissibilità dell’appello proposto nei confronti dell’ O..
All’esito del ricorso per Cassazione proposto dal solo D.C., questa Corte aveva annullato la sentenza di secondo grado, rinviando alla Corte di Appello di Roma per nuovo giudizio e quest’ultima aveva definitivamente accertato la responsabilità del D.C. in misura pari al 70%, condannandolo alla pena di mesi otto di reclusione ed al risarcimento dei danni in favore di R.A., salvo provvisionale di L. 30.000.000. E’ vero – secondo la Corte territoriale – che le impugnazioni non hanno mai investito l’originaria declaratoria di inammissibilità dell’appello nei confronti dell’ O., che dunque ha prodotto il passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione di primo grado nei confronti del predetto, e che l’art. 2947 c.c., comma 3, prevede che il diritto al risarcimento del danno, in caso sia intervenuta sentenza penale irrevocabile, si prescrive nel termine di due anni dalla data di irrevocabilità della sentenza, per cui nel caso di specie, tenuto conto che l’atto di citazione in primo grado era stato notificato solo nel luglio 1991, il diritto al risarcimento del danno azionato dalla R. nei confronti dell’ O. si sarebbe prescritto;
tuttavia la domanda giudiziale di risarcimento del danno proposta dal danneggiato – e tale deve ritenersi la costituzione di parte civile della R. in tutte le fasi e i gradi del processo penale a carico del D.C. – nei confronti di uno dei compartecipi del fatto illecito ha effetto interruttivo della prescrizione, a mente dell’art. 1310 c.c. anche nei confronti degli altri corresponsabili debitori in solido (Cass. n. 3303/78 e 1079/74). Infatti, in tema di risarcimento del danno da circolazione dei veicoli, in caso di sinistro stradale, risalente alla responsabilità di più conducenti, la solidarietà tra costoro, i proprietari dei mezzi e i rispettivi assicuratori, nasce direttamente dalla regola generale dell’art. 2055 c.c., comma 1, per cui "se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno", di conseguenza l’interruzione della prescrizione operata nei confronti di uno dei responsabili solidali, ha efficacia anche nei confronti degli altri. Ciò determinava, nel caso in esame, che la domanda di risarcimento del danno coltivata dalla R. mediante costituzione di parte civile nel processo penale a carico del D.C., conclusosi con sentenza della Corte d’Appello di Roma in data 12 aprile 1990, divenuta irrevocabile in data 19 giugno 1990 (come da attestazione in calce), aveva interrotto la prescrizione anche nei confronti dell’ O., poi ritenuto corresponsabile in misura del 30%, e rispetto ad essa del tutto tempestiva appariva la notifica dell’atto di citazione di primo grado operata in data 20 luglio 1991; sicchè l’eccezione di prescrizione sollevata dall’ O. avrebbe dovuto essere rigettata;
3.4. la domanda svolta dalla R. nei confronti della P. e di G. e B.N., anche a voler prescindere dalla rinuncia all’appello nei loro confronti, non poteva che essere disattesa, avendo le predette dato dimostrazione di aver rinunciato all’eredità del loro congiunto B.F. G..
4. L’ O. ricorre per cassazione sulla base dei seguenti sei motivi; gli intimati non hanno svolto attività difensiva.
4.1 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 299 e segg., artt. 303 e 305 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente disatteso l’eccezione di estinzione del giudizio per mancata riassunzione dello stesso nei confronti degli eredi dell’altro originario convenuto, fu B. F., deceduto in pendenza del giudizio di primo grado senza che, tuttavia, il suo procuratore o altri ne avesse dichiarato l’evento dinanzi al Tribunale. La Corte territoriale, nel disattendere l’eccezione, ha ritenuto che la soluzione adottata dalla R. di notificare l’atto di appello, oltre che al de cuius nel domicilio eletto, agli eredi nel loro rispettivo domicilio reale, abbia consentito a questi ultimi di costituirsi in giudizio, di modo che nessuna riassunzione si era resa necessaria nei loro confronti.
