Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-05-2012, n. 8019

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con sentenza resa pubblica il 10 giugno 2005, la Corte d’appello di Milano, sezione specializzata agraria, rigettava l’appello proposto da Centro Casa s.r.l. (quale cessionaria del credito litigioso appartenente al Fallimento "Mundus di Stefanini Sergio & C. s.n.c.", subentrato nel giudizio promosso da S.F., a seguito del suo fallimento quale socia di detta s.n.c.) avverso la sentenza del Tribunale di Lodi che, a sua volta, aveva respinto le domande proposte, originariamente dalla S. e poi coltivate dal Fallimento, nei confronti della Amministrazione delle II.PP.P.B. di Milano di affrancazione del complesso immobiliare facente parte del podere (OMISSIS) e di condanna della convenuta Amministrazione alla restituzione delle somme corrisposte in eccedenza rispetto al canone enfiteutico.

Domande, queste, che l’attrice aveva fondato sull’assunto di essere enfiteuta dell’anzidetto complesso immobiliare in forza di contratto con la Amministrazione II.PP.A.B. del 12 novembre 1979, per un canone annuo di L. 2.300.000 e con l’obbligo di eseguire, a propria cura e spese, la ristrutturazione dei fabbricati insistenti sul fondo, in gran parte pericolanti ed inabitabili, cui aveva effettivamente provveduto con una spesa di circa L. 300.000.000. 1.1. – In particolare, la Corte territoriale, nel confermare le statuizioni di primo grado, negava la natura enfiteutica del rapporto nascente dal contratto intercorso tra le parti, riconducendolo al "genus della locazione", con conseguente declaratoria di infondatezza delle pretese di affrancazione del fondo e di ripetizione dei canoni asseritamente corrisposti in eccedenza; ribadiva, altresì, il rigetto delle domande subordinate di indennità per miglioramenti della cosa locata, ex art. 1592 cod. civ., di ripetizione di indebito degli esborsi sopportati per l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione e di ingiustificato arricchimento conseguito dalla concedente in danno della concessionaria, giacchè "inammissibili per tardività, essendo state per la prima volta proposte in sede di note conclusive depositate in data 16/10/2003". 2. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la Centro Casa s.r.l. ha proposto ricorso, affidando le sorti dell’impugnazione a tre distinti motivi.

Ha resistito, con controricorso, l’Azienda di servizi alla persona "Golgi Redaelli", nel quale ente con personalità giuridica di diritto pubblico si è trasformata l’Amministrazione II.PP.A.B. di Milano, per effetto della L.R. Lombardia 13 febbraio 2003, n. 1, art. 3.

Motivi della decisione

1. – Preliminarmente, va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla controricorrente Azienda sul presupposto della carente formulazione, all’esito di ciascun motivo, dei quesiti, di diritto o di fatto, prescritti dall’art. 366 bis cod. proc. civ.;

tale disposizione, infatti, ha iniziato ad esplicare i propri effetti in relazione alle sentenze pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006, data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che ha introdotto il citato art. 366-bis (poi abrogato ad opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47 a decorrere dal 4 luglio 2009), sicchè non può trovare applicazione nella presente impugnazione che riguarda una sentenza pubblicata il 10 giugno 2005. 2. – Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1367 cod. civ. in relazione agli artt. 960, 1571, 1325, 1346 e 1418 cod. civ., nonchè omessa, insufficiente contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Sotto il profilo del vizio di motivazione, la ricorrente assume, anzitutto, che la sentenza impugnata avrebbe negato la natura di enfiteusi del rapporto inter partes, senza, tuttavia, "statuire in modo espresso circa l’esatto tipo negoziale cui riferirsi, nella necessaria ricerca della disciplina applicabile", evidenziando una "ambiguità" foriera di "ripercussioni pratiche, in particolare, in relazione alle richieste economiche subordinate di cui al successivo motivo 3".

