Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Il febbraio 1988 decedeva in Sant’Agata li Battiati (Catania) C.R.G., padre naturale di C.R.E. e C.R.C. e fratello di C.R.P. (padre di R., M.C. e A.). Con testamento segreto del 25 settembre 1980 il de cuius aveva nominato erede universale l’Istituto ciechi Ardizzone Gioeni di (OMISSIS) (cui era stato donato con atto del 16 aprile 1987 il palazzo San Demetrio in (OMISSIS)). Con altro testamento segreto del 8 gennaio 1988, il de cuius aveva, altresì, legato alla Tavola Valdese un appartamento sito in (OMISSIS). Dopo la morte di C. R.G. il di lui fratello P. si immetteva nel possesso dei tutti i beni ereditari che venivano, tuttavia, qualche tempo dopo sottoposti a sequestro giudiziario, richiesto dall’Istituto per ciechi Ardizzone Gioeni di (OMISSIS), tralasciando un appartamento sito in (OMISSIS).
Con atto di citazione del 14 ottobre 1997 C.R.E. (medio tempore riconosciuta con sentenza figlia naturale di C. R.G.) conveniva in giudizio l’Istituto per ciechi Ardizzone Gioeni, la Tavola Valdese e le sorelle R., M. C. e A. (figlie di C.R.P., fratello del de cuius, nel frattempo deceduto) al fine di ottenere il riconoscimento quale erede legittima della quota riservata del patrimonio del de cuius. Con successivo atto di citazione del 17 febbraio 1999, la stessa C.E. conveniva in giudizio l’Istituto per ciechi Ardizzone Gioeni, la Tavola Valdese, oltrechè la Casa di riposo Mans. Ventimiglia (indicata dal de cuius, nel testamento segreto, quale erede alternativo) al fine di ottenere la revoca delle disposizioni testamentarie ex art. 687 c.c., la declaratoria di inesistenza o sopravvenuta inefficacia o mancato perfezionamento della donazione del Palazzo San Demetrio, la restituzione; dei beni mobili e immobili caduti in successione, nonchè il rendiconto della gestione dei beni dell’asse ereditario e il risarcimento dei danni derivanti da mala gestio del compendio.
Nel corso di entrambi i giudizi interveniva C.R.C. anch’egli nel frattempo riconosciuto figlio naturale del de cuius, spiegando autonome domande nei confronti dei rispettivi convenuti.
Riuniti i giudizi, il Tribunale di Catania con sentenza parziale n. 550 del 2001 dichiarava revocati per sopravvenienza di figli i due testamenti segreti, dichiarava che la successione di C.R. G. era regolata dalla legge, dichiarava unici eredi C. E. e C.C., nonchè il loro diritto alla riconsegna di tutti i beni ereditari nei confronti di coloro che li detenevano, nonchè il diritto alla fruttificazione dal giorno dell’apertura della successione, condannava le parti detentrici degli immobili all’immediato rilascio e condannava le sorelle R., M. C. e A. al rilascio dell’appartamento sito in Comune di (OMISSIS) (ed erroneamente anche al rilascio di un bene immobile sito in (OMISSIS)), condannava i convenuti al rendiconto dei beni posseduti, disponendo la prosecuzione del giudizio al fine di decidere la domanda intesa ad ottenere il pagamento della fruttificazione.
Emerge dagli atti che avverso tale sentenza era stato svolto appello dall’Istituto per Ciechi Ardizzone Gioeni, e che C.E. e C. avevano svolto appello incidentale, chiedendo la riforma perchè le tre sorelle C. erano state condannate a rendere conto della gestione dell’immobile sito in (OMISSIS) e non anche di tutti gli altri beni immobili caduti in successione e oggetto del provvedimento del sequestro giudiziale in quel giudizio di appello le tre sorelle C., con distinti atti di costituzione e di appello incidentale, chiedevano il rigetto delle domanda di rendiconto. Emerge altresì che la Corte catanese con sentenza n. 1316 de 2004 dichiarava cessata la materia del contendere con l’Istituto per ciechi per intervenuta transazione, rigettava gli appelli incidentali proposti dai fratelli C. perchè qualificava come di buona fede il possesso di C.P., dichiarava inammissibili gli appelli incidentali delle sorelle C. ritenendoli tardivi. E’ deduzione incontroversa di C. E. e C. che vi è stato, altresì, un distinto atto di appello di C.M.C. che ha impugnato nuovamente ed autonomamente la sentenza parziale n. 550 del 2001 del Tribunale di Catania, nonchè separato appello della stessa sentenza da parte delle sorelle R. e A.. La Corte di Catania con sentenza del 15 marzo 2007 ne ha statuito l’inammissibilità.
