Cass. civ. Sez. I, Sent., 24-07-2012, n. 12965 Curatore

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Dichiarato con sentenza del Tribunale di Grosseto il 27 gennaio 1994 il fallimento di B.M., la curatela fallimentare convenne in giudizio, davanti al tribunale di Grosseto la s.r.l.

Riano 74 ed B.E., sorella del fallito, esponendo che in data (OMISSIS) era deceduta la madre del fallito, M. G.; che la quota ereditaria era assoggettata alla liquidazione concorsuale; che la convenuta B., quale mandataria della defunta, aveva stipulato, in date 19 e 23 dicembre 1996, due distinti atti di vendita di cespiti immobiliari di proprietà della defunta a favore della società Riano, e che detti atti erano pregiudizievoli alla massa. La curatela chiese accertarsi l’inefficacia o la nullità per simulazione dei due contratti, e, in via subordinata, la revoca L. Fall., ex art. 66, degli stessi contratti e la condanna della B. alla restituzione delle somme riscosse, oltre al risarcimento del danno per cattiva gestione del rapporto di mandato.

Eccepita dai convenuti l’incompetenza del tribunale fallimentare, il Tribunale di Grosseto, con sentenza 8 maggio 2000, dichiarò la sua incompetenza territoriale a favore del tribunale del luogo di residenza dell’una o dell’altra convenuta. Il curatore propose istanza di regolamento di competenza avverso questa sentenza. La Corte Suprema di Cassazione, con sentenza 30 aprile 2001, rigettò il ricorso.

Osservò la corte che l’azione tendeva a far dichiarare la nullità o l’inefficacia di atti posti in essere non dal fallito, ma da terzi e il curatore aveva agito non in rappresentanza dei creditori, ma per ottenere, in sostituzione e a tutela del fallito (L. Fall., art. 42, comma 1), l’incremento dell’asse ereditario; e tale azione sussistendo indipendentemente dalla dichiarazione di fallimento, si pone con questa in rapporto di mera occasionalità e non di derivazione causale ai sensi della L. Fall., art. 24. Neppure valevano a radicare la competenza del tribunale fallimentare le altre domande proposte in via subordinata, risultando dall’esposizione dei fatti e dalle prospettazioni della parte, prima facie, che la domanda del curatore di dichiarare inefficaci gli atti posti in essere dalla B. per conto della G. non postulava (al di là del riferimento normativo in essa contenuto) alcuna relazione causale con la dichiarazione di fallimento pronunciata a carico di M. B..

Riassunta la causa davanti al giudice territorialmente competente, il Tribunale di Roma, con sentenza 27 gennaio 2004, dichiarò la simulazione assoluta di entrambi gli atti pubblici di vendita, affermando l’equiparabilità del curatore fallimentare al creditore del simulato alienante, e utilizzando delle presunzioni semplici.

La Corte d’appello di Roma, con sentenza 10 settembre 2009, ha confermato la decisione, ritenendo assorbite le domande subordinate riproposte dal fallimento. La corte ha premesso che l’azione di simulazione, essendo tra quelle che comunque incidono sul patrimonio del fallito, rientra tra le "azioni derivanti dal fallimento" ai sensi della L. Fall., art. 24; per questa ragione, correttamente la causa sarebbe stata assegnata alla sezione fallimentare del Tribunale di Roma. La corte ha rilevato poi che, sebbene erroneamente il tribunale avesse affermato l’equiparazione nella fattispecie del curatore al creditore del simulato alienante, mentre in realtà la massa era creditrice del fallito B., e non della simulata alienante, madre di lui, ancora in vita al tempo degli atti simulati, tuttavia il curatore, in ragione della funzione pubblica "connessa alle finalità di gestione del concorso dei creditori del fallito, si trova sempre in una situazione di autonomia rispetto alle aspettative e ai diritti dell’uno e degli altri; sicchè, anche quando agisce avvalendosi della legittimazione all’azione spettante al fallito, proprio in quanto portatore della concorrente legittimazione dei creditori insinuati, terzi rispetto al contratto impugnato, sarebbe terzo quoad probationem, e tale sarebbe anche se agisse in luogo del contraente fallito. Nel valutare gli indizi della simulazione, la corte ha poi svalutato il valore contrario del preliminare per scrittura privata sottoscritto dalla venditrice e dalla società RIANO nel gennaio 1996 con scadenza 23 dicembre 1996, per l’insufficiente determinazione del prezzo, e perchè posteriore al fallimento e inopponibile alla massa in mancanza di autenticazione delle sottoscrizioni.

