Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
C.P. decedeva il (OMISSIS) lasciando quali unici eredi i fratelli Ma. e C.G..
Dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta nel (OMISSIS), i suoi eredi, ovvero la moglie Ma. ed il figli Si. e M. C., con atto di citazione dell’11-2-1982 convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Livorno Ca.Ma.
chiedendo la divisione di un appartamento sito in (OMISSIS) oggetto di comunione ereditaria tra le parti conseguente alla successione di C.P..
Il convenuto costituendosi in giudizio sosteneva che soltanto dal marzo 1975 egli era andato ad abitare per alcuni mesi all’anno nella casa di (OMISSIS), e che, consenziente il fratello G., aveva occupato alcuni vani lasciando gli altri ed il garage nella disponibilità di quest’ultimo; chiedeva inoltre che nella divisione venissero compresi altri beni rimasti fino ad allora indivisi (somme depositate su conti correnti, il contenuto di una cassetta di sicurezza, un anello di platino).
A seguito della morte di Ca.Ma. si costituivano in giudizio la moglie D.R. ed i figli S., P. ed C.O.; quest’ultima decedeva in corso di giudizio, cosicchè si costituivano in giudizio i suoi eredi P., V., S. e K.J.C.; i convenuti deducevano l’esistenza di un testamento, e comunque insistevano sulla appartenenza all’asse ereditario di un anello in platino con due pietre di enorme valore; gli attori replicavano che l’anello era stato donato in vita dalla "de cuius" alle nipoti, che l’avevano suddiviso in due anelli ciascuno con pietra; essi depositavano in cancelleria uno di tali anelli, ma i convenuti negavano che la pietra dell’anello fosse una di quelle originariamente costituenti fanello relitto da C.P.; seguiva un procedimento penale che si concludeva con l’amnistia.
Il Tribunale adito con sentenza non definitiva del 13-4-1993 dichiarava che la successione doveva essere regolata dalle norme sulla successione legittima, che l’immobile sito in (OMISSIS) faceva parte dell’asse oggetto di divisione, e che vi era necessità di ulteriore istruttoria riguardo ai beni mobili indicati dai convenuti.
Con successiva sentenza non definitiva n. 291/2005 lo stesso Tribunale disponeva la vendita all’incanto del suddetto immobile con suddivisione del netto ricavo al 50% tra i due gruppi di eredi, condannava i convenuti a corrispondere agli attori l’indennità di occupazione pari al 50% della rendita dell’appartamento di (OMISSIS) dal 1982 alla cessazione del possesso esclusivo con gli interessi legali dal 1982 al saldo, condannava gli attori al rimborso del 50% delle spese straordinarie, respingeva la domanda dei convenuti relativa alla condanna delle controparti alla refusione del 50% delle spese ordinarie, e respingeva ogni altra domanda dei convenuti, ivi compresa quella di assegnazione della metà del valore dell’anello di platino.
Proposta impugnazione avverso quest’ultima sentenza da parte di D.R. cui resistevano Si. e C.M. che proponevano appello incidentale la Corte di Appello di Firenze con sentenza non definitiva del 14-12-2007, in parziale modifica della decisione di primo grado, ha dichiarato che questi ultimi avevano diritto all’indennità di occupazione peri al 50% della rendita dell’unità immobiliare per cui è causa dal marzo 1975 alla cessazione del possesso esclusivo da parte dei convenuti, ed ha condannato costoro al pagamento in favore di Si. e M. C. di una somma complessiva da determinare nel corso del giudizio tramite CTU con gli interessi legali dal 1975 al saldo.
Per la cassazione di tale sentenza R.F. e V. M.C. quali procuratori speciali di D.R., C.P., C.S., K.V., K.J.C., K.P. e S. K. hanno proposto un ricorso affidato a cinque motivi cui Ca.Si. e C.M. hanno resistito con controricorso; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.
Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti, deducendo violazione degli artt. 111 Cost., comma 5 dell’art. 113 c.p.c. e dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., rilevano la nullità o l’inesistenza della sentenza impugnata per omessa indicazione sia dei principi di diritto che regolano la materia del contendere sia dei precedenti giurisprudenziali ai quali richiamarsi, occorrendo, nella fattispecie oggetto di giudizio.