Successivamente, il Tribunale di Catania con sentenza definitiva n. 1554 del 2007 condannava le tre sorelle C. a corrispondere a C.C. la somma di Euro 153.365,00, a titolo di frutti dell’immobile di (OMISSIS) dall’apertura della successione alla restituzione avvenuta il 18 luglio 2001 e rigettava la domanda relativa alla restituzione dei beni mobili e denaro caduti in successione, per mancanza di prove.
Avverso questa sentenza, interponevano appello le sorelle C. A.R. e M.C., chiedendo la riforma della sentenza impugnata.
Resistevano all’appello i fratelli C.R.C. ed E. proponendo, altresì, appello incidentale.
La Corte di appello di Catania con sentenza n. 1820 del 2007 rigettava gli appelli, principale e incidentale, e compensava le spese del giudizio. A sostegno di questa decisione la Corte catanese osservava: in merito all’appello (.. principale: a) che la statuizione, contenuta nella sentenza parziale, con la quale il Tribunale di Catania aveva condannato le sorelle C. a rendere il conto a C.C. dei frutti relativi all’immobile di (OMISSIS) a far tempo dell’apertura della successione, non essendo stata impugnata, contrariamente alle altre statuizioni, era divenuta definitiva; b) che la statuizione con la quale il Tribunale di Catania aveva condannato le tre sorelle C. alla restituzione frutti e al loro rendiconto in favore di R.C., a far tempo dell’apertura della successione, andava riconfermata, perchè, considerato che tale statuizione segna in maniera precisa l’an del diritto, un eventuale mancato riconoscimento dei frutti in sede di determinazione del quantum poteva discendere soltanto dalla verifica della loro materiale inesistenza; c) che la pronuncia parziale concludeva ogni questione circa l’an dei contrapposti diritti ed obblighi in ordine ai frutti e non limitava il diritto del R. alla sola quota della metà, pertanto, ogni eventuale censura sul punto avrebbe dovuto farsi valere con l’appello contro la sentenza n. 550 del 2001 che, ormai, era divenuta definitiva, d) che le critiche in ordine alla determinazione del quantum erano generiche e come tale dovevano essere disattese. In merito all’appello incidentale: 1) che andava disattesa la censura dei C.E. e C. relativa alla quantificazione dei frutti perchè generica e mancante di puntuali argomentazioni a sostegno. 2) che andava confermata la statuizione con la quale il Tribunale di Catania aveva rigettato la domanda di restituzione dei beni mobili per mancanza di prova perchè gli articoli di prova erano generici, perchè era fondamentale l’accertamento dei beni esistenti al momento dell’apertura della successione; 3) che andava riconfermata la statuizione con la quale il Tribunale catanese rigettava, per tardi vita, le deduzioni istruttorie dell’interveniente.
La cassazione della sentenza n. 1820 del 2007 della Corte di Appello di Catania è stata chiesta dalle sorelle C.R.A., R. e M.C. con ricorso affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. E. e C.R.C. hanno resistito con controricorso, proponendo, altresì, ricorso incidentale per cinque motivi.
Motivi della decisione
A.= Ricorso principale.
1.= Con il primo motivo C.R.A., R. e M. C., lamentano – come da rubrica – la violazione e falsa applicazione degli artt. 535, 1148, 2908 e 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, con riferimento all’omessa limitazione temporale della decorrenza, della fruttificazione (fissata a far tempo dalla data di apertura della successione del C.R.G., anzichè dalla domanda giudiziale di C.R.C. del 10 dicembre 1999.
Avrebbe errato la Corte territoriale, secondo le rincorrenti, nell’aver confermato il diritto di C.R.C. a percepire la fruttificazione a decorrere dalla data dell’apertura della successione e non invece dalla domanda giudiziale. In particolare, le sorelle C. ritengono che la Corte territoriale:
1) abbia omesso di considerare il contrasto tra due giudicati. Essa stessa, tempo prima (sent. 1316 del 2004), aveva affermato la condizione di possessore di buona fede di C.R.P. rispetto a tutto il compendio ereditario e, siffatto accertamento, costituente giudicato sostanziale, non avrebbe potuto non valere anche per l’immobile di (OMISSIS) – epperò, il Tribunale di Catania con la sentenza parziale n. 550 del 2001 aveva espresso la condanna al rendimento del conto a far tempo dall’apertura della successione, anzichè dalla proposizione della domanda restitutoria dell’erede effettivo. Piuttosto, in presenza di due giudicati i contrastanti, la Corte avrebbe dovuto affermare che il Tribunale di Catania aveva violato il disposto dell’art. 1418 c.c., collocando del tutto: immotivatamente l’epoca iniziale al tempo della successione, considerato che l’affermazione del possesso in buona fede in capo al Pasquale avrebbe dovuto assorbire ogni altra valutazione.
2) abbia omesso di valutare che sull’estensione temporale del diritto alla fruttificazione essa stessa si era pronunciata con la sentenza n. 1316 del 2004 statuendo che E. e C. avrebbero potuto richiedere alle odierne ricorrenti i frutti soltanto a far tempo delle rispettive domande giudiziali.