Tuttavia, i virtuali eredi dell’originaria parte si sono costituiti confermando la morte di quest’ultima, ma dichiarando di avere rinunciato alla eredità. A tale situazione la Corte di Appello non ha dato alcun seguito, trascurando la circostanza che l’impulso processuale volto ad evitare l’interruzione, siccome prodotto in confronto dei chiamati all’eredità e non degli eredi come prescrive la norma (art. 303 c.p.c.), era rimasto un mero tentativo e non poteva ritenersi superata l’esigenza di consentire la prosecuzione del processo in contraddittorio con il soggetto legittimato. Infatti, proprio a seguito dell’iniziativa della R., era stato formalmente acquisito nel processo l’evento (interruttivo) della morte del B., dichiarata dalle sue aventi causa e per esse dal loro procuratore, oltre che documentata dalla stessa appellante:
conseguentemente, essendo la morte sopraggiunta prima della costituzione in giudizio (di appello) della parte, l’interruzione del processo si doveva considerare automaticamente intervenuta, non potendosi attribuire alla notifica dell’appello alle virtuali eredi l’effetto della prosecuzione del giudizio, manifestandosi di converso l’esigenza della riassunzione ed il decorso del relativo termine semestrale utile. Del resto, allorquando l’appellante, venuto a conoscenza del decesso dell’appellato, ha ritenuto di dover proseguire la causa direttamente nei riguardi dei singoli eredi, avrebbe dovuto anche peritarsi, dopo avere individuato i chiamati alla successione, di verificare se i medesimi avessero o meno accettato l’eredità e, in caso negativo, sollecitare l’istituzione di un curatore alla eredità giacente, contro cui formare validamente il contraddittorio. Invece, pur al cospetto della rinuncia all’eredità dei predetti chiamati, da costoro eccepita all’atto della costituzione in giudizio, l’appellante non ha inteso provocare la nomina di un Curatore dell’eredità giacente, nei cui confronti riassumere la causa, mentre sarebbe stato doveroso preservare l’integrità del contraddittorio, vedendosi in ambito di litisconsorzio necessario per ragioni processuali ed in presenza di una causa inscindibile ex art. 331 c.p.c.; peraltro, non perfezionandosi detta integrità (e non essendo il processo proseguito nei termini dovuti e riferiti), sarebbe rimasto pregiudicato direttamente il ricorrente, che contro gli eredi appellati aveva svolto impugnazione incidentale, privato del legittimo interlocutore in ordine alla propria domanda di esclusione di colpa e di rivalsa. Aggiunge il ricorrente che, per "superare" la decadenza in cui era ormai incorsa, essendo decorsi i sei mesi utili alla riassunzione, alla udienza del 17.4.2007 il procuratore della R. dichiarava di rinunciare al gravame proposto contro gli eredi B., rinuncia, non condivisa e non formulata dall’ O. per la sua incidentale impugnazione. Avverso tale atto abdicativo ed a sostegno della sua invalidità ed inefficacia, formalizzato a processo ormai estinto, l’ O. aveva eccepito che la sua riconducibilità al difensore privo dei necessari poteri la rendeva tamquam non esset e, comunque, che nessuna efficacia poteva rivestire una rinuncia all’azione contro soggetti privi della legittimazione passiva a resistere alla stessa perchè sforniti della veste di eredi. La Corte avrebbe completamente trascurato tali considerazioni, omettendo di constatare che, in presenza di un evento interruttivo (morte della parte) e della mancata prosecuzione e/o riassunzione del giudizio contro gli effettivi eredi, la causa andava dichiarata estinta allo spirare dei sei mesi utili alla riassunzione, decorrenti, quantomeno, dalla conoscenza della rinuncia alla eredità da parte dei chiamati alla successione, i quali in tal modo avevano manifestato di non essere i soggetti cui spettava proseguire il giudizio, la cui costituzione avrebbe evitato l’interruzione a mente dell’art. 299 c.p.c.. Ove si volesse assegnare un’efficacia utile alla prosecuzione del giudizio all’eseguita notifica dell’appello ai soggetti successibili ex art. 565 c.c., si sarebbe comunque verificato l’evento interruttivo ex artt. 299 o 300 c.p.c. all’esito della loro dichiarazione (e del loro Procuratore) di avere rinunciato alla eredità, determinante la loro perdita della capacità di stare in giudizio e, quindi, l’esigenza di riassumere la causa nei confronti dell’effettivo successore.