I ricorrenti hanno formulato il seguente quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.: "Dica la Corte Ecc.ma essere motivo di nullità ovvero di inesistenza, la sentenza della Corte di merito che non abbia giustificato la propria decisione con riferimento a norme di legge e a precedenti giurisprudenziali. E che quindi, con tali omissioni, impedisca che possa essere esercitato il controllo sulla imparzialità del Giudice".
Il motivo è inammissibile per genericità del quesito, che invero non specifica affatto nè le statuizioni della sentenza impugnata che sarebbero caratterizzate dai difetti omissivi dedotti, nè le specifiche norme di legge che il giudicante avrebbe dovuto richiamare a fondamento della propria decisione, tenuto altresì conto che ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4 nella formulazione applicabile nella fattispecie "ratione temporis" la sentenza deve contenere soltanto " la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione".
Con il secondo motivo i ricorrenti, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1102 c.c. ed errata valutazione delle risultanze di causa, assumono sotto un primo profilo che il giudice di appello, affermando che Ca.Ma. e la moglie utilizzavano a loro piacimento secondo le loro necessità l’appartamento di (OMISSIS), ha trascurato di considerare che costoro non avevano impedito a C.G. di servirsi di detto bene comune, essendosi limitati ad esercitare il loro diritto quando gli altri comproprietari erano assenti; era inoltre pacifico in atti che i due fratelli Ma. e Ca.Si. avevano deciso di non locare a terzi detto bene, e che la loro volontà di occuparlo congiuntamente e disgiuntamente si era di fatto realizzata nel corso di quattro anni dall’ottobre 1972 al luglio 1976, cosicchè erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che la proposta di Ca.Ma. al fratello di utilizzazione dell’immobile fosse rimasta una semplice dichiarazione di intenti; del pari gli esponenti non avevano mai impedito a Ca.Ma. di fare un pari uso del bene comune ai sensi dell’art. 1102 c.c..
I ricorrenti poi sostengono l’erroneità delle argomentazioni della sentenza impugnata secondo cui il carteggio degli anni 70 dimostrava soltanto che C.G. non aveva mai avuto la disponibilità dell’immobile e che la dichiarazione di Ma.
C. di consentire l’utilizzo del bene al fratello non era mai stata accompagnata da fatti concreti quali la consegna formale delle chiavi; in realtà dalle deposizioni dei testi escussi era emerso che mai C.G. e la sua famiglia avevano assunto iniziative volte a prendere possesso di detta abitazione ed a proporre di concordare modalità diverse anche nella gestione della comune proprietà; neppure era vero che la disponibilità di Ma.
C. fosse limitata all’irrealizzabile utilizzo congiunto del bene, atteso che in ogni momento i coeredi di Genova avevano avuto la consapevolezza di poter prender possesso della casa oltre che del garage in via esclusiva, se avessero voluto farlo.
I ricorrenti infine assumono di aver fornito la prova della disponibilità da parte di C.G. dell’appartamento in questione nei mesi successivi alla scomparsa di C.P. tramite la produzione dell’originale dell’atto pubblico di notorietà del 15-2-1973 per atto notaio Von Berger di Livorno (riguardante l’attestazione della inesistenza di un testamento della defunta e del fatto che gli eredi di C.P. erano soltanto i due fratelli Ma. e C.G.), allorchè il fratello Ma. e la di lui moglie si trovavano in (OMISSIS).
I ricorrenti hanno formulato il seguente quesito di diritto: "Dica la Corte Ecc.ma essere la norma regolatrice della fattispecie dedotta in giudizio quella contenuta nell’art. 1102 c.c. e non altra di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata".
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Sotto un primo profilo, invero, il sopra enunciato quesito di diritto è del tutto privo della indicazione delle ragioni giuridiche che dovrebbero indurre a ritenere l’errata individuazione da parte del giudice di appello della norma che regola la fattispecie o l’applicazione della stessa ad una fattispecie da essa non regolata, ed appare invece riferito ad un presunto difetto di motivazione.