Inoltre, il procedimento interpretativo seguito dalla Corte territoriale sarebbe viziato dall’omessa considerazione di prove decisive acquisite al processo, riguardanti, segnatamente, l’"oggetto del contratto" (clausola n. 5 della scrittura del 12 novembre 1979, ove si legge "edifici aziendali attualmente ed in gran parte pericolanti ed inabitabili"), le "opere di ristrutturazione" sostenute dalla S. negli anni 80 (ammontanti, secondo la c.t.u. in atti, ad un controvalore di L. 355.377.600), il "valore dei fabbricati ristrutturati" (pari a L. 300.000.000, come risultante dagli avvisi pubblici di vendita del 15 novembre 1988 e del 12 gennaio 1989), l’uso dei fabbricati da parte della S. (e cioè, secondo le ammissioni di controparte all’udienza del 23 maggio 2003 dinanzi al Tribunale di Lodi, "esclusivamente attività di ricovero per cani abbandonati o a pensione, senza alcuno scopo di lucro ma chiedendo un mero contributo per le spese di alimentazione, cura e mantenimento"). In definitiva, dalle risultanze anzidette emergerebbe la prova della insuscettibilità del bene concesso "di alcun godimento" e, al contempo, di essere privo di valore economico, nonchè la prova della miglioria del fondo in ottemperanza agli obblighi contrattuali e dell’uso del fabbricato da parte della concessionaria. Tali elementi sarebbero stati ignorati dalla Corte d’appello, ma sarebbero decisivi ai fini della ricostruzione della fattispecie, facendo risaltare come l’obbligo di ristrutturazione fosse esso stesso l’oggetto del contratto "e, anzi, un elemento causale imprescindibile", tale che in sua assenza dovrebbe addirittura postularsi la nullità del contratto per impossibilità dell’oggetto o per difetto assoluto "di una plausibile causa giuridica".

Avrebbe errato, dunque, il giudice di secondo grado nel qualificare il rapporto sia come riconducibile al "genus della locazione", sia come "contratto di affitto …con clausola ad meliorandum", giacchè la presenza della clausola miglioritaria non avrebbe potuto "prescindere dall’attribuzione all’affittuario/conduttore di un bene suscettibile di una qualche godimento (locazione) o, addirittura, di coltivazione (fondo rustico), il che non è certamente avvenuto nel caso in esame".

Peraltro, la motivazione sul punto della sentenza impugnata (oltre che fondata su documenti illegittimamente acquisiti, quale vizio considerato però dal secondo motivo di ricorso) si risolverebbe in una acritica riproduzione delle clausole contrattuali, senza effettiva spiegazione di esse, operandosi due ordini di richiami – uno "indiretto", a quanto motivato dal primo giudice, e l’altro "diretto", alle clausole (segnatamente, nn. 1, 3 e 8) del contratto in data 12 novembre 1979 – per poi circoscrivere la ricerca della comune intenzione delle parti al solo "senso letterale delle parole", in tal modo violando l’art. 1362 cod. civ. nel procedimento ermeneutico volto ad accertare l’esatta qualificazione della fattispecie negoziale.

3. – Con il secondo mezzo si denuncia omessa o insufficiente motivazione della decisione e nullità della sentenza o del procedimento "per la ritenuta ammissibilità e rilevanza di prove documentali introdotte in violazione degli artt. 437 e/o 414 c.p.c., n. 5 e/o art. 184 c.p.c.".

La ricorrente evidenzia che, soltanto con la memoria di costituzione in appello del 28 maggio 2004, la difesa dell’Amministrazione II.PP.A.B. ha prodotto in giudizio una serie di documenti (lettera S. del 28 settembre 1989; contratto del 26 novembre 1984;

contratto dell’1 febbraio 1988; avviso pubblico del 12 gennaio 1989;

lettera S. del 3 dicembre 1990; lettera Amministrazione II.PP.A.B. del 17 giugno 1991; lettera S. del 13 dicembre 1991), ai quali, seppure tardivamente depositati, sia ai sensi dell’art. 184 cod. proc. civ., che in base agli artt. 414 e 437 cod. proc. civ., la Corte territoriale avrebbe attribuito "importanza decisiva, al punto di richiamarne il contenuto quale esclusivo elemento di prova", senza però motivare "in ordine alla loro tardiva produzione".