4.2. – Nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 75, 101 e 102 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, perchè la Corte territoriale, anzichè respingere nel merito la domanda della R. contro le prossime congiunte del B., proprio per avere queste "dato dimostrazione di aver rinunciato alla eredità" del predetto, avrebbe dovuto dichiarare la carenza di legittimazione passiva delle medesime, perchè non rivestenti la qualità di eredi del B., in ragione della quale erano state evocate nel giudizio di appello. Sulla scia di tale errore, la Corte avrebbe poi respinto la domanda incidentale dell’ O. spiegata anche contro le predette eredi, ancora, quindi, statuendo nel merito, anzichè lasciar derivare dalla condivisa rinuncia all’eredità delle appellate la loro carenza di legitimatio ad processum. E’ principio consolidato che, qualora il chiamato all’eredità si costituisca in giudizio ed eccepisca la propria carenza di legittimazione passiva, il giudice deve disporne l’estromissione dal giudizio, che deve essere proseguito nei confronti dell’erede o del chiamato nel possesso dei beni ereditali, ovvero, se nessuno si costituisce o accetta il contraddittorio, nei confronti di un curatore speciale nominato a norma dell’art. 528 c.c.. (Cass. 13 agosto 1980 n. 4929). La legitimatio ad processum, intesa come capacità delle parti a stare in giudizio, costituisce un presupposto processuale che attiene alla regolare costituzione del rapporto processuale e l’accertamento della sua esistenza o della sua mancanza può essere compiuto anche in sede di legittimità (Cass. lav. 11.1.95 n. 267; Cass. 1, 15.12.1980 n. 6490). Nella specie, i soggetti che abbiano rinunciato alla eredità non siano i soggetti passivi del rapporto controverso derivante dalla posizione debitoria del de cuius, in quanto non sono i destinatari della domanda giudiziale, per cui la Corte territoriale avrebbe erroneamente evitato all’appellante l’esigenza d’integrare il contraddittorio pervenendo all’esame del merito della controversia. Il vizio dell’irregolare costituzione del contraddittorio, per difetto della sua estensione ad una delle parti essenziali del processo, configurerebbe una situazione d’insanabilità assoluta del procedimento che darebbe luogo ad inesistenza della sentenza emessa, rilevabile in ogni stato e grado;
4.3. Nullità della sentenza per violazione falsa applicazione degli artt. 101 e 102 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, perchè, in un processo con pluralità di parti e vertendosi in ipotesi di litisconsorzio necessario, almeno processuale (cause dipendenti, destinate a rimanere unite anche nella fase di gravame, l’appellante R. avrebbe dovuto preoccuparsi di regolarizzare il contraddittorio nei riguardi di tutte le parti che avevano partecipato ai primo grado, sicchè, una volta constatata l’avvenuta rinuncia all’eredità di una delle controparti, l’appellante non avrebbe potuto disinteressarsi di ciò e proseguire sic et simpliciter nei confronti delle restanti parti del rapporto.
E, soprattutto, secondo il ricorrente, la Corte territoriale, pur non ignorando la circostanza ed, anzi, prendendo atto sia del decesso dell’originario convenuto che del difetto della veste di suoi successori in capo ai familiari citati dall’appellante, ha invece emanato pronunce nel merito della causa sia nei confronti di detti familiari e sia, addirittura, nei confronti del de cuius.
Quest’ultimo (fu B.F.), nei cui confronti il giudizio d’appello non poteva e non è stato instaurato (alcun effetto potendo derivare dall’inammissibile notifica dell’atto di appello alla parte deceduta in primo grado, ciò integrando un insanabile difetto della vocatio in ius), risulta infatti destinatario del decisum del Giudice di appello, come da statuizioni di condanna espresse nel dispositivo della sentenza impugnata.