3) abbia violato l’art. 1148 nella misura in cui la Corte territoriale, dovendo considerare, sentenza parziale, una semplice declaratoria iuris non vincolante per il giudice della sentenza definitiva, avrebbe potuto e dovuto – e non lo ha fatto – limitare la condanna al periodo successivo all’introduzione della domanda giudiziale da parte del C.R.C., pur mantenendo, fermo il capo di pronunzia relativo alla decorrenza dell’obbligo di rendiconto.
1.1 .= Il motivo è infondato. l.1.a).= La decisione n. 1316 del 2004 della stessa Corte catanese pur avendo enunciato che C.R.P., fratello del de cuius, aveva conseguito il possesso dei beni ereditari in buona fede, non aveva modificato quanto statuito dal Tribunale con la sentenza parziale, n. 550 del 2001, circa l’obbligo di restituire i frutti e di rendiconto dell’immobile sito in (OMISSIS) a far tempo dall’apertura della successione, considerato che la sentenza n. 1316 del 2004 si riferiva ad altri beni e, cioè, ai beni ereditari oggetto di sequestro. Ed, invero, l’accertamento compiuto dalle due sentenze (quella definitiva n. 1316 del 2004 e la sentenza parziale n. 550 del 2001) attiene a fattispecie diverse sotto il profilo del petitum, posto che la domanda oggetto dell’appello incidentale proposto da C.R.E. relativa alla condanna delle sorelle C.R. al rendiconto e alla corresponsione dei frutti, era riferita ai beni oggetto del sequestro conservativo promosso dall’Istituto A. Gioieni, mentre la domanda decisa dal Tribunale di Catania con la sentenza n. 550 del 2001, confermata successivamente dalla stessa Corte catanese, relativa alla condanna delle sorelle C. al pagamento dei frutti, era riferita al solo immobile sito in (OMISSIS). Sicchè, appare evidente che l’affermazione contenuta nella sentenza n. 1316 del 2004 secondo la quale C.P. aveva conseguito il possesso in buona fede non si estende, come vorrebbero le ricorrenti all’intero asse ereditario, nè quella espressione di per sè può essere riferita:
anche all’immobile sito in (OMISSIS).
1.1.a.1).= Pertanto, la Corte catanese ha correttamente fatto applicazione del principio secondo cui l’autorità del giudicato sostanziale opera, soltanto, entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione e presuppone che tra la precedente causa e quella in atto vi sia identità di parti, oltre che di "petitum" e di "causa petendi". Così, come la Corte catanese ha correttamente chiarito che la statuizione contenuta nella sentenza n. 550 del 2001, non essendo stata oggetto di appello efficace, era divenuta definitiva.
1.1.b) A sua volta, la Corte catanese ha correttamente interpretato la portata della sentenza n. 550 del 2001 escludendo che la stessa esprimesse una mera declaratoria iuris non vincolante per il giudice della sentenza definitiva. Non vi è dubbio, che nel caso di pronuncia di sentenza non definitiva ai sensi dell’art. 279 c.p.c., commi 2 e 4 e di prosecuzione del giudizio per l’ulteriore istruzione della controversia, il giudice resta da questa vincolato (anche se non passata in giudicato), sia in ordine alle questioni definite, sia per quelle da queste dipendenti, che debbono essere esaminate e decise sulla base dell’intervenuta pronuncia, a meno che questa sia stata riformata con sentenza passata in giudicato pronunziata a seguito di impugnazione immediata. 11 giudice non può risolvere quelle questioni in senso diverso con la sentenza definitiva e, ove lo faccia, il giudice del gravame, anche di legittimità, può rilevare d’ufficio la violazione del giudicato interno originante dalla sentenza non definitiva che non sia immediatamente impugnata, nè fatta oggetto di riserva d’impugnazione differita, ed è abilitato ad interpretare la pronuncia che si assume definitiva, poichè la formazione della preclusione data dal giudicato interno fa parte dello sviluppo del procedimento e gli errori che, eventualmente, affliggano il procedimento possono essere accertati dalla Corte di Cassazione, anche attraverso indagini di fatto.
2= Con il secondo motivo le ricorrenti lamentano, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1295, 2908 e 2909 c.c. e dell’art. 112 c.p.c.. In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, con riferimento alla condanna delle ricorrenti a corrispondere al C.R.C. l’ammontare dei frutti nell’intero.