Per la cassazione di questa sentenza non notificata, ricorre la Riano 74 s.r.l. con atto notificato il 2 novembre 2010, per tre motivi.

B.E. ha depositato controricorso con il quale aderisce ai motivi del ricorso principale, e ricorso incidentale per ulteriori tre motivi notificato il 30 dicembre 2010 ma spedito il 13 dicembre 2010.

La curatela resiste a entrambi i ricorsi con distinti controricorsi, notificati il 13 dicembre 2010 e l’8 febbraio 2011.

B.E. ha depositato anche memorie, nonchè note di udienza in replica alle conclusioni del Procuratore generale.
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si censura per falsa applicazione dell’art. 1417 c.c. l’impugnata sentenza, nella parte in cui afferma che l’azione del curatore, per l’accertamento della simulazione delle vendite immobiliari stipulate con un terzo dalla madre del fallito, poi deceduta in costanza di fallimento, non sarebbe soggetta ai limiti dell’art. 1417 c.c., dovendosi il curatore considerare, in tale azione, come terzo.

Sulla questione di diritto posta dal motivo deve registrarsi un lontano precedente di questa corte, contrario alla tesi della parte ricorrente. Si è ritenuto infatti, in quell’occasione, che, poichè il curatore non rappresenta nè il fallito, nè la massa dei creditori, ma è un organo pubblico che agisce per la realizzazione dei fini che sono propri del fallimento, egli deve essere considerato terzo, con le conseguenze che da tale qualità derivano in ordine ai mezzi di prova di cui può avvalersi (art. 1417 cod. civ.), quando agisce per far dichiarare la simulazione di atti posti in essere non solo dal fallito, ma anche dal dante causa di questi, i cui effetti, una volta accettata l’eredità, si trasferiscono nel fallimento (Cass. 12 agosto 1963 n. 2314).

Il collegio ritiene tuttavia che la questione meriti un’attenta riconsiderazione, sia perchè per alcuni profili quella conclusione non appare coerente con altri principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza di questa corte, e sia perchè quella decisione sollevò alcune critiche, da parte della dottrina più autorevole, che richiedono una riflessione.

Occorre muovere dalla ragione posta a fondamento della decisione in quel lontano precedente, vale a dire dalla considerazione che il curatore non rappresenta nè il fallito, nè la massa dei creditori, ma è un organo pubblico che agisce per la realizzazione dei fini che sono propri del fallimento. Il principio è solidamente consolidato nella giurisprudenza della corte, ma il suo significato deve essere ulteriormente chiarito. Esso attiene alla legittimazione del curatore, che discende direttamente dalla L. Fall., art. 43, per il quale nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore. Come tale, la legittimazione processuale prescinde da ogni forma di rappresentanza, negoziale o figurata, ed è funzionale alla realizzazione dei fini propri del fallimento. Si tratta tuttavia di legittimazione processuale, che non cancella la specificità delle azioni esercitate dal curatore, le quali sono definite in funzione delle posizioni di diritto sostanziale di volta in volta protette. E’, infatti, del pari risalente e consolidata la giurisprudenza di questa corte nel senso che il curatore fallimentare, pur svolgendo una funzione pubblicistica, svolge un’attività, certo distinta da quella del fallito e dei creditori, che si attua nel campo strettamente privatistico, ma da quelle condizionata, onde egli si pone, rispetto ai rapporti giuridici preesistenti, a volta, come terzo, e, a volta, come avente causa del fallito. E così, quando il curatore esercita un diritto proprio del fallimento, come avviene in relazione a negozi compiuti dal fallito prima della dichiarazione di fallimento, è indubbiamente terzo, mentre quando esercita un diritto che egli ha trovato nel fallimento e nel quale è succeduto, non può essere considerato che avente causa del fallito (a partire almeno da Cass. 17 luglio 1962 n. 1903).