Inoltre, si osserva che, nonostante la centralità ermeneutica attribuita a detti documenti dalla Corte milanese, essi sarebbero soltanto dei meri "indicatori" del tipo negoziale formalmente adottato dalle parti (alternativamente la locazione e l’affitto), "in perfetta linea col tenore letterale del contratto originario ma per nulla espressivi dell’effettiva e comune intenzione dei contraenti", che era quella non già di far godere un bene altrui a fronte di un canone "ed eventualmente di qualche miglioria (affitto o locazione, con o senza clausola migliorativa), ma di trasformare dei ruderi in beni di valore, da parte della signora S. per acquisire il diritto di rimanervi per sempre". 4. – I primi due motivi meritano un esame congiunto, proponendo censure che, come si vedrà, tra loro, in parte, si intersecano.

4.1. – Il primo profilo di censura con il quale la ricorrente lamenta, anzitutto, un vizio di motivazione nella carente statuizione sull’esatto tipo negoziale cui ricondurre il contratto inter partes, è infondato. A prescindere dalla sua genericità, la censura è priva di consistenza a fronte dell’affermazione, resa dalla Corte territoriale, sulla esclusione di un "jus in re aliena riconducibile all’istituto della enfiteusi" e sulla sussistenza di un "rapporto obbligatorio da ascrivere al "genus della locazione", meglio individuato come "contratto di affitto". E ciò senza tener conto che la denuncia del vizio soffre di una mancanza di utilità rispetto all’interesse che deve sorreggere l’impugnazione, posto che essa non si raccorda ad alcuna pregressa domanda di accertamento della natura del rapporto giuridico in discussione che non sia quella, fatta valere dalla ricorrente per tutto il corso del giudizio, del diritto reale di enfiteusi, su cui la Corte territoriale si è, per l’appunto, espressa per l’insussistenza.

4.2. – La denuncia del primo mezzo si estende, poi, all’asserita omessa considerazione di prove ritenute decisive, tali comunque da rendere gravemente lacunosa la ricostruzione ermeneutica da svolgersi sotto l’egida dei criteri posti dagli artt. 1362 cod. civ., per non aver il giudice d’appello colto il carattere essenziale, nella struttura del vincolo, dell’obbligo di ristrutturazione degli immobili assunto dalla utilista, in assenza del quale, non essendo i beni suscettibili di alcun godimento, il contratto sarebbe stato affetto da nullità. Ci si duole, inoltre, della omessa considerazione del criterio di ermeneutica contrattuale del comportamento complessivo delle parti, essendosi la Corte territoriale limitata a dare rilievo soltanto "al senso letterale delle parole". 4.3. – A siffatto profilo di censura è da correlare, però, il secondo motivo di ricorso, con. cui è censurata l’illegittima acquisizione e, dunque, valutazione da parte del giudice d’appello di prove documentali tardivamente prodotte in giudizio.

4.3.1. – Lo scrutinio di tale mezzo è logicamente prioritario rispetto al precedente, venendo in discussione gli esiti del ragionamento complessivo del giudice d’appello sulla qualificazione del rapporto giuridico in contestazione, dei quali si adduce il vizio, all’origine del percorso valutativo, dell’illegittima acquisizione di documenti sui quali il ragionamento stesso si fonderebbe.

Esso è infondato.