4.4. – Violazione e falsa applicazione degli artt. 25 e 652, rispettivamente del vecchio e del nuovo c.p.c, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte territoriale – a differenza del giudice di primo grado – non avrebbe esaminato la questione dell’impropombilità dell’azione di risarcimento ex art. 2054 c.c., a seguito di sentenza penale di proscioglimento dell’imputato con formula dubitativa sull’elemento oggettivo del reato, limitandosi a confutare l’intervenuta prescrizione del relativo diritto (questione di cui al successivo sesto motivo). Indipendentemente dalla formula adottata, l’art. 652 nuovo c.p.p. attribuisce esclusiva rilevanza al positivo e concreto "accertamento" (che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso) compiuto dal giudice e contenuto in sentenza, per cui più che al dispositivo occorre considerare la motivazione integrale, recante le considerazioni di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base del dictum.
Il richiamo all’accertamento del fatto, da intendersi ristretto agli elementi materiali del reato (condotta commissiva od omissiva, evento e nesso di causalità), pone il problema delle sentenze assolutorie motivate con il dubbio su tali elementi oggettivi e sull’esistenza del nesso causale. Senza contare che la sentenza assolutoria per insufficienza di prove dell’ O. risale al 2.11.1983, mentre la sentenza di secondo grado con la quale la Corte di Appello ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto nei riguardi del medesimo O. è del 21.2.1985, sicchè la vicenda processuale dell’ O. sarebbe disciplinata dal codice di procedura penale preesistente, essendo il passaggio in giudicato della stessa avvenuto prima dell’avvento del "nuovo" codice, approvato con D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447. In quest’ultimo, non figura più, come formula distinta, la sentenza di assoluzione per "insufficienza di prove", in quanto nell’art. 530 cpv. c.p.p. le ipotesi di dubbio vengono equiparate alla mancanza di prove, pur sussistendo per il giudice il dovere di indicare la causa dell’assoluzione nel dispositivo (art. 530 c.p.p., comma 1). Anche in base al nuovo assetto, con riferimento all’ipotesi in cui ad apparire insufficiente o contraddittoria sia la prova sul nesso causale, deve ritenersi comunque compiuto "l’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso", dal momento che il fatto non sussiste quando non sia provato come ricorrente in tutta la sua oggettività, e quindi, anche quando noci sia stato adeguatamente provato il nesso eziologico: per tale ragione, è possibile affermare che anche nelle ipotesi in esame le sentenze assolutorie dispiegano i loro effetti vincolanti nel giudizio civile per il risarcimento dei danni (nei limiti dettati dall’art. 652 c.p.p.). Il solo ostacolo all’efficacia del giudicato della sentenza assolutoria concerneva e concerne i soggetti rimasti estranei al giudizio penale, ma, nel caso di specie, la R. si è costituita parte civile sin dall’inizio, partecipando al processo penale dal quale è maturata la sentenza assolutoria evocata. Ove non si intendesse condividere la tesi dell’automatismo della preclusione dell’azione civile per risarcimento danni al passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione dell’imputato con le formule previste dall’art. 25 c.p.p. del 1930, occorrerebbe verificare se la formula dubitativa adottata dal Tribunale di Pescara scaturisse dalla ritenuta mancanza di prove dell’elemento soggettivo ovvero oggettivo del reato, al fine di stabilire se la decisione sia o meno preclusiva dell’azione civile risarcitoria, sussistendo nella seconda ipotesi l’improponibilità dell’azione civile, anche alla stregua dell’attuale art. 652 c.p.p..
Nell’ipotesi, il dubbio elevato a motivo assolutorio è dipeso dalla constatata impossibilità da parte del Giudice di stabilire quale dei due conducenti antagonisti chiamati ad impegnare l’incrocio stradale regolato da impianto semaforico avesse usufruito della luce verde e quale abbia attraversato con quella rossa. Si tratterebbe di un dato di fatto, consistente nella mancanza di elementi utili a stabilire quale luce proiettasse il semaforo nel momento in cui O. attraversò la carreggiata e, conseguentemente, l’esistenza di nesso eziologico tra la condotta (colposa) dell’ O. e la collisione tra i mezzi, per cui, non riuscendo il Giudice a ricostruire la vicenda con la necessaria certezza, non ha potuto compiere la successiva indagine circa la colpevolezza degli imputati, pervenendo al verdetto assolutorio.
