Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole
Fatto e diritto
Propone ricorso per cassazione C. G. avverso la sentenza in data 15 luglio 2009 della Corte di appello di Palermo con la quale è stata confermata la decisione di primo grado, affermativa della sua responsabilità in ordine al reato di furto aggravato, ai sensi dell’art. 624 bis c.p., commi 1 e 3 e art. 625 c.p., nn. 2 e 5, nonché art. 61 c.p., n. 5, fatto del 13 giugno 2007.
L’imputato, giudicato con rito abbreviato, è stato riconosciuto responsabile del furto in concorso con altri, posto che i Carabinieri, allertati da una chiamata anonima, avevano seguito un’auto rinvenuta sul luogo della segnalazione e poi condotta altrove: in un luogo cioè ove gli occupanti l’avevano abbandonata dandosi alla fuga. Nell’auto in questione, oltre alla refurtiva asportata dal bar oggetto della segnalazione, la PG rinveniva anche dei telefonini cellulari, uno dei quali non solo riportava la foto del ricorrente ma, oltre a ciò, squillava per effetto della chiamata di una donna poi risultata essere la sorella del C., alla ricerca proprio di costui.
Deduce:
1) la omessa pronuncia sulla richiesta assolutoria formulata nei motivi di appello;
2) la violazione dell’art. 624 bis c.p. La Corte di appello aveva ritenuto sussistente la speciale fattispecie di furto in luogo di privata dimora facendo leva sulla presenza, all’interno del bar, di spazi nei quali la persona offesa poteva svolgere, anche in modo contingente atti di vita privata.
Tale non era però la situazione in concreto verificatasi posto che il furto era stato perpetrato ai danni di un bar nel quale nessun atto di vita domestica veniva svolto; la nuova fattispecie, d’altra parte, deve ritenersi a tutela dei luoghi di dimora e non dei luoghi ove si svolge l’attività lavorativa, tanto più se pubblici;
3) la violazione dell’art. 625 c.p., nn. 2 e 5.
L’aggravante della violenza sulle cose era stata ritenuta sussistente sulla base di circostanze di fatto (effrazione della rete del giardino, manomissione dell’impianto di allarme) non contestate nella imputazione. La sola circostanza contestata (asportazione della grata previo svitamento dei fissaggi) non era invece tale da integrare la circostanza aggravante in esame.
4) la omessa motivazione sulla entità della pena, determinata in misura assai elevata.
Il ricorso è infondato.
Il primo motivo è inammissibile per genericità.
La difesa, contravvenendo al disposto dell’art. 581 c.p.p. non ha indicato le ragioni in fatto che avrebbero dovuto comportare l’accoglimento del motivo di appello volto alla assoluzione e che, ai fini della ammissibilità del motivo di ricorso, avrebbero dovuto essere prospettate e articolate al giudice a quo.
Il secondo motivo è infondato.
L’art. 624 bis c.p., innovando rispetto alla precedente formulazione dell’art. 625 c.p. che puniva più gravemente la condotta di furto realizzatasi attraverso la introduzione o l’intrattenersi in un edificio destinato ad altrui “abitazione”, prevede nella nuova formulazione, vigente dal 2001, la condotta dell’impossessamento mediante introduzione in un luogo destinato “a privata dimora”.
Si è trattato di una innovazione che in parte ha recepito i risultati della precedente elaborazione giurisprudenziale sulla nozione di “abitazione” presente nella vecchia formulazione e che, nella nuova, mantiene comunque la propria presenza nella rubrica della norma.
Infatti, già nel vigore della previgente previsione, la nozione di abitazione, evocando quella del luogo finalizzato a soddisfare esigenze della vita domestica e familiare, aveva consentito di includervi ad esempio il locale autorimessa staccato dalla abitazione principale, v. Rv. 192547, o l’ospedale, v. Rv. 194349.
Con la nuova norma, il mutamento di tipo anche semantico ha comportato, a maggior ragione, che debba intendersi più gravemente valutato e punito il comportamento di chi si impossessi della cosa altrui mediante introduzione in uno dei luoghi nei quali la persona compia, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata: tale essendo il luogo di “privata dimora” che è nozione più ampia e comprensiva di quella di “abitazione”, come è dimostrato anche dalla formulazione dell’art. 614 c.p., ove sono entrambi presenti.
Sul punto è utile ricordare come anche la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di sottolineare da tempi risalenti che il concetto di privata dimora è più ampio di quello di abitazione e rientra in esso qualsiasi luogo esclusa la casa di abitazione, dove ci si soffermi ad esercitare, anche transitoriamente manifestazioni della attività individuale per motivi leciti i più diversi: studio, cultura, lavoro, svago, commercio: pertanto è stato ritenuto luogo di privata dimora lo stabilimento industriale o il partito politico (Rv. 134378). Con la ulteriore conseguenza che anche un pubblico esercizio, nelle ore di chiusura, nelle quali, interrotto ogni rapporto con l’esterno, viene dal proprietario utilizzato per lo svolgimento di un’attività lavorativa, sia pure inerente alla gestione del locale stesso, costituisce un luogo di privata dimora (Rv. 149312).
Pertanto, anche un esercizio commerciale o, come nella specie, un bar sono luoghi nei quali i soggetti che ivi si intrattengono anche solo per svolgere attività lavorativa pongono in essere atti anche relativi alla propria sfera privata.
In giurisprudenza tale conclusione risulta già condivisa da Rv. 244432, Rv. 239980, Rv. 238493, Rv. 226415.
La doglianza del ricorrente, che evidentemente riecheggia approdi afferenti alla precedente formulazione normativa è pertanto infondata.
La Corte ha invero attestato che i responsabili del furto si erano introdotti anche nei locali retrostanti ove era un laboratorio, servizi igienici ed un piccolo ufficio, ambienti destinati a far svolgere al gestore e ai dipendenti attività collaterali o preparatorie, connesse con il servizio di somministrazione di bevande.
Infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
La Corte ha bene applicato il principio enunciato da questa Corte secondo cui sussiste l’aggravante della violenza sulle cose (art. 625 c.p., n. 2) tutte le volte in cui il soggetto, per commettere il fatto, fa uso di energia fisica, provocando la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione della cosa altrui o determinandone il mutamento nella destinazione (Rv. 235541). Nella specie è indubbio che asportando dal muro la inferriata posta a protezione della finestra dell’esercizio commerciale i responsabili del fatto hanno alterato e fatto venire meno la destinazione propria della inferriata che era quella di costituire un saldo ostacolo alla penetrazione nel locale da parte di soggetti non ammessi. Non ha quindi rilievo ogni alto profilo di censura sul punto.
Infine il quarto motivo è formulato in termini inammissibili.
La censura articolate in relazione alla conferma del trattamento sanzionatorio manca della indicazione specifica delle ragioni in fatto e in diritto che, pur rappresentate al giudice dell’appello, sarebbero state poi ingiustificatamente trascurate.
Per contro, il complesso della ricostruzione della vicenda da conto di particolari in fatto che rendono evidente l’apprezzamento della gravità della vicenda da parte del giudice dell’appello ai sensi dell’art. 133 c.p., con la conseguenza che non può dirsi che la Corte abbia apoditticamente e acriticamente ribadito il trattamento sanzionatorio già individuato dal primo giudice.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
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