Avrebbe errato la Corte di Catania, secondo le ricorrenti, per aver ritenuto che anche un solo degli eredi è legittimato a chiedere per intero la restituzione dei beni caduti in successione nei confronti di chi li detenga illegittimamente e, pertanto, aver condannato le odierne ricorrenti a pagare al solo C.C. l’intera fruttificazione dell’immobile di (OMISSIS), nonostante avesse ritenuto tardiva la domanda di C.E. volta a conseguire la quota parte spettantele dalla fruttificazione dell’immobile di cui si dice. Così operando, la Corte catanese avrebbe violato il giudicato interno formatosi sulla sentenza non definitiva n. 550 del 2001 la quale aveva affermato che la domanda del C.C. fosse fondata nell’an, ma non ha affatto affermato il diritto di quegli alla restituzione dei frutti senza limitazione. E, di più, la Corte catanese avrebbe ingiustificatamente omesso di esaminare il motivo di appello apprestato dalle ricorrenti sul punto in esame e il capo della sentenza che ne aveva formato oggetto, incorrendo, così, nella violazione dell’art. 112 c.p.c.. Non vi è dubbio – ritengono le ricorrenti- che il Tribunale aveva grandemente errato nel confondere l’azione di restituzione dei beni (di carattere reale essendo sussumibile nello schema della rivendicazione), il cui regime deriverebbe dall’art. 533 c.c., con quella obbligatoria volta alla restituzione dei frutti per loro natura divisibili la cui disciplina andrebbe rintracciata giusto il rinvio operato dall’art. 535 cod. civ. nel successivo art. 1148 cod. civ. e altresì nel disposto dell’art. 1295 cod. civ.. Per altro C.C. aveva chiesto – come la stessa sentenza del Tribunale aveva evidenziato la liquidazione in suo favore soltanto della quota spettante gli dei frutti.
2.1 – Il motivo è infondato.
2.1.a).= A ben vedere, la Corte catanese, con logica coerente e ampia motivazione, ha ritenuto che la sentenza del Tribunale non contenesse una riduzione sia pure implicita pro quota del diritto riconosciuto a C.C. in ordine alla fruttificazione dell’immobile di (OMISSIS), diritto che, come confermava il dispositivo, atteneva ai frutti senza limitazione. Tale interpretazione rispetta il criterio letterale – attribuire il corretto significato alle espressioni, nonchè il criterio sistematico, interpretare le espressioni contenute in uno stesso documento nel loro insieme considerato: a) che ha spiegato il valore da attribuire all’inciso richiamato anche dalle ricorrenti "con: i limiti soggettivi sopra specificati, chiarendo che il Tribunale, con quella espressione, aveva puntualizzato la differenzazione dei soggetti rispettivamente tenuti od aventi diritto in base a quanto esposto prima, b) che ha riscontrato l’interpretazione proposta siccome coerente con quanto veniva esposto nel dispositivo. Nè le ricorrenti, contrapponendo una loro diversa interpretazione (rispetto a quella compiuta dal Tribunale prima e della Corte territoriale) dopo, hanno specificato quali canoni ermeneutici avesse violato il Giudice di merito.
2.1.b)= La Corte catanese non ha neppure errato nel confermare il diritto di C.C. ad ottenere la restituzione dei frutti relativi al bene immobile di (OMISSIS) nella sua interezza, considerato che i crediti del de cuius a differenza dei debiti ( art. 752 cod. civ.), non si dividono automaticamente tra i coeredi in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, come è dato desumere dalle disposizioni degli artt. 727, 757 e 760 c.c. 2.1.b.1)= Come insegna questa Corte: i crediti del "de cuis", a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 752 cod. civ. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta dal precedente art. 727, il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, nonchè dal successivo art. 757 c.c., il quale, prevedendo che il coerede al quale i siano stati assegnati tutti o l’unico credito succede nel credito al momento dell’apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, ed è, inoltre, confermata dall’art. 760 c.c., che escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a un coerede, necessariamente presuppone che i crediti siano inclusi nella comunione; nè, in contrario, può argomentarsi dagli artt. 1295 e 1314 dello stesso codice, concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il "de cuius" ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale. Conseguentemente, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l’intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quotà ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti, gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito (Sez., un. Sent. N. 24657 del 28 novembre 2007) 2.1.c).= Inammissibile è, altresì il profilo del motivo secondo il quale il Tribunale prima e la Corte di Appello dopo non avrebbero rilevato che C.C. aveva chiesto la liquidazione in suo favore soltanto della quota dei frutti spettategli, considerato che tale profilo è formulato in termini generici e non indica neppure l’atto processuale vizio della decisione.
3 = Con il terzo motivo le ricorrenti lamentano l’illogica, omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa il fatto controverso e decisivo, secondo cui il Tribunale, con la sentenza non definitiva n. 550 del 2001 avrebbe adoperato l’espressione "con i limiti soggettivi sopra specificati" non per limitare il condannatorio sull’an alla quota di frutti dovuto al C., ma per differenziare i soggetti aventi diritto al pagamento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Avrebbe errato la Corte di Appello di Catania secondo le ricorrenti – nel ritenere che il Tribunale con l’espressione "con i limiti soggettivi sopra specificati" avrebbe inteso differenziare "i soggetti rispettivamente tenuti ed aventi diritto in base a quanto esposto prima" perchè tale interpretazione non consentirebbe alcuna conclusione. L’affermazione della Corte catanese, invece, sarebbe illogica e non è sufficiente a ritenere che il Tribunale non avesse, com’è in realtà accaduto, limitato il condannatorio nell’an con i limiti soggettivi sopra specificati, e cioè accordandoli soltanto al C. pro quota considerato che la domanda speculare di E. era stata rigettata.