4.5. – Omessa o insufficiente motivazione in ordine alla ritenuta riconducibilità della pronuncia di assoluzione del ricorrente per insufficienza di prove da parte del giudice penale all’elemento soggettivo (piuttosto che a quello oggettivo) del reato, questione controversa e decisiva per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe apoditticamente affermato che la motivazione della sentenza assolutoria del Tribunale di Pescara consistente nella premessa "non essendo stata raggiunta la prova di chi dei due imputati abbia avuto il diritto di precedenza nell’attraversamento dell’incrocio .. " sia stata formulata "con chiaro riferimento all’elemento psicologico del reato", senza indicare in alcun modo le ragioni che l’hanno ispirato e persuaso di simile approdo. L’insufficienza o, meglio ancora, la mancanza motivazionale assume una importanza cardinale nell’economia del decisum, risultando decisivo chiarire se la sentenza di assoluzione dell’ O. scaturisca da un’insufficienza di prove sull’elemento soggettivo, come ritenuto dalla R., o oggettivo, come sostenuto dall’esponente, senz’altro derivando tout court dal secondo caso, per le ragioni spiegate nel precedente motivo di ricorso, l’improponibilità dell’azione risarcitoria della R..
4.6. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1310, 2055, 2945 e 2947 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la danneggiata avrebbe dovuto agire nel biennio dal passaggio in giudicato della sentenza assolutoria dell’ O. per non incorrere nella prescrizione sancita dall’art. 2947 c.c., commi 2 e 3.
A confutazione della contraria opinione espressa dalla Corte di Appello di L’Aquila, osserva il ricorrente che, se è vero che a mente dell’art. 1310 c.c. gli atti con i quali il creditore interrompe la prescrizione contro uno dei debitori solidali hanno effetto riguardo agli altri debitori, e se è altrettanto vero che a mente dell’art. 2055 c.c. se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno, sarebbe decisivo in segno opposto che l’ O. non riveste la qualità di debitore, nè appare responsabile del decesso del V., derivando dalla definitività della sentenza d’assoluzione la perdita in capo all’ O. della presunzione di corresponsabilità derivante dall’art. 2054 c.c. e segg.. La Corte territoriale medesima avrebbe correttamente rilevato, respingendo le diverse tesi della controparte sulla pretesa efficacia sospensiva dei gradi di giudizio penale ulteriori percorsi dalla R. nei riguardi dell’imputato D.C., tanto che nella prima parte della motivazione sul punto, il giudice di appello fa la puntuale applicazione dell’art. 2945 c.c., secondo cui gli atti interruttivi prodotti dalla domanda proposta nel corso di un giudizio (nella specie attraverso la costituzione di parte civile da parte della R. contro gli imputati O. e D.C.) determinano l’arresto del corso della prescrizione fino al momento n cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio: appunto, per quanto attiene all’ O., con il decorso del biennio dalla data di passaggio in giudicato della sentenza resa dal Tribunale di Pescara il 2.11.83 della sua assoluzione con formula dubitativa, risulta irrimediabilmente prescritto il diritto al risarcimento danni della parte lesa. Non sarebbe, invece, condivisibile la seconda parte della motivazione sul punto, secondo cui gli atti interruttivi della prescrizione utilmente posti in essere dalla parte offesa contro D. C. avrebbero spiegato efficacia interruttiva finche nei riguardi dell’ O., quale condebitore solidale, a mente dell’art. 1310 c.c., perchè dietro l’apparente ragionevolezza dell’enunciato, si celerebbe un vizio argomentativo inficiante il sillogismo finale. La premessa postulata dall’art. 2055 c.c. per determinare la conseguenza che l’interruzione della prescrizione operata nei confronti di uno dei responsabili solidali abbia efficacia anche per gli altri, è data dal seguente ineludibile presupposto: "se il fatto dannoso è imputabile a più persone". Nella specie, al momento della proposizione della domanda risarcitoria della R., tale presupposto non era riferibile all’ O., attesa la sua assoluzione in sede penale, sia pure con la formula dubitativa, onde il "se" contemplato dall’art. 2055 c.c., in fedele consecuzione con la presunzione di responsabilità posta dal precedente articolo, andava e va sciolto in senso negativo, in quanto la decisione definitiva del Giudice andava ad assorbire e vincere quella che era una semplice presunzione. Nè si potrebbe ragionevolmente sostenere la non opponibilità di quel giudicato in ragione del ripudio, operato dal Codice Vassalli, dell’art. 25 del Codice Rocco e, quindi, della preclusione dell’azione civile a seguito di giudizio penale conclusosi con la declaratoria d’insufficienza della prova in ordine alla sussistenza del fatto o della relativa commissione da parte dell’imputato, in quanto la danneggiata avrebbe dovuto far valere le proprie ragioni risarcitorie con apposito giudizio civile da instaurare contro l’ O. (perchè contro il D.C. era pendente l’azione civile nel giudizio penale) nei limiti temporali consentiti dall’estinzione del diritto per prescrizione, altrimenti verificandosi la violazione e l’elusione dell’art. 2945 cpv. c.c..
