Cassazione civile anno 2005 n. 1064 Imputazione Termini processuali

OBBLIGAZIONI E CONTRATTI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con sentenza del 9 ottobre 1998, il Pretore di Busto Arsizio – sez. distaccata di Gallarate -, rilevando che per il pagamento del credito era stata rilasciata quietanza in data 25 gennaio 1991, revocò il decreto con il quale era stato ingiunto all’opponente X di X X & C. s.a.s. il pagamento di L. 34.748.000 in favore dell’Impresa Edile X di La X X e la X X s.d.f., a titolo di corrispettivo del noleggio di un autocarro e di attrezzature utilizzati per l’esecuzione di lavori in economia.
La decisione, appellata dall’impresa X, venne confermata l’11 giugno 2001 dal Tribunale di Busto Arsizio, il quale osservò che:
a) la natura e la portata della quietanza di pagamento erano state correttamente valutate dal pretore;
b) la quietanza era stata rilasciata da un soggetto che aveva titolo per impegnare l’impresa;
c) la creditrice non aveva dimostrato con certezza a quale altro rapporto potesse riferirsi la quietanza;
d) l’appellante era decaduta dall’assunzione del giuramento decisorio, non avendone notificato al giurando l’ordinanza ammissiva nel termine prescritto.
L’impresa X è ricorsa con quattro motivi per la Cassazione della sentenza e l’intimata società X ha resistito con controricorso notificato il 28 dicembre 2001.