3.1.= Tale motivo rimane assorbito dai motivi precedenti considerato che sostanzialmente ribadisce profili delle censure già esaminate.
4.= Con il quarto motivo le ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 535, 752, 1148, 1293, 1294 e 1295 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 2, nn. 3 e 4, con riferimento alla condanna solidale delle tre odierne ricorrenti alla fruttificazione anche per il periodo anteriore; alla morte del loro autore. Avrebbe errato la Corte territoriale nel non aver considerato che la condanna solidale pronunziata dal Tribunale avrebbe dovuto essere limitata all’epoca successiva alla morte del loro avente causa, perchè per il periodo precedente esse avrebbero dovuto rispondere prò quota giusta il disposto dell’art. 752 c.c..
In ogni caso, la solidarietà non sussisterebbe considerato che l’obbligazione di restituzione dei frutti di cui all’art. 535 cod. civ. non si trasmetterebbe solidalmente agli eredi del debitore a norma degli artt. 535, 1294 e 1295 c.c..
4.1.= Anche questo ulteriore motivo non è fondato e non può essere accolto perchè la statuizione della Corte catanese non poteva non rispettare il giudicato interno di cui alla sentenza n. 550 del 2001 laddove aveva affermato – come si legge nella sentenza della Corte catanese – "condanna R.A. e C.R.M. C., siccome possessori, in favore di C.R.C. a rendere il conto relativamente all’immobile in (OMISSIS) viale Pistilli (….) a far tempo dall’apertura della successione.
B.= Ricorso incidentale.
5.= Con il primo motivo del ricorso incidentale, i resistenti lamentano l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5. Secondo i ricorrenti, il Tribunale e la Corte territoriale avrebbero valutato erroneamente le risultanze del CTU non avendo ravvisato l’errore grafico nel quale è incorso il Consulente nelle conclusioni della relazione, determinando conseguentemente in maniera erronea la fruttificazione dovuta. A ben vedere chiariscono i ricorrenti il CTU, applicando il criterio del valore ha affermato che il reddito annuo risultava pari alla sommaria di tutti i canoni locativi potenzialmente percepiti per ciascuna mensilità che andava dal 20 febbraio 1988 al 17 luglio 2001 rivalutati alla data del 21 dicembre 2005 e ne ricava tre valori: a) un primo valore di Euro 153.365 senza l’applicazione di rivalutazione; b) Un secondo valore pari ad Euro 178.707 applicando una rivalutazione dei canoni al 100%; c) un terzo valore pari ad Euro 167.400,00 applicando una rivalutazione del 75%. Sennonchè, il CTU trasfonde nelle conclusioni della relazione, in maniera errata i risultati che prima aveva sviluppato, affermando: che l’importo di Euro 167.400 teneva conto della rivalutazione del 75% compreso il periodo che va da luglio 2001 al 31 dicembre 2005; l’importo di Euro 153.365 non teneva conto della rivalutazione del canone per il periodo che va dal luglio 2001 al 31 dicembre del 2005 e l’importo di Euro 178.707,00 teneva conto nel riportare questi risultati che gli stessi si riferivano ad un periodo compreso dal luglio 2001 al dicembre 2005, cioè, compreso un periodo successivo alla data di riconsegna dell’immobile, della rivalutazione del 100% compreso il periodo che va da luglio 2001 al 31 dicembre 2005. Epperò, appare evidente l’errore grafico in cui è incorso il CTU che nelle conclusioni ha erroneamente fatto riferimento a periodi successivi alla data di riconsegna dell’immobile quando, invece, aveva inteso esclusivamente fornire al giudice tre possibili misure delle rivalutazione dei canoni secondo gli indici ISTAT vigenti al momento della elaborazione della perizia, ma tutte e tre fermandosi al momento del mese di luglio 2001. Pertanto, il Tribunale prima, e la Corte territoriale dopo, hanno assimilato l’errore intendendo come corretta la valutazione senza rivalutazione quando, invece, avrebbero dovuto applicare una rivalutazione annua nella misura del 100% e, determinare; consegnentemente, i successivi canoni di locazione nel periodo fino al rilascio (18 luglio 2001) nella somma di Euro 178.707. 5.1.= Il motivo è infondato.
