Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
P.R.D. ricorre per cassazione, con cinque motivi illustrati con memoria, nei confronti di T.G., avverso la sentenza n. 1149/09 in data 23 novembre 2009, con la quale la Corte di appello di Bari ha rigettato gli appelli dai medesimi proposti, rispettivamente in via principale e in via incidentale, contro la sentenza in data 11 marzo 2008 del Tribunale di Foggia, che – pronunciando sulla domanda di divisione giudiziale dei beni comuni proposta dalla T. nei confronti del coniuge P. a seguito di sentenza di separazione personale passata in giudicato – dopo aver disposto consulenza tecnica d’ufficio e individuato quali beni facenti parte della comunione legale, e quindi della massa da dividere, la quota del 50% di un appartamento e un locale box per auto in (OMISSIS), il valore di riscatto di alcune polizze e il saldo di un conto corrente bancario, così aveva provveduto:
– aveva determinato in Euro 156.343,59 il valore della quota spettante a ciascuno dei coniugi;
– aveva attribuito alla T. il box auto e il valore di riscatto di due polizze assicurative e al P. la quota pari al 50% dell’appartamento;
– aveva condannato il P. a pagare alla moglie la somma di Euro 82.538,00 a titolo di conguaglio in denaro, già rivalutato all’attualità, oltre agli interessi legali del 3% annuo sulla somma non rivalutata dalla data dello scioglimento della comunione (29 marzo 2003) sino all’effettivo soddisfo, nonchè la somma di Euro 121.592,00, oltre agli interessi legali dalla stessa data al saldo, a titolo di rimborso della quota di pertinenza della T. di fondi comuni "Arca", rientranti nella comunione legale ai sensi dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), avendo il primo giudice ritenuto ricompresi nel testoline acquisti non solo i diritti reali, ma anche i diritti di credito qualificabili come investimenti in valori mobiliari o capitalizzazioni (quali buoni del tesoro, titoli obbligazionari e di partecipazione societaria e quote di fondi comuni di investimento), ed infine l’ulteriore somma di Euro 38.280,00, oltre a interessi, a titolo di mancato reddito sulle proprie quote immobiliari.
La Corte di appello di Bari, nel rigettare i gravami e nel confermare la sentenza di primo grado, così motivava, per quel che rileva in questa sede:
– era priva di fondamento la tesi del P., secondo cui le quote di fondi comuni d’investimento costituiti con i proventi della svia attività professionale non potevano essere ricomprese nella comunione legale ex art. 177 c.c., comma 1, lett. a); infatti, secondo i giudici di appello, tali quote costituivano non soltanto oggetto di un diritto di credito, ma anche entità dotate di componente patrimoniale avente un proprio valore economico e di scambio;
– parimenti infondata era la censura in ordine alla errata stima dell’appartamento in (OMISSIS) e del conseguente valore della quota spettante alla T., dovendosi attribuire rilievo non alla destinazione ad uso ufficio attribuita all’immobile dal P., ma a quella (uso abitazione) risultante dall’atto di acquisto e dagli strumenti urbanistici e dovendosi imputare esclusivamente al P., che aveva modificato la destinazione d’uso, i costi da sostenere per la ristrutturazione dell’immobile ai fini del ripristino della sua originaria destinazione abitativa;
– le censure mosse alla consulenza tecnica d’ufficio ed ai criteri seguiti dal c.t.u. per la stima erano infondate, atteso che i criteri seguiti erano congrui e convincenti e la sentenza di primo grado aveva confutato le contrarie deduzioni del consulente di parte resistente;
– il corrispettivo dovuto alla T. per il mancato godimento dell’immobile non decorreva dalla data di proposizione della domanda giudiziale di divisione, come sostenuto dal P., ma dal momento precedente in cui questi era stato costituito in mora con raccomandata del 31 maggio 2002, dovendosi egli considerare da tale momento non più in buona fede, ma in ogni caso la sentenza di primo grado aveva stabilito la decorrenza dalla data di passaggio in giudicato della sentenza di separazione (29 marzo 2003) successiva a tale costituzione in mora.