Del resto, proprio nella contestata ottica di assenza preclusiva dell’azione civile, la danneggiata avrebbe dovuto avvertire l’esigenza di promuovere la stessa contro l’ O. (sia pure in concomitanza con l’azione contro il corresponsabile coltivata in sede penale), per non confrontarsi, com’è accaduto, con gli effetti del giudicato penale sull’art. 2947 c.c..
5. Il ricorso è infondato e va respinto.
5.1. I primi tre motivi – che possono essere trattati congiuntamente, data l’intima connessione, essendo tutti rivolti a dedurre, in sostanza, la non rituale integrazione del contraddittorio in appello, essendo il procedimento relativo stato instaurato nei confronti dei chiamati all’eredità e non già degli eredi del B., avendo i suoi prossimi congiunti rinunciato all’eredità – si rivelano infondati.
5.1.1. Con essi, l’ O. sostiene che, essendo deceduto il convenuto, B.F., obbligato solidale con lui, avrebbe dovuto essere dichiarato estinto il giudizio, per mancata riassunzione nei confronti degli eredi, vertendosi in ipotesi di litisconsorzio necessario, sia pure processuale; che erroneamente la Corte d’Appello aveva ritenuto integro il contraddittorio, dato che l’appellante R. aveva notificato direttamente l’atto di appello alle eredi (moglie e figlie) del B.; che queste, costituitesi in giudizio avevano dichiarato di aver rinunziato all’eredità; che tuttavia la Corte territoriale non si era fatto carico di ciò e, in luogo di dichiarare il difetto di legittimazione passiva delle tre chiamate all’eredità, aveva rigettato nel merito la domanda contro le stesse; che non essendo stato integrato il contraddittorio dall’appellante nei confronti delle eredi di B. F., deceduto, era stato anche pregiudicato lui, O., che aveva proposto impugnazione incidentale contro il B. in ordine alla sua domanda di esclusione di colpa e di rivalsa.
5.1.2. Le censure muovono dall’erronea premessa della ricorrenza, nella fattispecie, di un’ipotesi di litisconsorzio processuale.
Invero, il ricorrente ritiene impropriamente che, in un’ipotesi di obbligazione solidale, quale è quella in questione, tra i vari coautori dell’illecito (art. 2055 c.c.), sussista un litisconsorzio necessario, mentre, in effetti, ricorre un’ipotesi di litisconsorzio meramente facoltativo. Infatti, l’obbligazione solidale passiva – quale è quella che sussiste tra i corresponsabili di un incidente stradale (e le rispettive società assicuratrici) – non comporta, sul piano processuale, l’inscindibilità delle cause e non da luogo a litisconsorzio necessario, in quanto, avendo il creditore titolo per rivalersi per l’intero nei confronti di ogni debitore, è sempre possibile la scissione del rapporto processuale, il quale può utilmente svolgersi anche nei confronti di uno solo dei coobbligati (Cass. n. 15040/2005; 17249/2003; 26888/2008). Nè la circostanza per cui una domanda di condanna all’adempimento di un’obbligazione venga accolta nei confronti di più soggetti in via solidale giustifica di per sè che il processo, che ha avuto in primo grado natura di litisconsorzio facoltativo, si configuri in sede di impugnazione come processo su causa inscindibile, sia che impugni il soggetto che ha ottenuto la condanna solidale sia che impugni alcuno dei condannati in solido; ne consegue che, di regola, in appello si applica in tali casi il disposto dell’art. 332 c.p.c. e non quello dell’art. 331 c.p.c. (Cass. n. 3338/2009).