5.1.a).= A guardar bene non sembra che tra le indicazioni del CTU nel corpo motivazionale della perizia e le conclusioni riportate nella stessa relazione peritale vi siano delle incongruenze, considerato che le conclusioni altro noni dicono che specificare il modo in cui avrebbero dovuto essere letti (così come sono stati letti dalla Corte catanese) gli importi indicati nel corpo della relazione, ovvero quali indicazioni erano contenuti in quegli importi, tanto è vero che la specificazione riportata nelle conclusioni non ha alterato gli importi finali.
5.1.b).= E di più, la Corte catanese ha avuto modo di chiarire che, comunque, la censura degli appellanti (la stessa che viene proposta in cassazione e che si sta esaminando) non coglieva l’effettiva ratio decidendi della sentenza di primo grado (che veniva confermata), considerato che l’obbligo di pagamento dei frutti civili integra gli estremi di un obbligo di valuta e, pertanto, sugli stessi erano dovuti automaticamente solo gli interessi legali. Pertanto, la Corte catanese ha correttamente applicato il principio più volte espresso da questa stessa Corte, secondo il quale: il creditore di un’obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l’onere di domandare il risarcimento del "maggior danno", ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest’ultima una conseguenza automatica del ritardo adempimento delle obbligazioni di valuta.
6.- I ricorrenti, altresì denunciano: a) con il secondo motivo del ricorsi incidentale, la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4; b) con il terzo motivo, l’omessa, insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5. a) Secondo i ricorrenti la Corte catanese avrebbe omesso di pronunziare in ordine alla richiesta di restituzione e/o condanna per equivalente dei beni mobili esistenti nel patrimonio del de cuius sull’erroneo presupposto della mancanza di prova. Chiariscono i ricorrenti che il Cav. C.G. era persona ricchissima, di posizione sociale elevata, proprietario di beni immobili urbani ed agricoli valutati, al momento del rilascio dei beni da parte dell’Istituto Ciechi Gioeni e, cioè, nel 2001, circa tredicimiliardi oltre il valore del palazzo C. e della casa in (OMISSIS) dal valore di circa 2.262.923.000, aveva ottenuto consistenti rendite derivanti dal Palazzo (OMISSIS) e dalle botteghe di (OMISSIS). Tuttavia, il barone C.R. P. nel presentare la dichiarazione di successione omette di denunciare agli uffici fiscali non solo i mobili e i quadri di pregio ma anche il denaro il cui importo ricostruito nel tempo è pari a L. 1.500.000.000 giacenti in libretti di deposito e risparmio, in libretti al portatore, in conti correnti e in titoli, accontentandosi della previsione di legge secondo cui in mancanza di specifica dettagliata prova i beni mobili esistenti nel patrimonio del de cuius vanno calcolati nella misura del 10% dell’asse ereditario. Gli odierni deducenti nel corso del giudizio di merito hanno offerto di provare attraverso diversi mezzi l’esistenza al momento della morte l’entità del patrimonio del loro dante causa, ma il Tribunale prima e la Corte dopo, si sono preoccupati, con molteplicità di ragioni, di negare l’accesso alla prova degli esponenti. Conseguentemente, la Corte territoriale avrebbe omesso – sempre secondo i ricorrenti- di pronunciarsi in relazione alla richiesta di riesame della sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva erroneamente ritenuto sfornita di prova la domanda avanzata dai concludenti e tesa alla restituzione dei beni mobili denaro e titoli relitti dal defunto illegittimamente sottratti dal fratello C.R.P.. b) Secondo i ricorrenti la Corte di Appello di Catania avrebbe erroneamente disatteso la richiesta di prova per testi avanzata da C.R.E., fornendo una motivazione illogica e, comunque, contraddittoria in relazione alla rilevanza dei capitolati di prova richiesti. A ben vedere, ritengono i ricorrenti, la Corte catanese avrebbe negato rilevanza agli articolati di prova per testi presentati da C.E. con una motivazione del tutto insufficiente considerato che ha ritenuto che quegli articolati non avrebbero consentito l’individuazione dei beni oggetto della domanda restitutoria e comunque non avrebbero offerto la prova della presenza di quei beni al momento della morte del de cuius. Piuttosto, sarebbe stato, al contrario, del tutto logico ritenere, come, invece, la Corte non ha ritenuto, che la prova dell’esistenza dei beni in prossimità della morte dei cavaliere C.R.G., associata poi alla circostanza del mancato rinvenimento di qualsivoglia attività al momento della riconsegna del patrimonio immobiliare, avrebbe automaticamente fatto acquisire quale immediata conseguenza la prova dell’esistenza dei beni in capo agli eredi apparenti al momento dell’apertura della successione.
6.1.= Entrambi i motivi (secondo e terzo), che vanno esaminati congiuntamente per l’innegabile connessione che esiste tra gli stessi, sono infondati, non solo, perchè si risolvono nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle risultanze istruttorie, inibito al giudice di legittimità ma, soprattutto, perchè la decisione impugnata contiene una motivazione puntuale articolata, adeguata e rispondete ai principi di diritto che ordinano la dialettica processuale.