In relazione poi a tale parte della censura, si osserva che la Corte territoriale ha rilevato che dal carteggio risalente agli anni 70 era emerso che C.G. non aveva la disponibilità dell’immobile per cui è causa, mentre la pretesa disponibilità di Ca.Ma. a consentire il godimento del bene al fratello, non accompagnata da fatti concreti (quali la consegna formale delle chiavi o un accordo sui tempi e le modalità di utilizzazione dell’appartamento tra i due fratelli) era rimasta una semplice dichiarazione di intenti, oltretutto irrealizzabile in quanto la indivisibilità della casa avrebbe comportato una forzosa convivenza, in realtà mai attuata; pertanto l’immobile era stato sempre utilizzato esclusivamente da Ca.Ma. e la moglie i quali, soprattutto dopo la morte del fratello G., si recavano spesso dal (OMISSIS), dove risiedevano, a (OMISSIS), dove si intrattenevano per periodi anche piuttosto lunghi; al riguardo il giudice di appello ha ritenuto tale situazione di fatto ben comprensibile, in quanto Ca.Ma. e la moglie erano convinti che l’appartamento, in base ad una promessa verbale della defunta, spettasse alla loro figlia P., avendo anzi sostenuto tale tesi anche nel giudizio di primo grado, fino alla prima sentenza non definitiva che aveva escluso ogni diritto estraneo alla successione legittima; nè d’altra parte tale godimento esclusivo dell’immobile era mai stato giustificato da una rinuncia, espressa o tacita, all’utilizzo del bene stesso da parte di C.G..
La sentenza impugnata ha poi ritenuto irrilevante l’atto di notorietà del 15-2-1973 sopra richiamato al fine di provare il libero accesso all’appartamento in questione da parte di G. C. nel periodo immediatamente successivo alla morte della "de cuius" in quanto tale atto ben poteva essere una copia in possesso di Ca.Ma., che tra l’altro si era occupato della divisione dei beni relitti negli (OMISSIS); inoltre l’eventuale accesso in quel periodo di tempo di G. C. nell’appartamento in questione non dimostrava affatto che egli avesse la disponibilità delle chiavi, nè che le chiavi stesse fossero utilizzabili successivamente.
Il giudice di appello ha quindi confermato la sentenza di primo grado in ordine all’accertamento dell’uso esclusivo dell’immobile da parte di Ma. e C.R. ed al conseguente obbligo di costoro di corrispondere ai coeredi il relativo indennizzo per l’occupazione della porzione del 50% del bene.
Avendo quindi la Corte territoriale indicato puntualmente le fonti del proprio convincimento, si è in presenza di un accertamento di fatto sorretto da congrua e logica motivazione, come tale incensurabile in questa sede, dove i ricorrenti invero tendono inammissibilmente a prospettare una ricostruzione della vicenda che ha dato luogo alla presente controversia ad essi più favorevole;
pertanto nella fattispecie assume decisivo rilievo la circostanza dell’uso esclusivo dell’immobile suddetto da parte di Ma.
C. e dei suoi discendenti con la conseguente impossibilità per C.G. ed i suoi eredi di poterlo utilizzare, date anche le caratteristiche di indivisibilità del bene; invero ai sensi dell’art. 1102 c.c. lo sfruttamento esclusivo del bene da parte del singolo che ne impedisca la simultanea fruizione degli altri non è riconducibile alla facoltà di ciascun comproprietario di trarre dal bene comune la più intensa utilizzazione, ma ne integra un uso illegittimo, in quanto il principio di solidarietà cui devono essere informati i rapporti tra comproprietari richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione (Cass. 24-6-2008 n. 17208), e quindi la norma ora richiamata esclude che l’utilizzo della cosa comune da parte del singolo possa risolversi in una compressione quantitativa o qualitativa di quello, attuale o potenziale, di tutti i comproprietari (Cass. 19-11-2004 n. 21902).
Con il terzo motivo i ricorrenti, deducendo violazione dell’art. 112 c.p.c., affermano che la sentenza impugnata ha ritenuto irrilevante il fatto che il garage annesso al suddetto appartamento fosse stato rinvenuto dal CTU aperto ed in condizioni precarie, considerato che ciò non implicava che esso potesse avere una utilizzazione separata da quella della casa, nè che C.G. ed i suoi eredi ne avessero ricevuto ed accettato tale separata disponibilità;
ebbene in tal modo è stata esaminata ed accolta una eccezione che in realtà le controparti non avevano mai sollevato nel giudizio.
Il motivo è corredato dal seguente quesito di diritto: "Dica la Corte Ecc.ma: sussiste vizio di motivazione ogni volta che il giudice di appello respinga la domanda della parte convenuta per una ragione rilevabile d’ufficio ed estranea al dibattito tra le parti svoltosi in primo e secondo grado; ogni volta che la Corte di merito abbia pronunciato oltre l’ambito del giudizio di appello quale definito dalle domande ed eccezioni delle parti".
La censura è infondata.
La Corte territoriale ha escluso che l’appellante avesse provato di aver comunicato ai coeredi le offerte di affitto del locale garage;
in tale contesto ha ritenuto in particolare del tutto irrilevante che il CTU avesse trovato detto garage aperto ed in condizioni precarie, in quanto ciò non implicava che tale locale potesse avere una utilizzazione separata da quella dell’appartamento, nè che G. C. ed i suoi eredi ne avessero ricevuto ed accettato tale disponibilità separata.
Orbene tale convincimento, lungi dal potersi configurare quale violazione dell’art. 112 c.p.c., è semplicemente il frutto di una valutazione di merito delle risultanze probatorie ritualmente acquisite al processo (tra le quali ovviamente rientra anche l’esito della CTU espletata) nell’ambito delle rispettive domande ed eccezioni rispettivamente proposte dalle parti.
Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 1362 c.c., comma 2 e dell’art. 1372 c.c. e dell’art. 116 c.p.c. nonchè vizio di motivazione sotto diversi profili.
Anzitutto i ricorrenti rilevano, quanto al sopra menzionato atto pubblico del 15-2-1973 – prodotto dagli esponenti per provare la presenza in (OMISSIS) in quel periodo di C.G., e quindi la sua disponibilità delle chiavi di accesso all’immobile per cui è causa – l’erroneità dell’assunto del giudice di appello in ordine all’inconsistenza di tale prova in quanto tale atto ben poteva essere una copia in possesso di Ca.Ma.; infatti, pur ammettendo che l’atto pubblico prodotto fosse un duplicato, esso provava ugualmente la presenza di C.G. in (OMISSIS) in quei giorni ed in quelli precedenti.
Inoltre i ricorrenti aggiungono che dagli elementi probatori acquisiti era emersa la volontà di un uso comune, sia congiunto che disgiunto, dell’appartamento caduto in successione, specialmente in virtù degli ottimi rapporti sussistenti all’epoca tra i fratelli Ma. e C.G. ed i loro rispettivi nuclei familiari, esclusa ogni ipotesi di locazione del bene a terzi.
Infine la pattuita comune volontà in ordine all’uso anche congiunto della comune proprietà si evinceva altresì dalla lettera raccomandata del 5-7-1976 dell’avv. Masnata con la quale si proponeva di modificare, anche per il passato, il rapporto in essere: "Quanto all’arretrato…e di sistemare la posizione relativa al passato con il versamento forfettario di L. 1.500.000"; rapporto quindi improntato a comune volontà negli anni 1972-1976.
Il motivo non è accompagnato da un quesito di diritto, ma da un "chiarimento riassuntivo del fatto controverso", cosicchè esso può essere esaminato soltanto sotto il profilo del denunciato vizio di omessa o insufficiente illogica contraddittoria motivazione.
Tanto premesso, la censura in tali limiti è comunque infondata.
Anzitutto il reiterato richiamo dei ricorrenti al menzionato atto pubblico del 15-2-1973 onde provare la presenza di G. C. in (OMISSIS) in quel periodo di tempo è inidoneo ad infirmare le logiche argomentazioni del giudice di appello già evidenziate in sede di esame del secondo motivo di ricorso, in particolare laddove è stato rilevato che l’eventuale accesso di C.G. all’epoca nell’appartamento in questione non dimostrava affatto nè la sua disponibilità delle chiavi nè soprattutto che le stesse chiavi fossero utilizzabili successivamente.
Quanto poi alla pretesa prova della volontà dei coeredi circa l’uso sia congiunto che disgiunto dell’immobile in questione, è sufficiente richiamare il convincimento in senso contrario adeguatamente motivato da parte della sentenza impugnata, che da un lato ha ritenuto irrealizzabile l’uso congiunto in relazione alle caratteristiche di indivisibilità del bene, e dall’altro ha escluso una qualsiasi pattuizione tra i coeredi in ordine ad un preteso uso congiunto di esso; a tale ultimo proposito è quindi agevole evidenziare l’irrilevanza della richiamata lettera raccomandata del 5- 7-1976 dell’avvocato Masnata sia perchè comunque relativa ad un periodo temporale ben delimitato, sia perchè la proposta ivi formulata di definizione dell’"arretrato" non può di per sè comprovare la pretesa volontà dei fratelli C. prima e dei loro rispettivi eredi successivamente di un uso congiunto od anche disgiunto dell’appartamento in questione.
Con il quinto motivo i ricorrenti, deducendo violazione dell’art. 2733 c.c. – degli artt. 84 e 116 c.p.c. nonchè vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver respinto la domanda relativa all’anello in platino per la sua mancata identificazione e per l’assenza di prova della sua esistenza nel patrimonio ereditario al momento del decesso di C.P..
Essi anzitutto affermano che dalle stesse dichiarazioni rese dal difensore degli attori al verbale di udienza del 3-12-1987 era emerso che la defunta aveva donato detto anello alle nipoti M. C. e C.P.; si trattava quindi di una confessione riferibile alla parte, e particolarmente qualificata perchè associata al deposito dell’anello stesso nella cancelleria del Tribunale.
D’altra parte, pur escludendo efficacia confessoria alla suddetta dichiarazione del difensore delle controparti, il giudice di merito avrebbe dovuto valutarla, unitamente al fatto concludente della consegna dell’anello a disposizione delle controparti, come elementi indiziari che, in perfetta coerenza tra di loro, davano fondamento alla domanda formulata.
Il motivo è accompagnato dal seguente quesito di diritto: "se costituiscano confessione ex art. 2733 c.c. le ripetute dichiarazioni del difensore, ancorchè non munito di procura speciale sul punto, con le quali si riconosce alla controparte il diritto di proprietà sul bene da lei rivendicato, dichiarazioni rese in primo e in secondo grado e rese con la consegna del bene banco judicis a disposizione della controparte".
Tale quesito è inconferente, in quanto è del tutto privo della indicazioni delle ragioni giuridiche che dovrebbero indurre a ritenere la pretesa violazione da parte del giudice di appello delle norme sopra richiamate.
La censura, relativamente al denunciato vizio di motivazione, è comunque infondata.
La Corte territoriale ha ritenuto che era mancata l’identificazione del preteso anello di platino oggetto della domanda di rivendicazione da parte degli attuali ricorrenti, e che non era stata raggiunta la prova della sua esistenza nel patrimonio ereditario al momento del decesso di C.P.; in proposito ha rilevato che gli attori nel giudizio di primo grado avevano ammesso una donazione dell’anello predetto alle nipoti, ed avevano dedotto una suddivisione fisica di esso producendo uno dei due anelli ricavati, aggiungendo peraltro che le controparti avevano disconosciuto la identificazione di tale anello con la metà di quello a suo tempo in possesso della defunta.
Si è quindi in presenza di un accertamento di fatto sorretto da logica e congrua motivazione, come tale incensurabile in questa sede, dove del resto i ricorrenti contraddittoriamente si dolgono della mancata condanna delle controparti alla consegna di un anello (ovvero quello depositato nella cancelleria del Tribunale) da essi stesso ritenuto diverso da quello già posseduto da C.P..
Il ricorso deve pertanto essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento di Euro 200,00 per spese e di Euro 4000,00 per onorari di avvocato.
Così deciso in Roma, il 15 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2012
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