Tal è l’ipotesi del curatore che spiega un’azione di recupero di un credito di spettanza del fallito, poichè egli, pur agendo nell’interesse della massa, è subentrato in un rapporto giuridico preesistente e attua un diritto che il fallito avrebbe potuto far valere se non fosse intervenuta la sentenza dichiarativa di fallimento. E non si dubita del fatto che, quando esercita un’azione rinvenuta nel patrimonio del fallito stesso, il curatore si pone nella sua stessa posizione sostanziale e processuale, nella posizione, cioè, che avrebbe avuto il fallito agendo in proprio al fine di acquisire al suo patrimonio poste attive di sua spettanza già prima della dichiarazione di fallimento, e indipendentemente dal dissesto successivamente verificatosi. Da ciò si è tratta la conseguenza che, evocato in giudizio dal curatore, il terzo convenuto può a questi legittimamente opporre tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’imprenditore fallito, comprese le prove documentali da questi provenienti, senza i limiti di cui all’art. 2704 cod. civ. (Cass. 24 novembre 1998 n. 11904).

Ai fini della decisione del caso di specie è pertanto essenziale stabilire se il curatore, facendo valere la simulazione di un atto compiuto dal dante causa dell’erede fallito, agisca utendo iuribus del fallito medesimo, rimanendo soggetto ai limiti, anche di prova, ai quali questo sarebbe andato incontro promovendo egli stesso l’azione; o invece a tutela della massa dei creditori, ma svolgendo un’azione che i creditori stessi avrebbero potuto svolgere se non fosse stato dichiarato il fallimento; o infine in forza di un’azione che nasce dal fallimento medesimo, come avviene ad esempio nel caso delle azioni revocatorie fallimentari.

Come è stato efficacemente sottolineato dalla dottrina, nel regolamento della simulazione la legge opera una precisa distinzione tra creditori e terzi, il cui significato andrebbe perduto se gli stessi creditori, in quanto tali, dovessero considerarsi terzi agli effetti dell’art. 1417 c.c..

Creditori, legittimamente interessati a far accertare la simulazione, sono i creditori del simulato alienante, che vantano una legittimazione non secondaria e subordinata (dunque surrogatoria), bensì primaria e indipendente, perchè espressione del potere avessi spettante iure proprio come autonomo mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale. Di contro ad essi, nell’art. 1417 c.c. terzi non sono tutti gli estranei all’atto, che abbiano un legittimo interesse a far accertare la simulazione, bensì esclusivamente coloro che fanno valere un diritto sul bene alienato, non meramente strumentale alla soddisfazione di un credito, ma diretto e incompatibile con gli effetti dell’atto simulato. Tal è il caso dell’avente causa dal simulato alienante, e tal è anche il caso dell’erede legittimario.

I creditori dell’erede del simulato alienante non solo, dunque, nel senso dell’art. 1417 c.c. non sono creditori, ma non sono neppure terzi. Ciò nonostante, non si dubita che essi possano agire per far accertare la simulazione dell’atto compiuto dal dante causa del loro debitore; ciò possono fare, tuttavia non già in forza di un diritto che la legge riconosce in capo a loro autonomamente, come nel caso dei creditori del simulato alienante o dei terzi ex art. 1417 c.c., ai quali la legge consente la prova per testimoni senza limiti (art. 1417 c.c.), bensì con un’azione surrogatoria, tutelando il patrimonio del loro debitore nell’inerzia del titolare dell’azione, a norma dell’art. 2900 c.c.; e in tale azione, conseguentemente, essi sono soggetti a tutti i limiti di prova stabili dall’art. 2722 c.c..