6.1.a).= A ben vedere, la Corte catanese ha confermato la decisione del Tribunale in ordine alla domanda di restituzione di – non precisati- beni mobili presuntivamente esistenti nel patrimonio del de cuius e/o alla condanna per equivalente degli stessi, specificando che non era stata data la prova dell’esistenza dei beni mobili di cui s’intendeva chiedere la restituzione, e le prove di cui si chiedeva l’ammissione non erano dirette, e/o, comunque, idonee, ad identificare compiutamente i beni ereditari di cui si chiedeva la restituzione, ma (quelle prove erano dirette) a consentire al giudicante di acquisire cognizione della presuntiva fondatezza della domanda circa la sussistenza nell’asse ereditano di beni mobili di valore e consentire poi l’attribuzione per equivalente monetario da determinarsi in via equitativa. Non vi è dubbio che una semplice presunzione di esistenza non sia sufficiente a dimostrare l’esistenza di beni mobili di cui si pretenderebbe la restituzione, considerato anche che una presumibile esistenza dei beni non significa ancora la loro reale esistenza nel patrimonio del de cuius al momento dell’apertura della successione. Nè la Corte catanese ha errato nell’affermare che il mezzo istruttorio richiesto non consentiva neppure di acclarare con una certa approssimazione quali, quanti e di quale natura e pregio fossero i beni mobili in contesa al momento dell’apertura della successione, proprio perchè la presunzione di esistenza di beni mobili nel patrimonio di C.R. finirebbe con l’essere un’illazione o una congettura dai confini incerti mobili. A sua volta la determinazione in via equitativa non era neppure praticabile per la mancanza di dati certi non essendo sufficiente per una valutazione equitativa la sola consistenza del patrimonio immobiliare caduto in successione.
7= Con il quarto motivo, del ricorso incidentale, i resistenti denunciano la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 184 bis c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5. Avrebbe errato la Corte catanese, secondo i resistenti, per aver negato che sussistessero i presupposti per la remissione in termini ex art. 184 bis c.p.c., richiesta dalla esponente in ragione del comportamento del precedente difensore revocato. Specificano i ricorrenti che il fatto causativo della decadenza era da identificarsi esclusivamente nel comportamento doloso dell’avv. D’Angelo (precedente difensore) posto che aveva omesso volontariamente e deliberatamente, in pendenza dei termini ex art. 184 c.p.c., assegnati dal GI di comunicare lo stato dei giudizi e consegnare la documentazione. Pertanto, la non imputabilità della decadenza e la conseguente legittima richiesta di remissione in termini avrebbe meritato una decisione positiva dei giudici di merito.
7.1.= Neppure questa censura coglie nel segno e non può essere accolta.
7. La.).- La rimessione in termini, disciplinata dall’art. 184 bis cod. proc. civ., "ratione temporis" applicabile, non può essere riferita all’ipotesi in cui il difensore revocato non abbia comunicato lo stato del giudizio e la pendenza dei termini processuali ex art. 184 c.p.c., perchè la revoca del mandato avviene ad iniziativa della stessa parte che, quindi, è in grado di provvedere tempestivamente alla designazione del nuovo difensore e il nuovo difensore può (e/o deve) provvedere personalmente ad esaminare lo stato del processo.
Nell’ipotesi in esame, per altro, la Corte catanese ha avuto modo di chiarire che, dalle deduzioni contenute nell’atto di appello, emergeva con chiarezza che sia la C., che il suo nuovo difensore avevano avuto una pronta percezione dello stato del processo, considerato che l’incarico del precedente difensore era stato revocato intorno alla fine del dicembre 1988, mentre i termini concessi dall’istruttore ex art. 184 c.p.c., per le integrazioni istruttorie vennero a scadenza il 28 gennaio 1999 e già il 7 gennaio 1999 il nuovo difensore da ella nominato aveva chiesto al precedente legale notizie sul processo.
8.= Con il quinto motivo del ricorso incidentale i resistenti denunciano la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c. e art. 268 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, omessa insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5. a) Avrebbe errato la Corte catanese, sempre secondo i ricorrenti, nel non ammettere i mezzi istruttori richiesti dal contraddittore necessario C. R.C. violando e falsamente applicando l’art. 102 c.p.c. e art. 268 c.p.c., comma 2. In particolare, secondo i ricorrenti, la motivazione con cui la Corte di appello di Catania ha riconfermato la decisione del Tribunale in ordine al rigetto della richiesta di ammissione di prova per testi, per interrogatorio formale e di esibizione ex art. 210 c.p.c. (rivolta agli istituti di credito presso i quali il de cuius aveva probabilmente intrattenuto rapporti fino alla morte), avanzata da C.C. è errata perchè difforme alla svolgimento delle vicende processuali. Specificano i ricorrenti che il sig. C.C. si costituiva nel giudizio recante il n. 900/99 innanzi al Dott. E. cui, nel frattempo, erano stati rimessi dal Presidente i processi recanti il n. 900/99 e 4114/97. Successivamente, con ordinanza del 26 luglio 1999 i giudizi di cui si dice, venivano riuniti e rinviati all’udienza del 10 dicembre 1999. Con atto di intervento del 7 dicembre 1999 C. C. interveniva anche nel giudizio recante il n. 4114 del 1997.