Posto che è rimasta indiscussa tra le parti la competenza a conoscere della controversia in capo alla sezione specializzata agraria, in ragione della L. n. 607 del 1966, art. 5, comma 5, con conseguente applicazione del rito lavoro (v. Cass. , sez. 3, 13 settembre 1995, n. 9664), va sottolineato che è ormai jus reception, a partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite 20 aprile 2005, n. 8202 (richiamata anche dalla parte ricorrente), il principio per cui, alla stregua del combinato operare degli artt. 416 e 437 cod. proc. civ., la decadenza dalla produzione documentale, per omessa tempestiva indicazione o per mancato deposito, con impossibilità della sua reviviscenza in un successivo grado di giudizio, è temperata dal potere istruttorio d’ufficio del giudice ( artt. 421 e 437 cod. proc. civ., "onde la suddetta preclusione (riguardante sia le prove costituende che quelle precostituite) può essere superata solo nel caso in cui il giudice del rito del lavoro, sulla base di un potere discrezionale, non valutabile in sede di legittimità, ritenga tali mezzi di prova, non indicati dalle parti tempestivamente, comunque ammissibili perchè rilevanti ed indispensabili ai fini della decisione nel giudizio di secondo grado" (Cass., sez. 3, 13 settembre 2009, n. 6188; Cass., sez. 3, 13 magio 2010, n. 11607).

Orbene, la Corte d’appello di Milano ha espressamente ritenuto "di sicura rilevanza" la lettera della S. in data 28 settembre 1979, con ciò potendosi reputare soddisfatto il requisito volto a rendere la delibazione del giudice idonea a superare la preclusione probatoria già maturata, tanto più che un siffatto giudizio è stato funzionale ad un’attività ermeneutica – quella sul comportamento complessivo delle parti contrattuali – che è stata sollecitata non già dalla parte che ha prodotto i documenti, ma dalla stessa appellante e odierna ricorrente che, anche tramite essi, ha richiesto un approfondimento sul comportamento complessivo delle parti contrattuali, al fine di giungere ad un esito qualificatorio del negozio a lei favorevole.

In tale prospettiva, dunque, appare implicitamente, ma chiaramente esteso all’ulteriore materiale documentale il giudizio di rilevanza e, dunque, di ammissibilità ai fini della decisione, ciò rinvenendo conforto nel fatto che la stessa Centro Casa s.r.l. si avvale, altresì, dell’avviso di vendita del 12 gennaio 1989 per evidenziare, con il primo motivo di ricorso, la "omessa considerazione di prove decisive".

Peraltro, l’impianto difensivo appena tratteggiato si palesa contraddittorio e l’aporia si rende ancor più manifesta nel corpo del motivo, tanto da renderlo, comunque, inammissibile. La ricorrente, dapprima, denuncia l’illegittimo utilizzo di materiale probatorio che avrebbe potuto essere acquisito soltanto ove rilevante ed indispensabile ai fini del decidere, così da palesare l’esistenza di un viziato convincimento del giudice d’appello sulla scorta di prove da reputarsi, dunque, decisive, delle quali non avrebbe potuto, però, delibare la consistenza e portata. Tuttavia, una volta così congegnata la censura, ci si preoccupa di attenuare, se non di elidere del tutto, la forza probatoria dei documenti tardivamente prodotti dalla controparte nel giudizio di gravame, ritenuti "per nulla espressivi dell’effettiva e comune intenzione dei contraenti".

In tal modo, la censura non disvela l’effettivo e concreto pregiudizio al diritto di difesa che deve sorreggere la denuncia dei vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutelando l’art. 360 c.p.c., n. 4, l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria (tra le altre, Cass., sez. 3, 12 settembre 2011, n. 18635).

4.4. – Posto, dunque, che il ragionamento della Corte territoriale non può, in ogni caso, reputarsi affetto dal vizio, denunciato con il secondo motivo di ricorso, di illegittimità dell’acquisizione e valutazione di una parte delle prove documentali comunque utilizzate, occorre, pertanto, procedere all’esame dell’ulteriore profilo di censura dedotto con il primo mezzo.

Con esso, come detto, ci si duole della mancata considerazione di prove decisive (c.t.u. ed altre risultanze documentali innanzi specificate) e dei vizi di motivazione e di violazione di legge in ordine agli esiti dell’interpretazione volta alla qualificazione del contratto intercorso tra le parti, asseritamente erronea anche per la pretermessa considerazione del criterio ermeneutico concernente il comportamento complessivo delle parti.

4.4.1. – Il motivo è inammissibile.

