Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-05-2012, n. 8688

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Così il Giudice di appello ha ricostruito i fatti, definendoli incontestati: il D. è stato assunto dalla Gutta Werke con un contratto a termine dal 16.5.2005 al 31.12.2005 senza alcuna indicazione delle ragioni legittimanti il termine; la Gutta Werke con comunicazione del 28.11.2005 anticipava la conclusione del rapporto;

il lavoratore con lettera del 16.12.2005 allegava la nullità del contratto, la sua trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato ed offriva la prestazione. Il 10.2.2006 la Gutta Werke invitava il D. a riprendere il lavoro, ricevendo da controparte come risposta la manifestazione di opzione per le 15 mensilità L. n. 300 del 1970, ex art. 18. Veniva quindi intimato licenziamento per giusta causa, essendosi il D. assentato dal lavoro senza un giustificato motivo.

Il primo giudice riteneva che, stante la conversione del rapporto in un rapporto a tempo indeterminato, il primo recesso fosse privo di giusta causa e comportasse – stante la sua pronta revoca – un risarcimento del danno nella misura di cinque mensilità globali di fatto.

Sull’appello delle parti la Corte di appello di Brescia con sentenza del 18-6-2009, in accoglimento dell’appello incidentale della Gutta Werke, veniva condannata la detta società al solo risarcimento delle retribuzioni maturate dall’atto di offerta delle prestazioni (18.1.2006) al 14.2.2006, data in cui la prestazione era stata accettata con l’invito a riprendere servizio.

La Corte territoriale osservava che non era applicabile la L. n. 300 del 1970, art. 18 in quanto era operante il regime proprio della conversione di contratti con illegittima apposizione del termine in rapporti a tempo indeterminato. Le retribuzioni relative al rapporto a termine erano state percepite e quindi l’unico risarcimento dovuto era quello pari alle retribuzioni dal momento di messa in mora sino all’invito a riprendere il lavoro, mentre appariva legittimo il secondo recesso, giustificato dal rifiuto del lavoratore di riattivare il rapporto non in buona fede, in quanto tale rifiuto era in contrasto con la stessa offerta del lavoratore. Il danno ulteriore, rispetto alla retribuzioni come sopra riconosciute, poteva essere evitato con l’ordinaria diligenza da parte dello stesso lavoratore.

Ricorre il D. con sei motivi, resiste controparte con controricorso; le parti hanno prodotto memorie illustrative.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 346 c.p.c. Non era stata richiesta la limitazione del danno così come operato dai Giudici di appello.

Il motivo appare infondato in quanto – come emerge dalla stessa sentenza impugnata – nell’appello incidentale la società aveva contestato in radice l’esistenza di un danno ancora risarcibile (oltre alle retribuzioni maturate già corrisposte) e l’applicabilità alla fattispecie della L. n. 300 del 1970, art. 18 e quindi tale prospettazione certamente appare idonea a consentire ai Giudici di appello di qualificare giuridicamente nuovamente il fatto e di attribuire ad esso conseguenze risarcitorie più limitate.

Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 1373 e 2119 c.c., del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, della L. n. 604 del 1966, art. 2 e della L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè degli artt. 1207 e 1217 c.c.: in presenza di un recesso ante tempus di un contratto a tempo determinato trasformatosi – per la Corte territoriale – in un rapporto a tempo indeterminato si deve applicare la disciplina sui licenziamenti. Spettava quindi la chiesta indennità sostitutiva della reintegrazione con le retribuzioni L. n. 300 del 1970, ex art. 18 sino al pagamento della detta indennità.

Con il terzo motivo si deduce la carenza e contraddittorietà della motivazione. Nella motivazione della sentenza impugnata si afferma che non emergeva una volontà di recesso dalla lettera del novembre 2005, mentre si affermava nella stessa sentenza che il datore di lavoro aveva voluto la cessazione del rapporto.

Con il quarto motivo si allega l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: il licenziamento non era mai stato revocato, essendo insufficiente l’invito a riprendere il servizio e dovendo il datore di lavoro corrispondere tutte le retribuzioni maturate. Le retribuzioni dovute sono state, in realtà, corrisposte dopo l’invito a riprendere il servizio e, comunque, non erano stati pagati i contributi.

Con il quinto motivo si allega l’errata o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4. Una somma pari a cinque mensilità di retribuzione è il minimo dovuto per legge in via presuntiva L. n. 300 del 1970, ex art. 18, mentre il risarcimento riconosciuto era stato inferiore.

I motivi da due a cinque vanno esaminati congiuntamente in quanto appaiono strettamente intrecciati e vertono tutti sulle conseguenze risarcitorie derivanti dal primo licenziamento intimato il 28.11.2005. Le doglianze proposte (segnatamente quelle di cui al secondo motivo) appaiono fondate e, nel limiti di cui alla presente motivazione, vanno accolte.

L’inquadramento giuridico della vicenda operato dai Giudici di appello non appare corretto; risulta dall’esposizione della sentenza impugnata che il recesso (il primo) è stato comunicato il 28.11.2005, e quindi prima della scadenza del termine che era il 31.12.2005. Conseguentemente si tratta di un licenziamento privo di giustificazione (che non risulta mai allegata) in un rapporto a termine cui è applicabile pacificamente (trattandosi di recesso ante tempus) la disciplina ordinaria prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 (non essendo in discussione il requisito dimensionale).