Resiste con controricorso e memoria la T..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente – denunciando violazione dell’art. 177 c.c., comma 1, lettere a), b) e c), e art. 217 c.c. – censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello "erroneamente inquadrato" le quote di fondi comuni di investimento, acquistati esclusivamente con i proventi della propria attività professionale, "nell’ambito della comunione legale (c.d. immediata)" di cui all’art. 177 c.c., lett. a).
Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 720, 726 e 1116 c.c. e vizio di motivazione e si censura la sentenza impugnata per avere fatto riferimento, nella stima dell’appartamento attribuito al P., alla destinazione d’uso (abitazione) esistente al momento dell’acquisto e non a quella (ufficio) esistente al momento della pronuncia della divisione. Il ricorrente si duole anche della generica motivazione con la quale la Corte di merito ha disatteso le censure mosse alla stima effettuata dal consulente tecnico d’ufficio.
Con il terzo motivo si prospetta vizio di motivazione in ordine alla determinazione del valore locativo dell’appartamento e del conseguente corrispettivo spettante alla T. per il mancato godimento della propria quota dell’immobile.
Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 192, 194, 820 e 1148 c.c. e vizio di motivazione in ordine alla determinazione del periodo per il quale spetta alla T. il corrispettivo per il mancato godimento della propria quota di appartamento. Deduce il ricorrente che tale periodo decorre, ai sensi dell’art. 1148 c.c., dalla data di proposizione della domanda di divisione (nella specie dal 6 aprile 2004) e non dalla data di passaggio in giudicato della sentenza di separazione (29 marzo 2003), come invece ritenuto dalla Corte di appello sul presupposto che, in seguito ad un atto di costituzione in mora risalente al 22 aprile 2002, il P. non potesse più considerarsi possessore in buona fede e fosse pertanto tenuto a restituire i frutti percepiti.
Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 720, 728, 1224 e 1282 c.c. e si censura l’erronea determinazione della decorrenza degli interessi legali sulla somma attribuita alla T. a titolo di conguaglio in denaro, decorrenza stabilita dalla Corte di appello, in conformità alla decisione di primo grado, dalla data di passaggio in giudicato della sentenza di separazione e invece da fissare, secondo il ricorrente, dalla data della sentenza di divisione.
2. Il primo motivo è privo di fondamento.
L’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), nel prevedere che costituiscono oggetto della comunione "gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali", ricomprende nel proprio disposto gli atti acquisitivi di ogni genere di "bene", inteso quale oggetto di ogni tipo di diritti, non contenendo la norma alcuna specificazione delimitativa (Cass. 1999/5172; 2007/21098). Infatti la comunione legale fra i coniugi, come regolata dell’art. 177 c.c., e segg., costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria regolata dall’art. 1100 c.c., e segg., alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti, in relazione al quale la ratio della disciplina, che è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga acquisito e la natura reale o personale del diritto che forma oggetto. Con la conseguenza che i crediti, così come i diritti a struttura complessa come i diritti azionari, in quanto "beni" ai sensi degli artt. 810, 812 e 813 c.c., sono suscettibili di entrare nella comunione, ove non ricorra una delle eccezioni alla regola generale dell’art. 177 c.c., poste dall’art. 179 c.c. (Cass. 2007/21098, che ha confermato la decisione della Corte di merito, che ha ritenuto costituenti oggetto della comunione i titoli obbligazionari acquistati da un coniuge con i proventi della propria attività personale).