Va osservato che l’interpretazione delle clausole contrattuali è compito del giudice di merito e, ove rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da congrua motivazione, non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, il quale può insistere non sulla ricostruzione della volontà delle parti, ma esclusivamente sull’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare, per l’appunto, se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (Cass., sez. 3, 31 marzo 2006, n. 7597; v. anche Cass., sez. 3, 15 febbraio 2007, n. 3468; Cass., sez. 3, 15 marzo 2005, n. 5624). Sicchè, per sfuggire al sindacato di questa Corte, giudice della legittimità, l’interpretazione fornita dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; con la conseguenza che, allorquando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (cosi Cass., sez. 3, 20 novembre 2009, n. 24539).

Alla luce di ciò risulta incensurabile l’operazione interpretativa compiuta dalla Corte territoriale, che ha soffermato la propria attenzione sul tenore letterale delle clausole contrattuale, per poi saggiare la tenuta del significato ad esse ascritto con elementi relativi al comportamento complessivo tenuto dalle parti posteriormente alla conclusione del contratto, in tal senso sollecitata dalla stessa appellante odierna ricorrente, e giungendo ad un risultato di escludere la ricorrenza del diritto reale di godimento dell’enfiteusi, reputando non solo che la prevista ristrutturazione degli immobili siti sul fondo (clausola n. 5) non concretasse un obbligo per la affittuaria, ma soltanto rimessa alla sua "intenzione", come reso palese dalla stessa formulazione pattizia, ma che, ove si fosse ritenuto che detta clausola venisse ad intergare un obbligo, esso avrebbe dato luogo al rapporto obbligatorio di affitto con clausola ad meliorandum. Esito questo che è frutto di una motivazione logicamente attrezzata e che non cozza, in alcun modo con il dato normativo di riferimento, posto che, come messo in luce dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 53 del 1974, permane intatta la differenza tra il diritto reale di godimento, nel quale è da ricondurre la concessione di un fondo in enfiteusi, perpetua o a lungo termine, ed il rapporto obbligatorio, di natura locatizia od associativa, la cui natura giuridica non può assimilarsi all’anzidetto jus in re aliena sol perchè il contenuto contrattuale contempla una clausola ad meliorandum, che non è idonea, di per sè, a mutare gli elementi tipicamente connotanti un rapporto di affitto.

Dunque, in siffatto percorso, il giudice del gravame non ha per nulla trascurato gli elementi probatori indicati dalla ricorrente – l’oggetto del contratto, l’avvenuta ristrutturazione degli immobili ed il loro valore, nonchè l’uso fattone dalla affittuaria – traendo però dalle complessive emergenze processuali, tra cui quelle concernenti il comportamento dei contraenti successivo alla stipula del negozio, un convincimento plausibile, anche se diverso da quello divisato dalla parte, che, in quanto esente da vizi logici e giuridici, non può essere oggetto di censura. Del resto, già nella stessa strutturazione del motivo di censura è dato cogliere la sua inconsistenza, là dove – dando rilievo a quanto statuito in conformità dalla sentenza – si evidenzia che, a fronte del contratto stipulato nel novembre 1979, la S. sin dai primi anni 80 ha iniziato ad abitare gli immobili ed a farne l’uso che riteneva, essendo gli stessi, al momento della stipula, "attualmente ed gran parte pericolanti ed inabitabili", con ciò dovendosi escludere che gli edifici in questione non fossero in nessun caso suscettibili di godimento.

5. – Con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. ( art. 360 c.p.c., n. 4), la violazione dell’art. 111 Cost., comma 6 ( art. 360 c.p.c., n. 3), ovvero vizio di motivazione circa un punto decisivo della controversia ( art. 360 c.p.c., n. 5), "in ordine all’omessa pronuncia per ritenuta inammissibilità (in quanto tardive) delle richieste subordinate di restituzione e/o indennizzo di somme a titolo di miglioramenti indennizzabili o indebito ripetibile o ingiustificato arricchimento".