Ora, nel ripercorrere le suddette vicende processuali ed evidenziando che il secondo intervento non avrebbe realizzato una situazione di litisconsorzio necessario, la Corte di appello, secondo i ricorrenti, non avrebbe adeguatamente dato rilievo al fatto che, allorquando il sig. C.C. ha spiegato il suddetto secondo intervento i due giudizi erano stati riuniti dando vita ad un giudizio unico, nel quale si discuteva già della situazione che dava luogo alla situazione di litisconsorzio necessario e non solo di riduzione per lesione della quota di legittima. Sicchè, concludono i ricorrenti, C.R.C. al momento del secondo intervento era già litisconsote necessario in un giudizio nel quale, tuttavia, le domande di revoca non erano state proposte nei confronti delle sorelle C.R..
Avrebbe errato, pertanto, la Corte catanese a non ritenere applicabile il superamento delle preclusioni concesso dall’art. 268 c.p.c., comma 2, al litisconsorte necessario poichè tale era la posizione processuale del C.C., già al momento del secondo intervento. b) Sotto altro profilo i ricorrenti ritengono che la Corte territoriale avrebbe escluso l’ammissibilità della prova per testi e dell’interrogatorio formale con motivazione del tutto insufficiente considerato che si sarebbe limitata ritenere la genericità degli articolati proposti in relazione all’individuazione dei beni per i quali si è richiesta la restituzione, mentre, sempre secondo i ricorrenti – gli articolati di prova che vengono riportati in seno al ricorso avrebbero dato prova dell’esistenza di somme di denaro presso conti bancari, prelevate pochi giorni prima o dopo la morte (sic) dai conti bancari intrattenuti dal de cuius. c). Ed infine, secondo i ricorrenti, la Corte territoriale avrebbe commesso un ulteriore errore di motivazione in ordine alla richiesta di esibizione ex art. 210 c.p.c.. Anche in questo caso la Corte avrebbe trascurato di dare rilievo alla circostanze di fatto allegate e documentate dai sigg. C.R., omettendo l’esame delle istanze della parte atte a fornire elementi decisivi per la decisione.
8.1.= Anche questa censura è infondata. a) Come ha chiarito correttamente la Corte territoriale – C. C. rispetto al giudizio recante il n. 4114 del 1997 promosso dalla sorella E. anche nei confronti di R., M. C. e C.A. contro le quali era proposta domanda di restituzione dei beni mobili ereditari cui le prove richieste si riferivano, non rivestiva la qualità di litisconsorte necessario lo stesso era intervenuto (nel dicembre 1999) nel giudizio di cui si dice ribadendo le domande della sorella E. ed aggiungendo, duplicando quelle già proposte nell’intervento del giudizio recante il n. 900 del 1999, le domande tendenti alla revoca dei testamenti e della donazione per sopravvenienza di figli nonchè per la restituzione dei beni. Non essendo in quel giudizio litisconsorte necessario, C.C., in ragione della preclusione di cui all’art. 268 c.p.c., incorreva nelle preclusioni istruttorie e, dovendo accettare il processo nello stato in cui si trovava, poteva sostenere la propria domanda solo sulla base delle prove già ammesse o acquisite al procedimento (in tal senso cfr. Cass. 2093/2007). Nè è possibile sostenere -come invece, sembra vogliano sostenere gli attuali ricorrenti, che C.C. rivestisse la qualità di litisconsorte necessario anche in quel processo perchè il processo recante il n. 4114 del 1997 era stato riunito al processo recante il n. 990 del 1999 e in questo secondo C.C. era già intervenuto e rivestiva la qualità di litisconsorte necessario, perchè, sebbene i due procedimenti (4114 del 1997 e 900 del 1999) fossero stati riuniti per connessione, gli stessi rimanevano comunque distinti, tale che la posizione di C.C. nell’un processo restava distinta dalla posizione dello stesso nell’altro procedimento. b) Assorbiti, per quanto appena detto, rimangano gli altri due profili del motivo in esame relativi: 1) al diniego della domanda di ammissione della prova testimoniale per genericità degli articolati proposti; 2) al diniego della richiesta di esibizione ex art. 210 c.p.c..
In definitiva, il ricorso principale e il ricorso incidentale vanno rigettai. La reciproca soccombenza consente di disporre la compensazione delle spese giudiziali del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale.
Compensa le spese.
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