3. In particolare, la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 2009/799;
2011/4393) si è già espressa nel senso che restano esclusi dalla comunione legale, ai sensi dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), solo i meri diritti di credito che non abbiano una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio, come quelli derivanti da un contratto preliminare di compravendita (Cass. 2008/1548), dalla partecipazione ad una cooperativa edilizia a contributo erariale (Cass. 2005/12382; 2011/16305) o da un deposito bancario (Cass. 2006/1197), e che vi sono invece ricompresi, oltre ai titoli obbligazionari, i titoli di partecipazione azionaria e le quote di fondi d’investimento, che hanno una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio (Cass. 1994/7437;
1997/9355; 1999/5172; 2009/799; 2009/10386; 2011/4393). Soccorre a tale proposito anche l’orientamento giurisprudenziale, che, nell’escludere la configurabilità del fondo comune d’investimento come comunione o come soggetto autonomo distinto sia dai partecipanti che dalla società di gestione che lo ha istituito, ravvisa nel fondo stesso un patrimonio separato, in cui la separazione "garantisce adeguatamente la posizione dei partecipanti, i quali sono i proprietari sostanziali dei beni di pertinenza del fondo, lasciando però la titolarità formale di tali beni in capo alla società di gestione che lo ha istituito" (Cass. 2010/16605), restando così evidenziata, in forza di tale pronuncia, la componente patrimoniale insita nella quota di partecipazione al fondo.
4. Argomenti contrari non possono trarsi, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, dalla sentenza di questa Corte n. 1197 del 20 gennaio 2006, che, nel confermare l’orientamento secondo cui il denaro depositato su un conto corrente intestato ad un coniuge in regime di comunione legale non entra a far parte di tale comunione, non ha preso in considerazione la circostanza che nel caso di specie il denaro era stato successivamente reinvestito in quote di fondi comuni e non ha quindi affrontato il problema dell’eventuale caduta in comunione legale immediata delle quote di partecipazione a fondi comuni d’investimento. Ciò è infatti dipeso non dalla implicita considerazione, da parte della Corte di legittimità, che la sottoscrizione di quote di fondi comuni d’investimento non dia luogo ad acquisto suscettibile di rientrare nella comunione legale a norma dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. a) – come invece ritenuto dal ricorrente – ma dalla circostanza, risultante dalla stessa sentenza di legittimità qui richiamata, che in quel giudizio il giudice di appello aveva escluso che l’acquisto di quote di fondi comuni fosse caduto in comunione legale, trattandosi di surrogazione di un bene personale ai sensi dell’art. 179 c.c., comma 1, lett. f), e che tale statuizione non era stata censurata dalla ricorrente, che aveva invece dedotto che il denaro ricavato dalla vendita di bene personale era stato depositato, prima del reinvestimento in quote di fondi comuni, su un conto corrente del coniuge in comunione legale, cadendo per ciò solo nella comunione legale. Pertanto nel giudizio di legittimità definito con la menzionata sentenza di questa Corte n. 1197 del 2006, il tema dell’eventuale caduta in comunione legale immediata delle quote di partecipazione a fondi comuni d’investimento era estraneo ai motivi di impugnazione e non costituiva oggetto del giudizio medesimo.
5. E’ invece fondato il secondo motivo di ricorso. La Corte di appello di Bari, ai fini della stima dell’immobile sito in (OMISSIS), ha attribuito rilievo alla destinazione d’uso dell’appartamento quale risultante dall’atto di acquisto (abitazione) e non a quella (ufficio) attribuita successivamente all’immobile e ancora esistente all’epoca della divisione.
Tuttavia il criterio seguito dal giudice dell’appello si pone in contrasto con il principio giurisprudenziale secondo cui, avendo il giudizio divisorio la finalità di assicurare la formazione di porzioni di valore corrispondente alle quote, deve procedersi alla stima del bene da dividere, che va determinata con riferimento al valore del bene stesso al momento della decisione della causa di divisione, o comunque a epoca non troppo lontana rispetto a quella della decisione (Cass. 2000/9659; 2006/17487; 2007/3635; 2009/3029).
Colgono nel segno anche le censure sollevate dal ricorrente in ordine alla inadeguatezza della motivazione con la quale la Corte di merito ha disatteso le critiche mosse dal P. nell’atto di appello nei confronti dei criteri utilizzati dal consulente tecnico d’ufficio per la stima del valore di mercato dell’appartamento di cui trattasi e in particolare per la determinazione del prezzo unitario, stabilito in Euro 2.200/mq. sulla base di "indagini in merito ai prezzi medi di mercato", senza alcun supporto documentale e senza l’indicazione delle fonti e degli elementi oggettivi su cui la stima stessa si è fondata, a fronte di una stima del prezzo unitario lordo di Euro 1.700/mq., effettuata dal consulente di parte sulla base della media dei prezzi minimi e massimi riportati, per gli immobili ad uso ufficio, nella Banca dati delle quotazioni immobiliari dell’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia del territorio. Sul punto, infatti, la Corte di merito si è limitata ad affermare genericamente che i criteri utilizzati per la stima dal c.t.u. "appaiono congrui e convincenti e la sentenza impugnata si è anche data carico di confutare le contrarie deduzioni e i diversi criteri di calcolo operati dal C.T. di parte resistente in prime cure", con una motivazione del tutto apparente, che non consente di ricostruire l’iter logico posto a base della decisione e le ragioni della conferma sul punto della sentenza di primo grado, malgrado le contestazioni specificamente mosse dall’appellante alla consulenza tecnica d’ufficio su cui la decisione stessa si era basata e che di tali contestazioni non risulta essersi fatta carico alla stregua di quanto è dato evincere dalla sentenza impugnata. Osserva al riguardo il collegio che, allorquando ad una consulenza tecnica d’ufficio siano mosse critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte, il giudice che intenda disattenderle ha l’obbligo di indicare nella motivazione della sentenza le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente le conclusioni del proprio consulente, ove questi a sua volta non si sia fatto carico di esaminare e confutare i rilievi di parte (incorrendo, in tal caso, nel vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5) (Cass. 2008/10688). Infatti il potere del giudice del merito di apprezzare il fatto non equivale ad affermare che egli possa farlo immotivatamente e non lo esime, in presenza delle riferite contestazioni, dalla spiegazione delle ragioni – tra le quali evidentemente non si annovera il maggior credito che egli eventualmente tenda a conferire al consulente d’ufficio quale proprio ausiliare – per le quali sia addivenuto ad una conclusione anzichè ad un’altra, incorrendo, altrimenti, proprio nel vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia (Cass. 2007/4797).
6. Analoghe considerazioni devono essere svolte con riferimento al terzo motivo, anch’esso fondato. Il P. aveva censurato specificamente la conclusione a cui era pervenuto il consulente tecnico d’ufficio in ordine alla stima del valore locatizio del menzionato appartamento, utilizzato quale base di calcolo del corrispettivo da riconoscere alla T. per il mancato godimento della propria quota. In particolare l’appellante aveva contestato che il c.t.u. avesse determinato in Euro 2.156,00 (per un corrispettivo unitario di Euro 11/mq.) il possibile canone di locazione sulla base di proprie conoscenze personali del mercato, non suffragate dall’indicazione di fonti attendibili o di dati oggettivi, mentre il consulente di parte aveva preso a riferimento sei contratti di locazione (allegati all’elaborato peritale) aventi ad oggetto immobili adibiti a uso ufficio e ubicati nel medesimo stabile, dai quali risultava un canone mensile unitario di Euro 4,61/mq. di superficie lorda o di Euro 5,41/mq. di superficie netta, di gran lunga inferiore a quello indicato dal consulente d’ufficio. Anche di fronte a tali argomentate critiche, la Corte di merito si è limitata a rilevare del tutto genericamente che i criteri utilizzati dal c.t.u. erano congrui e convincenti, con una motivazione apparente del tutto inidonea a dar conto delle ragioni della decisione.
7. E’ fondato anche il quarto motivo. Osserva infatti il collegio che all’esito dello scioglimento della comunione legale, ciascun coniuge può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti agli artt. 192 e 194 c.c., e il coniuge rimasto nel possesso esclusivo dei beni fruttiferi già appartenenti alla comunione legale è tenuto, in base ai principi generali (art. 820 c.c., comma 3), al pagamento, in favore dell’altro coniuge, del corrispettivo "pro quota" di tale godimento, quali frutti spettanti "ex lege", a prescindere da comportamenti leciti o illeciti altrui.