La medesima azione, poi, può certamente proporre il curatore fallimentare che tuttavia, non diversamente dai creditori dell’erede in bonis, agirebbe surrogandosi nei diritti del fallito, e non in forza di una posizione di diritto sostanziale originariamente riconosciutagli dalle legge. L’azione in questione, infatti, non è di quelle che derivino dal fallimento, e per le quali la legge appresti strumenti particolari, diversi da quelli di cui disporrebbe l’erede in bonis. In particolare, non può assimilarsi una tale azione – di natura, come s’è detto surrogatoria – a un’azione revocatoria, perchè qui non si tratta di contrastare l’efficacia di un atto posto in essere dal fallito e che pregiudichi la garanzia patrimoniale dei creditori: a determinare tale pregiudizio è, al contrario, l’inerzia del titolare dell’azione, volontaria nel caso che questi sia in bonis, o derivante dalla L. Fall., art. 42, nel caso di fallimento. E’ a tale inerzia che occorre supplire, e a tanto soccorre l’azione in esame, che ha dunque natura lato sensu surrogatoria. Il profilo pubblicistico della figura del curatore, pertanto, se rileva nel senso di riservare esclusivamente a lui, e nell’interesse della massa, l’azione altrimenti esperibile dall’erede del simulato alienante o dai suoi creditori, non ha alcuna incidenza sulla natura dell’azione, che si svolge utendo iuribus del fallito e con i limiti, anche sul piano probatorio a essa immanenti. Egli, pertanto, non può essere considerato terzo ai fini del regime della prova della simulazione. Solo qualora si facesse questione di lesione del diritto dell’erede legittimario, questi dovrebbe essere considerato terzo, nel senso dell’art. 1417 c.c., e di ciò si avvantaggerebbe altresì il curatore del suo fallimento; ma nè dalla sentenza nè dagli scritti difensivi della parti risulta che sia mai stata adombrata una tale lesione. Questa situazione, infine, non è influenzata dalla circostanza che l’azione di simulazione in capo all’erede preesista al suo fallimento, o vi pervenga dopo la dichiarazione di fallimento, a norma della L. Fall., art. 42 cpv., posto che l’azione entra nel patrimonio del fallito con i suoi limiti intrinseci, che vincolano il curatore come il fallito stesso. La fondatezza di questo motivo, in conclusione, porta alla cassazione della sentenza, che si è attenuta all’opposto principio di diritto.

Con il secondo motivo si censura per violazione degli artt. 2703 e 2704 nonchè per violazione dell’art. 1346 e per vizi di motivazione l’impugnata sentenza, nella parte in cui esclude che le sottoscrizioni del preliminare fossero autenticate da notaio, e che il prezzo della vendita fosse determinabile.

Il motivo è superato dall’accoglimento del motivo precedente. Il curatore, agendo in luogo del fallito, successore universale del simulato alienante, avrebbe dovuto disconoscere alla prima udienza utile la sottoscrizione del preliminare, e in mancanza di ciò l’autenticità della sottoscrizione deve ritenersi riconosciuta. Nè poi la questione, che involge la prova della validità dell’atto pubblico di vendita, conserva qualche rilievo, una volta accertato che l’onere della prova della simulazione grava interamente sul curatore.

Per le stesse ragioni deve ritenersi assorbito il terzo motivo, con il quale si censura, per violazione o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, l’impugnata sentenza nella parte in cui dichiara inammissibile la produzione in appello delle copie degli assegni circolari, allegati dalla parte a dimostrazione del pagamento avvenuto.

L’esame delle questioni sollevate con il ricorso incidentale è riservato al giudice di rinvio, che nel decidere la causa, anche ai fini del regolamento delle spese di questo grado di giudizio, si uniformerà al seguente principio di diritto:

il curatore del fallimento dell’erede del simulato alienante, che chieda l’accertamento della simulazione dell’atto compiuto dal dante causa del fallito, agisce avvalendosi dei poteri di questo, e non versa nella situazione dei creditori del simulato alienante nè dei terzi, nel significato che questo termine ha nell’art. 1417 c.c., sicchè è soggetto ai limiti della prova testimoniale derivanti dall’art. 2722 c.c..
P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale; dichiara assorbiti gli altri motivi del ricorso principale e il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche ai fini del regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità, alla corte d’appello di Roma in altra composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione, il 9 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2012

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