Motivi della decisione
La ricorrente denuncia, con il primo motivo, la violazione degli artt. 132, n. 4, e 360, n. 5, c.p.c., e l’omessa od insufficiente motivazione sulla questione, prospettata con l’appello, che la quietanza prodotta non aveva natura liberatoria del credito ingiunto, perchè "per tabulas" non si riferiva al costo del noleggio di un autocarro e di attrezzature, ma unicamente ed esclusivamente al pagamento di ore in economia per manovale e muratore.
Il motivo è inammissibile.
La censura difetta nella sua formulazione della specificità indispensabile sia al vaglio della fondatezza dell’asserito vizio argomentativo della pronuncia e sia all’esame della questione di nullità della sentenza per l’assenza, materiale od ideologica, del requisito della concisa esposizione dei motivi in fatto ed in diritto della decisione. Del tutto astratto, infatti, è il riferimento all’evidenza per tabulas della natura non liberatoria della quietanza, di cui nell’impugnazione neppure è trascritto il testo integrale, e la mancata indicazione di quali effettive e concrete deduzioni fossero state poste nel gravame a sostegno della doglianza di una erronea interpretazione del testo del documento non consente, come invece postulato dal principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, di apprezzare, senza l’esame degli atti del processo, l’adeguatezza sulla questione della motivazione della decisione per relationem alla corretta valutatone della natura e della pollata della quietanza compiuta in primo grado dal pretore.
Con il secondo motivo, dolendosi della violazione del combinato disposto degli artt. 1195 e 2697, c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la ricorrente censura l’affermazione della sentenza impugnata che costituiva onere della creditrice dimostrare l’imputazione del pagamento del debitore ad un titolo diverso da quello dedotto in giudizio.
Il motivo è infondato.
E’ principio, costantemente ribadito da questa Corte, che quando il debitore abbia dimostrato di avere corrisposto somme idonee a estinguere il debito, spetta al creditore, che pretenda in giudizio di imputare il pagamento all’estinzione di altro debito, la prova delle condizioni di una diversa imputazione (cfr.; Cass. civ., sez. 2^, sent. 15 dicembre 1988, n. 6823; cass. civ., sez. 3^, sent. 6 novembre 1986, n. 6509).
Esattamente, dunque, il tribunale ha escluso che fosse onere del debitore dimostrare che la quietanza a lui rilasciata si riferiva a prestazioni diverse da quelle poste fondamento del decreto ingiuntivo ed ha rinvenuto un riscontro dell’efficacia liberatoria del documento nella mancata prova da parte della opposta dell’eccezione dell’imputabilità ad un altro rapporto del pagamento da esso documentato. Con il terzo motivo, lamentando la violazione del combinato disposto degli artt. 1195 e 1199, c.c., ed il difetto di motivazione, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., la ricorrente deduce che, avendo il suo rappresentante aggiunto a penna nel testo dattiloscritto della quietanza che il pagamento era "x ore in economia muratore, manovale", il pagamento effettuato non poteva essere riferito ad un diverso debito e che le argomentazioni svolte nell’atto di appello in ordine all’erronea valutazione ed interpretazione del documento non avrebbero potuto essere disattese senza l’indicazione nella sentenza del criterio logico che aveva condotto il giudice a disattenderle.
Il motivo è infondato.
L’esercizio del potere, riservato al giudice del merito, di interpretare i documenti acquisiti al processo è sindacabile in sede di legittimità per violazione di legge soltanto con riferimento all’inosservanza dei canoni ermeneutici dettati dagli artt. 1362 e segg., c.c., e non è conseguentemente censurabile con il ricorso per cassazione l’apprezzamento del contenuto di una quietanza sotto il profilo della violazione delle norme dettate in tema di imputazione dei pagamenti. In caso di denuncia, inoltre, di un vizio di motivazione della pronuncia per la mancata o inadeguata valutazione degli argomenti svolti a sostegno di una diversa interpretazione della quietanza, il ricorrente ha l’onere di riprodurre nell’impugnazione, da un lato, il tenore esatto del documento, non essendo questo conoscibile d’ufficio da parte del giudice di legittimità, e, dall’altro, di specificare quali argomenti abbia addotto nel giudizio di secondo grado, trovando in essi un proprio limite fisiologico l’obbligo di motivazione del giudice di appello.
A nessuno di questi oneri ha soddisfatto la ricorrente, la quale oltre a tralasciare di trascrivere nel ricorso l’oggetto della quietanza, la cui significatività è stata invece sottolineata dalla controricorrente, ha anche trascurato, come già rilevato in relazione al primo motivo, di riportare nell’impugnazione "le argomentazioni svolte nell’atto di appello e relative ad una erronea valutazione ed interpretazione dello scritto", delle quali il tribunale non avrebbe tenuto conto nella sua pronuncia.
Alla considerazione che tali omissioni comportano l’impossibilità di apprezzare le questioni controverse nel giudizio di secondo grado, va aggiunta quella che la motivazione addotta per il rigetto del gravame non merita le genetiche doglianze della ricorrente e non appare, nonostante la sua sinteticità, inadeguata a sorreggere la decisione impugnata, giacchè, dopo avere premesso che l’unico sostanziale motivo di gravame era la contrastante valutazione della quietanza, il tribunale ha avvertitamente condiviso le conclusioni della sentenza del pretore mediante il duplice richiamo alla correttezza dell’interpretazione della quietanza fornita dal giudice di primo grado ed alla non imputabilità del pagamento documentato ad un debito diverso. Con il quarto motivo, deduce la ricorrente la falsa applicazione dell’art. 237, c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., sull’assunto che, avendo il termine per la notifica alla parte personalmente dell’ordinanza ammissiva del giuramento decisorio natura ordinatoria, il tribunale non avrebbe potuto dichiarare decaduta l’appellante dal mezzo istruttorio per l’inosservanza di tale onere.
Il motivo è infondato.
E’ vero che i termini stabiliti dal giudice per il compimento di un atto processuale, salvo che la legge li dichiari espressamente perentori o che la perentorietà consegua allo scopo ed alla funzione adempiuta (cfr.: Cass. civ., sez. 1^, sent. 9 marzo 2000) (sono ordinatori, a norma dell’art. 152, c.p.c., e che ad essi non si applica il divieto di abbreviazione o proroga stabilito dal successivo art. 153, c.p.c.. La proroga, anche d’ufficio, dei termini ordinatori, tuttavia, è consentita dall’art. 154, c.p.c., soltanto prima della loro scadenza ed il loro decorso senza la presentazione di un’istanza di proroga ha, pertanto, gli stessi effetti preclusivi della scadenza del termine perentorio ed impedisce la concessione di un nuovo termine per svolgere la medesima attività, salva, per quanto riguarda la fase istruttoria della causa, la remissione in termini, ai sensi dell’art. 184 bis, c.p.c., nel caso in cui la decadenza di sia verificata per causa non imputabile alla parte (cfr.: Cass. civ., sez. 3^, sent. 29 gennaio 2003, n. 1285).
Ciò perchè, diversamente argomentando, non solo si violerebbe il disposto normativo, ma si lascerebbe la parte interessata arbitra di decidere del corso temporale del procedimento, in contrasto con l’intenzione manifestata dal legislatore nel subordinare anche la possibilità di ottenere un’ulteriore proroga alla concorrenza di motivi particolarmente gravi, e le si consentirebbe di procrastinare ad libitum il tempo stabilito per il verificarsi dell’effetto preclusivo voluto dalla legge (cfr.: Cass. civ., sez. 2^, ord. 6 maggio 2003, n. 6895; cass. civ., sez. 2^, sent. 10 gennaio 1998, n. 10174).
All’infondatezza o inammissibilità dei motivi seguono il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in dispositivo.

P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in E. 1.000,00 per onorari ed in E. 100,00 per spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 novembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *