Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 20 giugno 1996, la sig.ra B.N. conveniva dinanzi al Tribunale di Ragusa il sig. B.A. deducendo che quest’ultimo, quale proprietario di un fondo in (OMISSIS), ricadente in zona agricola "E" del vigente piano di fabbricazione, aveva realizzato un fabbricato senza rispettare la distanza legale dal confine con la sua proprietà, nella quale aveva anzi sconfinato, come rilevato in sede di accertamento tecnico; sulla scorta di tale presupposto invocava la condanna del predetto convenuto alla demolizione del menzionato fabbricato e al risarcimento dei danni. Instauratosi il contraddittorio, si costituiva in giudizio il B.A. che instava per il rigetto della domanda principale ed avanzava, a sua volta, domanda riconvenzionale per il riconoscimento dell’attribuzione della proprietà del suolo dell’attrice occupato in buona fede verso il pagamento del doppio del valore di mercato dell’area. Espletata l’istruzione probatoria, nel corso della quale veniva ammessa c.t.u., il Tribunale adito, con sentenza del 21-28 marzo 2001, in parziale accoglimento della domanda attorea, condannava il B.A. a demolire il fabbricato indicato in citazione (iscritto in catasto al foglio 34, particella 1301) nonchè al pagamento delle spese giudiziali.
Interposto gravame da parte del B.A., la Corte di appello di Catania, nella costituzione dell’appellata, con sentenza n. 223 del 2005 (depositata il 26 febbraio 2005), rigettava l’impugnazione, confermando la sentenza di primo grado (con la precisazione che la condanna alla demolizione non avrebbe dovuto comprendere quella eventuale porzione di fabbricato dell’appellante che fosse risultata insistere sulla proprietà dello stesso ad una distanza superiore ai cinque metri dal confine), con la condanna dello stesso B.A. alla rifusione delle spese del grado.
A sostegno dell’adottata decisione, la Corte territoriale rigettava il motivo pregiudiziale riguardante la supposta necessità di integrare il contraddittorio nei confronti del coniuge di esso B.A. (poichè il fondo su cui era stato eretto il fabbricato era risultato di sua proprietà esclusiva) nonchè la doglianza relativa all’esclusione della sua buona fede; respingeva, altresì, i motivi di rito relativi alle dedotte violazioni dell’art. 112 c.p.c. e alla mancata ammissione della prova testimoniale dal medesimo richiesta e puntualizzava entro quali limiti si sarebbe dovuto considerare emesso l’ordine di demolizione del fabbricato (nei sensi in precedenza evidenziati) così come disposto con la sentenza di primo grado.
Avverso la suddetta sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione il B.A., articolato in cinque motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimata B. N.. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’ari. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 102, 116 e 354 c.p.c., nonchè degli artt. 934, 938, 177 e segg. c.c., oltre che della L. n. 151 del 1975, art. 228, deducendo, altresì, il vizio di difetto ed insufficienza della motivazione, il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. In particolare, con questa complessa doglianza, il ricorrente prospetta che, nella controversia in discorso, diversamente da quanto statuito dalla Corte territoriale, sarebbe stato necessario integrare il contraddittorio nei confronti del coniuge L.M. quale comproprietaria del fabbricato di cui era stata ordinata la demolizione in virtù del regime di comunione legale dei beni tra gli stessi intercorrente, senza trascurare che, se si fosse ritenuto operante l’istituto dell’accessione (escludente il diritto reale di comproprietà del coniuge sulla parte di fabbricato realizzata sul suolo di sua proprietà esclusiva), al predetto coniuge sarebbe spettato il diritto di credito per la metà delle somme impiegate nella costruzione.
1.1. Il motivo è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.
In primo luogo il collegio osserva che il terreno sul quale era sorto il manufatto ritenuto edificato a distanza illegittima era – per come accertato in fatto dalla Corte di appello catanese (e non contestato dal B.) – di proprietà esclusiva del B.A. in virtù di atto di donazione del 1987 (ai sensi dell’art. 179 c.c., comma 1, lett. b)), ragion per cui, in virtù dell’art. 934 c.c., il fabbricato insistente su detto suolo si apparteneva allo stesso ricorrente per effetto dell’accessione, senza che, ai fini dell’integrità del contraddittorio, abbia rilevanza la circostanza che al coniuge poteva essergli riconosciuto il diritto di credito per la metà delle somme impiegate nella realizzazione della costruzione, poichè tale assunto diritto non può considerarsi caducato per effetto della possibile demolizione dell’immobile a causa della violazione dei limiti legali di vicinato e non determinava la necessità – per questo aspetto – della sua partecipazione necessaria al giudizio per l’accertamento di tale violazione. A tal riguardo si evidenzia che anche la più recente giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 8662 del 2008 e, da ultimo, Cass. n. 20508 del 2010) ha statuito che il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista "ipso iure" al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui operatività può essere derogata soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177 c.c., comma 1, hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione, mentre al coniuge non proprietario, che abbia contribuito all’onere della costruzione spetta, previo assolvimento dell’onere della prova di aver fornito il proprio sostegno economico, il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le somme spese a tal fine.
Peraltro, con riguardo al profilo della doglianza relativo all’assunta necessità di integrare il contraddittorio nei riguardi del coniuge di esso ricorrente con riferimento, quanto meno, alla domanda di demolizione della parte di fabbricato realizzata illegittimamente sul suolo di proprietà di B.N. (per la quale non poteva trovare applicazione la prevalente disciplina dell’accessione), occorre rilevare che l’azione di quest’ultima diretta all’abbattimento di tale porzione di fabbricato che aveva sconfinato nella sua proprietà era stata, per l’appunto, legittimamente esperita nei confronti del terzo che aveva eseguito l’occupazione illegittima, la cui identificazione con il convenuto non era stata contestata nel corso del giudizio e, in ogni caso, dovendo – per questa parte – la demolizione avvenire sul suolo dell’originaria attrice, l’azione avrebbe potuta essere rivolta nei riguardi di qualsiasi soggetto ritenuto occupante abusivo.
2. Con il secondo motivo il B.A. ha prospettato il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., nonchè degli artt. 938, 2697, 2730 e 2733 c.c., congiuntamente al vizio di omessa ed insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), avuto riguardo all’aspetto attinente all’esclusione della prova della buona fede, in capo allo stesso ricorrente, con riguardo all’occupazione della porzione di terreno contiguo di proprietà della sorella B.N..
2.1. Anche questo motivo è destituito di fondamento deve, perciò, essere disatteso. La Corte territoriale ha, infatti, esattamente applicato al riguardo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 3222 del 1981; Cass. n. 852 del 1986; Cass. n. 9096 del 1991 e Cass. n. 3058 del 1999) alla luce della quale la buona fede rilevante ai fini dell’accessione invertita ex art. 938 c.c. consiste nel ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere alcuna usurpazione e tale stato soggettivo deve persistere fino al completamento della costruzione non operando il citato art. 938, nel richiedere tale requisito, alcuna distinzione tra l’inizio ed il termine della costruzione; inoltre, la buona fede del costruttore non può essere presunta, ma deve essere dimostrata, al pari dei requisiti oggettivi della complessa fattispecie, dallo stesso costruttore che voglia conseguire, contro il principio generale dell’accessione ("superficies solo cedit"), il trasferimento della proprietà del suolo occupato con la costruzione. In virtù di tale principio la Corte etnea, con motivazione logica ed adeguata, ha accertato che l’attuale ricorrente non aveva fornito alcun idoneo riscontro probatorio sulla sussistenza della propria buona fede, non potendo essere sufficiente allo scopo richiamare semplicemente l’estensione del fondo di proprietà della germana, incombendo su chi costruisce accertare preventivamente che il manufatto non vada ad occupare una porzione del fondo limitrofo (e soltanto nell’ipotesi di errore incolpevole potrebbe operare l’istituto dell’accessione invertita). In altri termini, nella fattispecie, il giudice di appello ha correttamente escluso che ricorressero gli elementi sintomatici della buona fede nella condotta del B.A. dovendo ritenersi che proprio l’assenza di segni visibili del confine e la necessità di rispettare la distanza di cinque metri dallo stesso imponevano al costruttore di osservare un particolare onere di diligenza preventiva, invece non assolto (non avendolo il medesimo ricorrente idoneamente comprovato).
3. Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116, 167 e 184 c.p.c. unitamente al vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), con riferimento alla conferma della statuizione di inammissibilità per tardività della prova orale in ordine alla circostanza dell’invocata buona fede e all’ulteriore valutazione di inammissibilità compiuta dallo stesso giudice di appello.
3.1. Anche questa doglianza non coglie nel segno e deve essere respinta.
La Corte catanese ha, infatti, idoneamente accertato che le richieste istruttorie dedotte nell’interesse dell’attuale ricorrente in primo grado erano state formulate tardivamente, ovvero successivamente alla celebrazione dell’udienza prevista dall’art. 184 c.p.c. (nella sua versione "ratione temporis" applicabile) e che, in ogni caso, per come desumibile dal contenuto dei capitoli riportati nello stesso ricorso, correttamente la Corte territoriale ha rilevato la genericità del primo relativo all’assunta involontarietà della lamentata occupazione e l’inammissibilità del secondo (inerente il presunto rifiuto della B.N. dell’offerta propostale per l’acquisto della porzione occupata) siccome oggettivamente configgente con l’asserita buona fede nello sconfinamento.
4. Con il quarto motivo il ricorrente ha inteso far valere il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 935, 936 e 938 c.c., unitamente al vizio di omessa ed insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), avuto riguardo all’asserita esclusione, da parte del giudice di secondo grado, della circostanza che l’azione spiegata dalla B.N. fosse soggetta ad un termine di decadenza, non potendosi assimilare l’ipotesi dedotta in giudizio a quella prevista dall’art. 935 c.c., comma 2 e art. 936 c.c., u.c..
4.1. Anche questo motivo è privo di pregio e va rigettato.
Al di là del profilo attinente al possibile difetto di autosufficienza della proposta doglianza (perchè in essa non si pone preciso riferimento agli esatti motivi dei gradi di merito con i quali era stata formulata l’eccezione di assunta decadenza), la stessa è da considerarsi priva di fondamento perchè la Corte territoriale ha escluso l’operatività dei termini decadenziali sul presupposto che – conformemente alla giurisprudenza di questa Corte (cfr, ad es., Cass. n. 1018 del 1984) – l’art. 936 c.c., u.c., il quale prevede che il proprietario del suolo su cui un terzo abbia realizzato un’opera non può più chiederne la rimozione dopo il decorso di sei mesi dalla notizia del fatto, trova applicazione esclusivamente nell’ambito della particolare disciplina dell’accessione, nel senso che detto proprietario, privato della scelta fra ritenzione e rimozione della costruzione, resta obbligato al pagamento del valore dei materiali e del prezzo della mano d’opera (oppure dell’aumento del valore del fondo), ma non interferisce sulla facoltà del proprietario medesimo di agire in rivendicazione, al fine di recuperare la porzione del bene della quale sia stato spossessato con l’esecuzione di quell’opera, e, quindi, di conseguirne la demolizione (fermo restando il suddetto obbligo di pagamento). Peraltro, in tal senso integrandosi la motivazione della Corte territoriale, deve sottolinearsi (v. Cass. n. 2776 del 1975) che nell’ipotesi di sconfinamento prevista dall’art. 938 c.c., qualora non si verifichi l’accessione invertita a favore del costruttore, il proprietario del suolo non è vincolato all’osservanza del termine indicato dall’art. 936 c.c. per l’esercizio dello "ius tollendi"; in altri termini, se l’inerzia del proprietario della parte di suolo occupata, protratta per oltre tre mesi dall’inizio della costruzione, concorre, unitamente alla buona fede del costruttore nello sconfinamento, ad attribuire allo stesso il diritto di chiedere l’attribuzione dell’edificio realizzato e della superficie occupata, è, tuttavia, sufficiente che difetti uno dei due predetti elementi (come, nel caso di specie, la "buona fede", alla stregua di quanto precedentemente evidenziato) perchè l’accessione invertita non si realizzi e rimanga, perciò, intatto il diritto del proprietario della parte di suolo abusivamente occupata ad ottenere la demolizione della costruzione illegittimamente eseguita su tale porzione di superficie.
5. Con il quinto ed ultimo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè degli artt. 873, 879, 949, 1027 e 2934 c.c., oltre al vizio di omessa ed insufficiente motivazione (sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5), con riguardo alla statuita conferma, da parte del giudice di appello, della decisione di primo grado con la quale era stato ritenuto che la costruzione di esso ricorrente era stata realizzata a distanza non regolamentare, per non aver osservato la distanza di mt. 5 prevista per la zona C3, nella quale l’area di riferimento si ricomprendeva, così rigettandosi la censura con quale si era sostenuto che la costruzione non fosse soggetta all’osservanza della distanza dal confine, ricadendo la stessa in area destinata a parcheggi. Il ricorrente ha, inoltre, censurato la sentenza impugnata nella parte in cui aveva considerato irrilevante la circostanza che altra costruzione insisteva, sul suo fondo, da oltre trent’anni ad una distanza inferiore ai 5 mt. da confine, nel mentre essa avrebbe dovuto comprovare l’intervenuto acquisto ad edificare e a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella pretesa dalla parte avversaria.
5.1. Anche quest’ultima complessa censura è priva di fondamento e deve, perciò, essere respinta.
In primo luogo va confermata l’esattezza della statuizione della Corte etnea secondo cui la circostanza che il ricorrente avesse costruito un altro edificio, esistente "in loco" da oltre trent’anni, a distanza inferiore a quella prescritta, con conseguimento della relativa usucapione, non poteva valere certamente a comportare l’acquisto del diritto a realizzare altre costruzioni in violazione delle distanze legali.
Quanto all’ulteriore questione riguardante la destinazione urbanistica del terreno a servizio di pubblica utilità (parcheggio), da ritenersi preclusiva ai privati di forme di trasformazione del suolo riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, la sentenza ha congruamente motivato sull’infondatezza dell’assunto inerente l’insussistenza di una norma sulle distanze da rispettare rispetto ai confini, invece inderogabilmente prevista dallo strumento urbanistico in concreto applicabile (indipendentemente dalla suindicata destinazione della relativa area) in funzione del prevalente soddisfacimento delle esigenze pubblicistiche allo stesso correlate, senza che il ricorrente avesse provato di aver ottenuto un provvedimento comportante la sanatoria del suo manufatto abusivo (in ogni caso da concedersi senza pregiudizio dei diritti privati dei terzi).
6. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 12 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2012
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