La ricorrente rileva che, in sede di riassunzione del giudizio dinanzi alla sezione agraria del Tribunale di Lodi, il Fallimento "Mundus" formulava le seguenti conclusioni in via subordinata:

"Condannare in ogni caso la resistente Amministrazione delle II.PP.A.B. alla restituzione e/o indennizzo al Fallimento delle eventuali somme che – tra costi delle opere di ristrutturazione e canoni di locazione – risultassero corrisposte indebitamente ovvero in eccesso rispetto al canone enfiteutico legale, oltre interessi e rivalutazione". In sede di note conclusive, del 16 ottobre 2003, lo stesso Fallimento precisava che tali domande riguardavano il controvalore delle opere realizzate dalla S. "vuoi a titolo di indennità per interventi originariamente assentiti dalla proprietà … vuoi a titolo di indebito oggettivo o di ingiustificato arricchimento". Sicchè, essendo state formulate sin dal ricorso in riassunzione e solo in seguito precisate nelle note conclusive dello stesso giudizio, le anzidette domande avrebbero dovuto esser considerate tempestive e non già tardive come statuito dalla Corte territoriale a conferma della pronuncia di primo grado, dovendo il giudice tener conto, per l’appunto, di eventuali precisazioni e specificazioni della domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio.

La sentenza impugnata non avrebbe, poi, spiegato il motivo dell’asserita evidenza per cui l’avverbio "indebitamente" non possa "individuare il petitum e la causa petendi di una domanda", là dove invece una lettura complessiva degli atti, tenuto conto delle note conclusive, avrebbe reso possibile una "precisa individuazione" dell’uno e dell’altra.

Infine, risulterebbe erroneo in diritto e contraddittorio in fatto l’assunto per cui l’azione di indebito sarebbe stata da respingere in ogni caso, giacchè "commisurata e rapportata" non già ad un contratto di affitto, quale ritenuto esistente, ma ad un inesistente rapporto di enfiteusi. In primo luogo, perchè spetta al giudice la qualificazione del rapporto in giudizio e ciò varrebbe anche per quello "la cui inesistenza costituisce il presupposto costitutivo dell’actio indebiti", a tal fine rilevando essenzialmente l’insussistenza di qualsivoglia rapporto giuridico, a prescindere dall’esattezza del relativo nomen iuris. Inoltre, posto che il presupposto della domanda subordinata di ripetizione/indennizzo dei costi delle opere di ristrutturazione, è "proprio la ricorrenza di un rapporto riconducibile al genus della locazione e, al contempo, l’inesistenza di un obbligo miglioritario, requisiti entrambi coincidenti con la qualificazione della fattispecie desumibile dalla sentenza impugnata", sarebbe contraddittoria la pronuncia della Corte territoriale là dove, per un verso, si afferma che la S. non era obbligata alla realizzazione delle opere invece effettuate per un valore di L. 350.000.000 e, dall’altro, si esclude in suo favore la "tutela tipica delle prestazioni non dovute (artt. 1592, 2033 e 2041 c.c), sul presupposto che la medesima avesse operato nella convinzione di esservi tenuta". 5.1. – Il motivo è infondato.

Quanto alla denuncia di un error in procedendo, alla stregua dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 4 occorre rammentare che, alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, deve tenersi distinta "l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda, o la pronuncia su una domanda non proposta, dal caso in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa:

solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini delle pronuncia richiestale; nel caso in cui venga invece in considerazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto" (tra le altre, Cass. , sez. lav., 24 luglio 2008, n. 20373).

E’ evidente che, nella specie, non ricorre l’ipotesi di omessa pronuncia, giacchè la Corte territoriale ha statuito in ordine alle pretese avanzate dall’odierna ricorrente, ritenendole tuttavia inammissibili per tardività.

E’, altresì, infondata la denuncia riguardante il vizio motivazione, cui è da ricondurre anche il profilo di censura che evoca la violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, il quale impone la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.