Tali frutti civili si acquistano giorno per giorno in ragione della durata del diritto (art. 821 c.c., comma 3), a far data dalla domanda di divisione, quale momento d’insorgenza del debito di restituzione ("pro quota") del bene medesimo (art. 1148 c.c.) (Cass. 2005/10896).
La Corte di appello di Bari, nel far decorrere l’obbligo di restituzione dei frutti a carico del comproprietario rimasto in possesso del bene a decorrere dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di separazione dei coniugi, sul presupposto che il possessore non era più in buona fede in conseguenza di un precedente atto di costituzione in mora, non si è uniformata al principio sopra enunciato, che fissa l’insorgenza del debito di restituzione alla data della domanda di divisione e non a quella di costituzione in mora, trovando qui applicazione la tutela prevista per il possessore di buona fede, in senso oggettivo, dall’art. 1148 c.c., a norma del quale tale possessore è obbligato a restituire i frutti soltanto dalla domanda giudiziale, alla cui data retroagiscono gli effetti della sentenza (Cass. 2006/17558).
Non può essere condivisa l’argomentazione dei giudici di appello, secondo cui, in seguito all’atto di costituzione in mora del 22 aprile 2002, il P. non avrebbe potuto più essere considerato in buona fede. Infatti, a norma dell’art. 1147 c.c., comma 3, la buona fede va valutata con riferimento esclusivamente al tempo dell’acquisto (art. 1147 c.c., comma 3) e nella specie risulta pacifico che il P. ha acquistato l’immobile in comunione con la moglie, rimanendone quindi compossessore (di buona fede) anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale.
8. In relazione al quinto motivo, va preliminarmente disattesa l’eccezione svolta dalla controricorrente, secondo cui, avendo ella richiesto – nell’atto di precetto intimato sulla base della sentenza di primo grado – gli interessi legali relativi al conguaglio solamente dalla data del precetto stesso, così rinunciando a pretenderli con decorrenza dalla data di passaggio in giudicato della sentenza di separazione, il ricorrente non avrebbe più interesse all’impugnazione sul punto. Invero la richiesta formulata dalla creditrice, in sede di esecuzione della sentenza di primo grado, di interessi sul conguaglio a decorrere dalla data del precetto non costituisce di per sè sola, in mancanza di altri (Aggettivi elementi di valutazione, comportamento univoco chiaramente indicativo della volontà di rinunciare ad avvalersi dell’efficacia del differente giudicato che si sarebbe necessariamente formato, in mancanza di impugnazione da parte del P., in punto di decorrenza degli interessi dalla data di passaggio in giudicato della sentenza di separazione.
Nel merito, la censura è fondata. Infatti, in tema di divisione giudiziale, la somma dovuta a conguaglio dal condividente assegnatario a quello non assegnatario ha natura di debito di valore, che sorge, dopo lo scioglimento della comunione, all’atto dell’assegnazione ad uno soltanto dell’intero bene non comodamente divisibile. Da tale momento, sulla somma relativa sono dovuti gli interessi corrispettivi (Cass. 2000/9659; 2004/2483; 2004/12818).
La Corte di appello di Bari – nel confermare la sentenza di primo grado, che aveva fatto decorrere gli interessi sulla somma versata a conguaglio dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di separazione dei coniugi e non dalla sentenza di divisione con la quale l’intero immobile era stato assegnato al P., gravato per tale ragione dell’obbligo di corrispondere alla T. un somma a titolo di conguaglio – non si è uniformata al principio sopra enunciato e pertanto la relativa doglianza del ricorrente merita accoglimento.
Le considerazioni che precedono conducono al rigetto del primo motivo e all’accoglimento degli altri motivi. La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata in ordine alle censure accolte e, poichè sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va rinviata, per un nuovo esame dell’atto di appello alla luce delle considerazioni fin qui svolte e dei principi di diritto in precedenza richiamati, ad altro giudice, che si individua nella Corte di appello di Bari in diversa composizione, che provvederà anche a regolare le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo e accoglie gli altri. Cassa la sentenza impugnata in ordine alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Bari in diversa composizione.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2012
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