5.1.3. Ne consegue che, in caso, come quello in esame, di litisconsorzio facoltativo, ove all’interruzione del processo per morte di uno dei creditori o condebitori non segua l’atto di riassunzione effettuato nel termine previsto nei confronti dei suoi eredi, il processo prosegue solo quanto ai rapporti processuali relativi alle parti regolarmente citate, e si estingue, invece, limitatamente alla parte deceduta, in applicazione del principio di cui all’art. 1306 c.c., per cui, anche in caso di rapporto plurisoggettivo solidale, sono possibili le azioni di un solo contitolare o verso un solo contitolare, dirette a perseguire l’adempimento dell’obbligazione. Cass. n. 16018 del 2010; 26888 del 2008; 18714 del 2007).
Ciò comporta, altresì, che – indipendentemente dal punto se il procedimento sia correttamente proseguito nei confronti delle eredi del B. ovvero dovesse essere dichiarato estinto – vertendosi in ipotesi di litisconsorzio facoltativo, esso è proseguito correttamente nei confronti dell’ O..
5.1.4. Nè quest’ultimo può fondatamente assumere di essere stato pregiudicato, relativamente alla propria impugnazione incidentale, dal fatto che l’appellante principale non avesse esattamente individuato e citato in appello le eredi del B. (o un curatore dell’eredità giacente, previa nomina dello stesso: Cass. n. 2331/1984). Proprio perchè si verteva in ipotesi di litisconsorzio facoltativo e, quindi, non vi era la necessità d’integrazione del contraddittorio – a tale corretta individuazione degli eredi del contraddittore della sua domanda di responsabilità e/o di rivalsa avrebbe dovuto provvedere lo stesso O., una volta rilevato che non vi aveva provveduto l’appellante principale (argomento desumibile, tra le altre, da Cass. n. 26852/2006).
5.2. Vanno trattati congiuntamente anche il 4^ e il 5^ motivo di ricorso, con i quali il ricorrente assume che erroneamente la Corte territoriale non avrebbe ritenuto preclusa l’azione civile della R., essendo stato assolto per insufficienza di prove, in merito al punto su chi dei due conducenti aveva il diritto di passare per il verde al semaforo. Ritiene, al riguardo, il ricorrente che tanto l’art. 25 c.p.p. 1930 che il vigente art. 652 c.p.p. precludano l’azione civile in caso di assoluzione per insussistenza del fatto anche se non con formula dubitativa.
5.2.1. I motivi sono entrambi infondati. Anzitutto, va osservato che si rivela non decisiva la questione relativa al punto se si trattava di assoluzione dell’ O. per insufficienza di prove sull’elemento soggettivo o oggettivo del reato. Infatti, nella fattispecie non è applicabile l’art. 25 c.p.p. del 1930, ma l’art. 652 c.p.p. vigente.
In ordine all’efficacia del giudicato penale di assoluzione con formula dubitativa nel presente giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno da reato, è preliminare il rilievo – non svolto da alcuna della parti, ma soggetto all’impulso d’ufficio, investendo esso l’individuazione della norma applicabile in relazione ad un aspetto della controversia inciso dal ricorso di legittimità – per cui nella specie non è applicabile l’art. 25 dell’abrogato codice di rito penale, bensì l’art. 652 del nuovo codice di rito penale. Invero, le norme sull’efficacia della sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione nel giudizio civile, dettate dagli artt. 651, 652 e 654 del vigente codice di rito penale, sono applicabili non solo quando la sentenza penale sia passata in giudicato dopo l’entrata in vigore di detto codice, ma anche quando lo sia anteriormente, poichè l’art. 260 delle disposizioni transitorie del vigente c.p.p. espressamente stabilisce che in materia di efficacia extrapenale della decisione si osservano le nuove disposizioni anche per i provvedimenti emessi anteriormente alla data di entrata in vigore del codice (cfr. Cass. 1319/96). Ora, in base al chiaro tenore dell’art. 652 – come pure dell’art. 653 – del vigente c.p.p., il giudicato penale di assoluzione è idoneo a produrre gli effetti preclusivi previsti dalla citata norma solo quando contenga, in termini categorici, un effettivo accertamento circa l’insussistenza del fatto o l’impossibilità di attribuire questo all’imputato, non anche quando l’assoluzione sia determinata dalla insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato Ne consegue che non può fare stato nel presente giudizio, ai sensi del citato art. 652 c.p.p., una sentenza assolutoria con formula dubitativa, incompatibile con il positivo accertamento dell’insussistenza del fatto o della non commissione di esso ad opera dell’imputato (Cass. n 3330 del 30/03/1998; n. 7665 del 19/05/2003).
Sennonchè una volta ritenuto che si applica solo l’art. 652 c.p.p., ne consegue che la sentenza di assoluzione per insufficienza di prove per qualunque ragione non fa stato nel giudizio civile, nè preclude l’azione civile. Mentre l’art. 25 c.p.p. 1930 precludeva l’azione civile (avanti al giudice civile) a seguito di giudizio penale conclusosi con la declaratoria di insufficienza della prova in ordine alla sussistenza del fatto o della relativa commissione da parte dell’imputato, nessuna norma equivalente è viceversa rinvenibile nel nuovo codice di procedura penale (a seguito della eliminazione della suddetta formula di proscioglimento). Ed infatti, sia in virtù dell’art. 652 (nell’ambito del giudizio civile di danni) che dell’art. 654 c.p.p. (nell’ambito di altri giudizi civili), il giudicato penale di assoluzione è idoneo a produrre effetti preclusivi quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso – nel giudizio civile solo quando contenga un effettivo e specifico e concreto accertamento circa l’insussistenza del fatto o l’impossibilità di attribuire questo all’imputato, e non anche quando l’assoluzione sia determinata dalla conclusione relativa all’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato (Cass. civ., Sez. 3, 20/09/2006, n. 20325, non contrastante sul punto con il principio di cui alla recente Cass. S.U. n. 1768 del 26/01/2011).
5.3. E’, infine, infondato anche il 6^ motivo, con il quale il ricorrente ripropone la questione della prescrizione. Infatti, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che gli atti interruttivi posti in essere nei confronti di uno dei condebitori (nell’ipotesi, la costituzione di parte civile nel processo proseguito nei confronti del D.C.) producono effetti interruttivi anche nei confronti dei condebitori solidali, ai sensi dell’art. 1310 c.c. (nel caso, nei confronti dell’ O.).
In particolare, la Corte territoriale ha rilevato che, nel caso in esame, la domanda di risarcimento del danno coltivata dalla R. mediante costituzione di parte civile nel processo penale a carico del D.C., conclusosi con sentenza della Corte d’Appello di Roma in data 12 aprile 1990, divenuta irrevocabile in data 19 giugno 1990, aveva interrotto la prescrizione anche nei confronti dell’ O., poi ritenuto corresponsabile in misura del 30%, e rispetto ad essa del tutto tempestiva si era rivelata la notifica dell’atto di citazione di primo grado avvenuta in data 20 luglio 1991; sicchè l’eccezione di prescrizione sollevata dall’ O. avrebbe dovuto essere rigettata.
5.3.1 La decisione si rivela, quindi, in armonia con l’orientamento di questa S.C., secondo cui la disciplina dell’art. 1310 c.c., comma 2, sull’estensibilità dell’interruzione della prescrizione agli altri condebitori solidali, va completata con la disciplina degli effetti della durata dell’interruzione contenuta nell’art. 2945 c.c., con la conseguenza che l’azione giudiziaria (nella specie, la costituzione di parte civile nel procedimento penale a carico del condebitore solidale D.C.) e la pendenza del relativo processo hanno determinato l’interruzione permanente della prescrizione anche nei confronti del condebitore rimasto poi estraneo al giudizio (Cass. n. 1406 del 21 gennaio 2011; n. 8136 del 15 giugno 2001; v. anche Cass. n. 18644 del 5.12.2003).
6. Ne deriva il rigetto del ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio, non avendo gli intimati svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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