Invero, il thema decidendum che propone il motivo di ricorso è proprio quello dell’interpretazione del contenuto e della portata della domanda giudiziale operata dal giudice d’appello ;

interpretazione che – come ulteriormente precisato da questa Corte (Cass. n. 17947 del 2007; Cass., sez. lav., 6 febbraio 2006, n. 2467) – ai fini del sindacato sulla logicità e congruità della motivazione, "comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale".

Proprio in siffatta prospettiva la sentenza impugnata resiste alle doglianze di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ad essa mosse, giacchè, nel ritenere inammissibili in quanto tardive – giacchè proposte per la prima volta soltanto in sede di note conclusionali del giudizio di primo grado in riassunzione dinanzi alla Sezione specializzata agraria del Tribunale di Lodi e, dunque, in violazione del divieto di introdurre domande nuove già nel corso del giudizio di primo grado, desumibile dal disposto di cui agli artt. 414 e 420 cod. proc. civ. (Cass., sez. lav., 9 marzo 2011, n. 5555; Cass., sez. lav., 12 giugno 2008, n. 15795; Cass., sez. 3, 29 giugno 2006, n. 7243) – le domande di indennità ex art. 1592 per miglioramenti alla cosa locata, di ripetizione ex art. 2033 cod. civ. degli indebiti esborsi per la esecuzione dei lavori e di arricchimento ex art. 2041 cod. civ. conseguito dall’ente concedente in danno della concessionaria, è stata valorizzata la volontà della parte attrice, mantenuta ferma nel corso dell’intero giudizio, di escludere la sussistenza di un contratto di affitto, cosi da congruamente e logicamente correlare le pretese azionate con l’atto introduttivo del giudizio in riassunzione (e cioè di "restituzione e/o indennizzo al Fallimento delle eventuali somme che – tra costi delle opere di ristrutturazione e canoni di locazione – risultassero corrisposte indebitamente ovvero in eccesso rispetto al canone enfiteutico legale, oltre interessi e rivalutazione") al diritto reale di enfiteusi del quale si postulava il riconoscimento, così da rendere strutturalmente nuove quelle avanzate in sede di note conclusionali. Approdo ermeneutico, questo, che – ad avviso del giudice d’appello – non avrebbe potuto trovare smentita in ragione della mera presenza dell’avverbio "indebitamente", da solo inidoneo a configurare gli elementi di una domanda giudiziale diversa da quella "rapportat(a) e commisurat(a) .. al canone enfiteutico legale".

Le ragioni così esplicitate dal giudice d’appello non sono scalfite, nel loro impianto logico e congruente, dalla dedotta contraddittorietà della relativa statuizione, là dove si imputa alla sentenza di aver sostanzialmente affermato che la parte affittuaria ha realizzato opere per un rilevante valore pur non essendovi tenuta, per poi alla stessa negare la tutela "tipica delle prestazioni non dovute ( artt. 1592, 2033 e 2041 c.c.)", sul presupposto che la medesima parte "avesse operato nella (errata) convinzione di esservi tenuta". Invero, è la stessa ricorrente a ribadire che il presupposto della domanda subordinata relativa alla ripetizione/indennizzo dei costi delle opere di ristrutturazione è proprio la sussistenza di un rapporto riconducibile al genus locazione "e, al contempo, l’inesistenza di un obbligo miglioritario, requisiti entrambi coincidenti con la qualificazione della fattispecie desumibile dalla sentenza impugnata", con ciò confortando, però, gli esiti del ragionamento del giudice, per cui gli originari petitum e causa petendi della domanda non potevano che correlarsi alla domanda di affrancazione di enfiteusi e non già ad un rapporto giuridico che ha trovato rilievo solo in sede decisoria e che è stato sempre contestato dalla parte attrice, appellante e, infine, ricorrente in questa sede.

6. – Il ricorso va, dunque, rigettato e la soccombente Centro Casa s.r.l. condannata al pagamento delle spese del grado, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente Centro Casa s.r.l. al pagamento, in favore dell’Azienda di servizi alla persona "Golgi Redaelli", delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 5700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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