Pertanto il riferimento operato nella sentenza impugnata alla giurisprudenza concernente le conseguenze della trasformazione di un contratto a termine illegittimo in un contratto a tempo indeterminato è inconferente perchè siamo di fronte ad una risoluzione del rapporto non alla scadenza del contratto stipulato a tempo, ma prima della scadenza convenuta e senza la sussistenza di alcuna giustificazione. Pertanto essendo il primo recesso stato regolarmente impugnato ed avendo il lavoratore esercitato l’opzione – in luogo del diritto alla reintegrazione – in favore dell’indennità prevista allo stesso L. n. 300 del 1970, art. 18 spetta il diritto del ricorrente alla detta indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto, con gli accessori di legge, nonchè alle retribuzioni non corrisposte (emerge dalla motivazione della sentenza che le altre retribuzioni, anche per il periodo in cui il rapporto non ha avuto esecuzione, sono state corrisposte ) dal momento della messa in mora del 18.1.2006 sino al momento in cui il rapporto, come si dirà più avanti, si è sciolto per non aver accettato il lavoratore la riammissione in servizio (quindi le retribuzioni dal 18.1.2006 all’8.3.2006), comportamento peraltro conseguente all’esercitato diritto di opzione L. n. 300 del 1970, ex art. 18. Ulteriori danni, trattandosi – come detto – di un recesso da un contratto a termine, non risultano provati; nè può limitarsi il risarcimento al momento in cui il D. è stato invitato a riprendere il rapporto in quanto legittimamente, come detto, lo stesso ha esercitato il diritto ad ottenere l’indennità di 15 mensilità. Solo con il secondo recesso il rapporto si è sciolto in sostanza per volontà di entrambe le parti e sino a tale momento, non essendo stata corrisposta la chiesta indennità L. n. 300 del 1970, ex art. 18, è proseguito l’obbligo contributivo per il datore di lavoro.

Con il sesto motivo si deduce la violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5: era illegittimo anche il secondo licenziamento e spettavano le retribuzioni sino al momento del pagamento dell’indennità conseguente all’esercizio del diritto di opzione.

Il motivo è infondato. Infatti, dopo l’impugnazione del primo recesso, il datore di lavoro ha disposto la riammissione in servizio del lavoratore; quest’ultimo ha esercitato il diritto di opzione come già ricordato e non essendosi il D. presentato in azienda è stato intimato un secondo recesso. Tuttavia lo scioglimento del rapporto è stato in sostanza accettato dal lavoratore che ha richiesto il diritto all’indennità L. n. 300 del 1970, ex art. 18 conseguente al primo recesso, richiesta incompatibile con la volontà di prosecuzione del rapporto e, quindi, indipendentemente dalla legittimità o meno del secondo atto di recesso, il rapporto si è sciolto per una convergente volontà delle parti, ivi compresa quella del D. che non può logicamente pretendere di cumulare il risarcimento derivante da un primo recesso ritenuto illegittimo con quello di un secondo licenziamento di cui assume al tempo stesso l’illegittimità per avere egli stesso ritualmente esercitato la facoltà riconosciuta dall’ordinamento di sostituire il diritto alla reintegrazione con l’indennità prevista. Se, seguendo il ragionamento del lavoratore, il rapporto era stato da lui stesso concluso per esercizio del diritto all’opzione, allora non possono derivare danni dal secondo atto di recesso. Nè appare applicabile alla fattispecie la giurisprudenza richiamata nel ricorso in cassazione (cfr. cass. n. 6735/2010; contra cass. n. 3775/09) sul momento di estinzione dell’obbligo retributivo del datore di lavoro (per la prevalente giurisprudenza di legittimità da identificarsi con il pagamento dell’indennità sostitutiva), stante la peculiarità del caso in esame, in cui il datore di lavoro ha comunque riammesso il lavoratore in servizio senza esito ed il nuovo recesso, come detto, è stato accettato nei fatti dal D.. Tale giurisprudenza appare, infatti, riferirsi al più ordinario caso di un recesso impugnato dal lavoratore, con il diritto alla reintegrazione che viene sostituito con l’indennità di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 per esercizio del diritto all’opzione (con un rapporto quindi che prosegue sino al momento in cui- con il pagamento dell’indennità- deve ritenersi estinto) e non appare sovrapponibile alla più complessa situazione di cui si è sin qui parlato in cui gli atti di recesso sono stati due, il secondo dei quali in sostanza non contestato in sè e per sè.

Pertanto va accolto il ricorso e va conseguentemente cassata per quanto sopra detto e nei limiti di cui alla motivazione la sentenza impugnata. La controversia può essere decisa nel merito non necessitando di ulteriori approfondimenti istruttori: la parte intimata va, quindi, condannata al pagamento in favore de ricorrente di una somma pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per esercizio del diritto di opzione di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè al pagamento delle retribuzioni dal di della messa in mora del 18.1.2006 alla data del 8.3.2006, con gli accessori di legge, detratto quanto riconosciuto dalla sentenza impugnata.

Stante la soccombenza la società resistente va condannata al pagamento in favore di controparte della spese del primo grado di giudizio, del grado di appello e del giudizio di legittimità liquidate come al dispositivo della presente sentenza.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna al pagamento in favore del ricorrente di una somma pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per esercizio del diritto di opzione di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 nonchè al pagamento delle retribuzioni dal di della messa in mora del 18.1.2006 alla data del 8.3.2006, con gli accessori di legge, detratto quanto riconosciuto dalla sentenza impugnata. Condanna la società resistente alle spese liquidate per il primo grado in Euro 3.000,00, di cui Euro 1.800,00 per onorari, per il grado di appello in Euro 3.600,00 di cui Euro 2.000,00 per onorari e per il giudizio di legittimità liquidate in Euro 40,00 per esborsi ed in Euro 3.900,00 per onorari di avvocato, oltre IVA, CPA e spese generali.

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